Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
GLI ALTRI PAESI RISPONDONO: “FATELI A VOSTRE SPESE”… LA RISPOSTA MIGLIORE? COSTRUITE PURE I VOSTRI MURI, MA POI DA QUELLI NON USCITE PIU’, NON VOGLIAMO RAZZISTI NEL NOSTRO PAESE, ANZI ACCOGLIETE PURE I NOSTRI, COSI’ CE LI TOGLIAMO DAI COGLIONI
L’Unione Europea benedice i muri anti-immigrati che molti paesi dell’est vogliono costruire lungo il confine esterno del continente. Ma non con fondi europei. Motivazione? I fondi sono pochi.
Non c’è alcun’altra considerazione di tipo umanitario, etico o morale nel ragionamento che la Commissaria all’immigrazione Ylva Johansson snocciola in conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri degli Interni a Lussemburgo. La novità di oggi sancisce un netto cambio di approccio dell’Unione sul tema dell’immigrazione: dalla condanna ai muri che costruiva Donald Trump alla frontiera col Messico (muri che Bill Clinton aveva iniziato a costruire quando era presidente degli Usa) all’adozione dello stesso identico metodo per respingere i migranti che arrivano da Afghanistan, Iran, Siria e le altre rotte dell’est.
La questione viene riportata a galla da una lettera che 12 paesi dell’est e del nord Europa spediscono a Bruxelles. La missiva è firmata dai ministri degli Interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia.
Questi Stati membri, alle prese con flussi di immigrazione diventati più massicci dopo il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan e con i ricatti di Lukashenko che spinge i profughi che arrivano in Bielorussia verso il confine europeo, chiedono che la costruzione delle barriere anti-immigrati lungo i confini esterni venga finanziata con fondi europei.
Il tema è finito sul tavolo del Consiglio europeo di oggi a Lussemburgo e non è apparsa come richiesta ‘marziana’. Anzi.
Sia Johansson che la presidenza di turno slovena dell’Ue comprendono le preoccupazioni e i metodi di questi 12 Stati membri. Solo che non ci sono soldi a sufficienza.
Ecco cosa dice la commissaria: “Abbiamo bisogno di rafforzare la protezione dei confini esterni e vedo che alcuni Paesi membri stanno facendo qualcosa. Non ho nulla contro di loro che stanno costruendo muri. Ma non si può fare con i fondi europei: sono gli Stati membri dell’Ue che hanno deciso di tagliarli sull’immigrazione”. Poi aggiunge: “Il nuovo Patto sull’immigrazione”, che la Commissione presentò l’anno scorso dopo gli incendi che distrussero il mega-campo di accoglienza a Lesbo, piano che non è mai stato discusso, tanto meno approvato dagli Stati membri, “è lì sul tavolo – continua Johansson – e aiuterà a proteggere i confini esterni. Abbiamo tante cose da approvare, prima che ne vengano presentate di nuove”.
Per essere chiari, Johansson poi specifica che la sua non è una posizione personale: “Rappresento la Commissione Europea, non me stessa. Gli Stati hanno il diritto e la responsabilità di proteggere i confini e sono nella posizione migliore per decidere come. Se pensano che bisogna costruire dei muri, lo possono fare. Non con i fondi Ue che sono già limitati”.
Seduto di fianco a Johansson, il ministro degli Interni sloveno Aleš Hojs sottolinea che la presidenza di turno dell’Ue “sostiene la proposta dei 12 paesi che hanno inviato la lettera, non l’abbiamo firmata perché come presidenza non l’abbiamo ricevuta”.
Dunque, ormai è ufficiale: l’approccio dell’Ue sull’immigrazione è cambiato decisamente.
Ma ora colpisce la spudoratezza ad affermare posizioni che anni fa a Bruxelles quanto meno non avrebbero mai ammesso in pubblico.
Il sì ai muri anti-immigrati diventa dunque una posizione ufficiale dell’Ue, lontano anni luce dalle condanne espresse in passato sul simbolo delle campagne politiche di Trump: il muro tra Usa e Messico.
Jean Claude Juncker, il predecessore di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, arrivò ai ferri corti con l’allora presidente Usa, come altri leader europei del resto. Ora che Trump non è più al potere, i muri possono continuare a esistere indisturbati: negli Usa come nell’Ue che, appunto, pianifica i propri.
Nè si agita la politica. In Italia, solo Giuseppe Conte e alcuni esponenti del Movimento Cinquestelle intervengono. “Il problema dell’immigrazione e della gestione dei flussi migratori non si risolve nè col filo spinato, nè con i muri – dice l’ex premier – Peraltro nelle zone di mare non si potrebbe neppure fare, non è questa la soluzione. Bisogna lavorare con i Paesi di origine e con la comunità internazionale”. Per il Pd, parla Pietro Bartolo, medico a Lampedusa e ora europarlamentare. “I sovranisti si organizzano e vanno all’attacco. Altro che solidarietà o ‘Nuovo Patto’ sulla migrazione. Siamo tornati ai muri e, oggettivamente, all’incitamento istituzionale di un clima di odio, all’incapacità di analizzare e, dunque, di affrontare un fenomeno epocale che nessuna barriera potrà mai arginare. A questa iniziativa miope, intrisa di cattivismo politico, bisogna reagire con forza”, conclude Bartolo chiedendo “una presa di posizione di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione. E anche del nostro governo”.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
COME BOCCASSINI, NEL SUO LIBRO, DISTRUGGE INGROIA, DI MATTEO, GRATTERI, DI PIETRO E TANTI ALTRI
La stanza numero 30. È il titolo scelto da Ilda Boccassini per la sua
autobiografia edita da Feltrinelli. 30 è anche il numero dell’ufficio al quarto piano della procura di Milano dove la magistrata napoletana –milanese d’adozione – ha trascorso quasi tutta la sua carriera giudiziaria, fino alla pensione nel 2019, dopo quarant’anni esatti con indosso una toga. Il libro non è solo la storia di Ilda la Rossa, chiamata così da amici e nemici per il colore scintillante dei suoi capelli. È anche la cronaca di quarant’anni di storia giudiziaria italiana.
C’è il racconto della relazione tra Boccassini e Falcone, prima che questi venisse ucciso dalla mafia. Le loro notti insonni nei viaggi di lavoro da e per l’America Latina. Ore e ore passate abbracciati, con il sottofondo di Gianna Nannini.
Ma c’è anche tanto altro. La Selvaggia – come la definì Falcone per descriverne la determinazione a fare sempre di testa sua – ne ha per tutti: politici, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine. Ma anche e soprattutto per i suoi stessi colleghi magistrati.
Buscetta e il rapporto malato tra toghe e pentiti
Le storture interne alla potere giudiziario emergono con regolarità lungo tutte le oltre 350 pagine di racconto. Come nel capitolo dedicato a Tommaso Buscetta, il primo collaboratore di giustizia affiliato a Cosa Nostra. Grazie alle sue rivelazioni, Falcone e il pool antimafia riuscirono ad istruire il maxiprocesso degli anni Ottanta, costato migliaia di anni di galera per centinaia di mafiosi. Un rapporto, quello tra Falcone e Buscetta, che per Boccassini è unico. Un caso irripetibile, che purtroppo non è stato la regola per l’esercito di pentiti che vennero dopo. “Quante volte ho sentito pubblici ministeri dare del tu a un collaboratore, quante volte ho visto instaurarsi un falso rapporto amicale che, purtroppo, in alcuni casi è servito ai mafiosi per intuire le aspettative di chi li stava interrogando, fino ad adattare a tali aspettative le proprie dichiarazioni”. Il rapporto malato tra toghe e pentiti è la causa del profondo malessere di Boccassini quando pensa a “quante carriere si sono sviluppate a scapito della verità e dell’obiettività in questi ultimi trent’anni. Preferisco non pensarci, anche se solo a sentir parlare di ‘eredi del metodo Falcone’ sulla gestione dei pentiti mi si torce lo stomaco”.
I due anni a Caltanissetta per ‘vendicare’ Falcone e Borsellino
Dall’ottobre 1992 al 1994, Boccassini lasciò temporaneamente Milano e si fece trasferire a Caltanissetta, procura competente per le indagini sulla morte di Falcone e Borsellino, avvenute qualche mese prima. Arrivata nel capoluogo nisseno, l’accoglienza non fu delle migliori. “Cocca mia, quelle sono le carte della strage di Capaci”, si sentì dire dal procuratore Tinebra: “Arrangiati!”. La disorganizzazione delle prime indagini era evidente. I primi sopralluoghi fatti a Capaci dalle autorità, pochi minuti dopo l’attentato, erano stati mal coordinati. Le responsabilità di chi doveva fare cosa non erano per nulla chiare. Una matassa difficile da sbrigare per i Pm impegnati nell’inchiesta nissena.
La confusione era il terreno perfetto per mettere in campo tentativi di depistaggio. Soprattutto durante il processo Borsellino. Si perdettero diversi anni impostando l’intero impianto accusatorio sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Scarantino. Le informazioni del pentito, poi rivelatesi infondate, furono ritenute credibili dai magistrati di Caltanissetta, e portarono a numerose “condanne all’ergastolo ai danni di persone innocenti” spiega Boccassini. Insieme a Roberto Saieva, anche lui trasferito temporaneamente a Caltanissetta, Boccassini fu l’unica componente del pool a mettere in dubbio la credibilità del pentito, intuendo la pista del depistaggio. Tra i giudici che diedero credito alla versione di Scarantino, favorendo dunque il depistaggio in maniera indiretta, c’erano anche il procuratore capo Tinebra, Annamaria Palma e, soprattutto, un giovane Nino Di Matteo, oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Le critiche a Di Matteo
Tra coloro che sconfessarono Scarantino, anni dopo, ci fu il pentito Gaspare Spatuzza. Sulla credibilità delle sue rivelazioni si concentrano i diverbi tra Boccassini, ormai tornata a Milano, da un lato, e i giudici di Palermo, dall’altro. Tra questi, “l’enfant prodige della procura di Palermo, Nino Di Matteo”. Secondo Boccassini, i due magistrati erano troppo “preoccupati del discredito che può derivare” verso la magistratura “quando emergono elementi che consentono una ricostruzione dei fatti diversa da quella risultante dalle precedenti sentenze, e che fanno sorgere il sospetto che la prima ricostruzione possa essere stata indotta da pressioni, da chiunque esercitate”. Boccassini voleva che venisse avviato un programma di protezione per Spatuzza, mentre i colleghi palermitani erano scettici sull’affidabilità del pentito. “Le sue dichiarazioni erano giunte a demolire punto per punto le fandonie disseminate da Scarantino proprio negli anni in cui a gestire il suo rapporto con lo Stato era lo stesso Di Matteo”, insieme al resto del pool nisseno.
…e ai magistrati impegnati in politica
A gestire il pentimento Spatuzza, oltre a Di Matteo, c’era pure Antonio Ingroia. Nel 2013, l’ex magistrato entrò in politica lanciando la propria lista elettorale, Rivoluzione Civile, e candidandosi alla Camera. I peggiori, dice Boccassini, sono “i magistrati ’paladini dell’Antimafia’. Un filone redditizio in termini di carriera e visibilità mediatica. Un nome per tutti: Antonio Ingroia, che nel corso della campagna elettorale del 2013 osò addirittura paragonarsi a Falcone. Come ha potuto paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni?”. L’egocentrismo di alcune toghe resta al centro delle sferzate di Boccassini lungo tutto il libro. Si rivolge anche ad Antonio Di Pietro, simbolo del pool di Mani Pulite, entrato in politica con Italia dei Valori. Altro esempio, si potrebbe dire parafrasando Boccassini, di magistrati che capitalizzano una brillante carriera professionale come trampolino di lancio in politica. Nel 2019 scomparve Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo a Milano durante Tangentopoli e punto di riferimento professionale e umano di Boccassini. Alla camera ardente allestita al palazzo di giustizia, “come prevedevo, ci furono alcuni colleghi che pensarono bene di sfruttare anche quella circostanza per il tornaconto personale. Insopportabile, per me, la scena di Di Pietro inginocchiato accanto alla bara”.
Nel 1995, dopo un breve ritorno a Milano, Boccassini è di nuovo in Sicilia, questa volta a Palermo. Sono anni difficili per la procura del capoluogo. Anni dominati dal ‘processo del secolo’, la maxi inchiesta per stabilire se il sette volte presidente del Consiglio Andreotti avesse avuto rapporti organici con Cosa Nostra. Sei mesi, durante i quali Boccassini vive malissimo l’isolamento nella quale è costretta a rimanere, sia per ragioni di sicurezza personale, sia per la mancanza di collaborazione di tante toghe palermitane, per nulla intenzionate ad esporsi in una fase così delicata della storia giudiziaria italiana. “Sono stati mesi di solitudine. Mai un invito a cena, un cenno di approvazione, una pacca sulla spalla. Tutti comportamenti che dicevano: non ti volevamo, sei venuta lo stesso, ora arrangiati”.
E poi, la decisione di tornare a Milano. Il procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, da sempre “affettuoso” con lei, prende male la decisione. Come fosse un tradimento. “Gian Carlo mi guardò esterrefatto. Fu talmente sorpreso che il suo tono solitamente pacato si fece brutale nel dirmi che no, non potevo lasciare Palermo proprio in quel momento perché c’era in ballo il processo Andreotti e la mia partenza improvvisa avrebbe alimentato chiacchiere dannose per il lavoro della procura”. Divergenze ci furono anche con un altro big della magistratura siciliana, Roberto Scarpinato, titolare del processo a carico dell’ex cavallo di razza della DC. Tra i due non ci fu mai un vero affiatamento professionale: “In primo luogo perché Scarpinato era stato uno dei magistrati che avevano ostacolato Falcone quand’era in procura”. E poi perché “non ho mai apprezzato il suo stile da narciso siciliano perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D’Artagnan”.
Nicola Gratteri il presuntuoso
Da capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, negli anni Dieci, Boccassini ha condotto indagini sulle infiltrazioni di ‘ndrangheta in Lombardia. Durante l’inchiesta Crimine Infinito, le procure di Milano e Reggio Calabria hanno lavorato a stretto contatto. Ed è in questa occasione che Boccassini collabora con il procuratore capo di Reggio, Giuseppe Pignatone, oggi presidente del Tribunale dello Stato di Città del Vaticano. Un lavoro di squadra eccellente, secondo Boccassini. “Creava un po’ di imbarazzo una sola nota stonata: l’atteggiamento dell’aggiunto reggino di Pignatone, Nicola Gratteri, che creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ’ndrangheta talmente approfondita, e a suo dire unica, da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti. Un comportamento – scrive Boccassini – che non ci ha mai permesso di legare, dato che a stento ci salutava. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato”.
Il complicato rapporto con Gianni De Gennaro
Quando Boccassini doveva decidere se trasferirsi o meno a Caltanissetta per indagare sulle stragi del 1992, in molti le sconsigliavano di andare. Tra i pochi a sostenerla fu Gianni De Gennaro, all’epoca poliziotto, vicedirettore della direzione investigativa antimafia, per anni collaboratore di Falcone. “Il mio rapporto con De Gennaro è stato intenso, il suo ruolo nelle mie scelte di vita dopo la morte di Falcone è stato importante, gli volevo bene, lo stimavo”. A suo parere, afferma Boccassini, “l’impegno in Sicilia era una chiamata alle armi cui non avevo il diritto di sottrarmi. Ed escludeva che potessero essere di impedimento le questioni personali o le difficoltà famigliari”. Un sostegno professionale che non coincidette con un altrettanto rapporto disteso a livello personale. Quando una volta, in presenza di Buscetta, Boccassini non trattenne le lacrime di fronte al ricordo di Falcone, fu lo stesso De Gennaro ad apostrofarla in tono aspro, perché aveva pianto davanti a tutti. “Il compito che ti è stato affidato è troppo importante per metterlo a rischio con i piagnistei”.
I rapporti tra i due, però, toccarono il loro momento più basso alcuni anni dopo, quando Boccassini era ormai tornata a Milano – dove aveva iniziato ad indagare su Berlusconi – e De Gennaro a Roma, nel frattempo diventato capo della polizia. È il 2000, e Ilda la Rossa sta indagando Berlusconi e Cesare Previti nel processo ‘toghe sporche’, accusandoli di corruzione in atti giudiziari. Un’accusa pesantissima, alla vigilia delle elezioni politiche dell’anno successivo, decisive per far tornare a Palazzo Chigi il fondatore di Fininvest: “Berlusconi in persona non si lasciò sfuggire l’occasione di scagliarsi contro l’ufficio. Paragonò la nostra scelta processuale all’arrivo della ‘cavalleria delle toghe rosse’, utilizzata per eliminare dalla scena gli avversari politici. Si spinse fino a invocare l’intervento del presidente Ciampi, perché stigmatizzasse la persecuzione mirante ad azzopparlo nella corsa elettorale”. L’attenzione politica e mediatica sulla procura di Via Freguglia era altissima.
Ed è questo il momento in cui Boccassini ruppe con De Gennaro. In un incontro romano datato 10 novembre 2000, “senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese ‘cosa stessi combinando a Milano’, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che aveva in ogni occasione parlato loro bene di me. Insomma, si era speso per ‘evitarmi il peggio’. Rimasi sbalordita – scrive Boccassini – spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna al processo Toghe Sporche”. Invece erano proprio quelle indagini, “anzi, il tentativo di neutralizzarle, che rendeva De Gennaro tanto aggressivo”. La richiesta del capo della polizia fu diretta: Boccassini doveva fermare l’inchiesta su Berlusconi, “perché erano in gioco delicatissimi equilibri istituzionali”. La fine di un’amicizia: “Iniziò a montare dentro di me una rabbia feroce, mi sentivo tradita. Gli vomitai addosso parolacce e insulti mentre, infuriata, cercavo le mie cose e mi avviavo alla porta. Uscii, sbattendola con tutta la forza che avevo”.
La guerra dei trent’anni con il Cavaliere
Forse il braccio di ferro che ha l’ha resa odiata da mezzo paese e amata dall’altra metà. Boccassini non ha problemi, ora che ha appeso la toga al chiodo, a dire ciò che pensa di Berlusconi e dellee leggi ‘ad personam’ che “che miravano direttamente al cuore dei procedimenti in corso, per vanificarli o allungarne a dismisura i tempi. Quella vergognosa sequela di atti legislativi che sarebbe poi stata giustamente definita come difendersi ‘dai’ processi anziché difendersi ‘nei’ processi”. Poi, oltre alle leggi, una campagna stampa orchestrata dalle testate fedeli al Cavaliere la mise in difficoltà, e spesso anche in isolamento con altri suoi colleghi. Da qui il ricorso ad un segno distintivo di Ilva La Rossa: collane, orecchini, bigiotteria e chioma rossa acceso. Tutti elementi della persona messi in risalto nella copertina di Stanza numero 30. “Era il mio modo per esorcizzare la fatica, lo stress, la paura di sbagliare. La scelta di agghindarsi con questi accessori, che spezzavano la tristezza della mia accidentata vita professionale, era un modo tutto mio di lanciare un messaggio: ‘Se pensate di piegarmi, di spegnermi, vi sbagliate’”.
Fu l’inizio di una lunga guerra tra procura di Milano e Fininvest, combattuta in diversi procedimenti: Toghe Sporche, Sme, Lodo Mondadori, Ruby, per dirne alcuni. E nel racconto che Boccassini fa di questa guerra, emerge ancora una volta il tratto comune della sua autobiografia: tra gli effetti della conflittualità tra politica e magistratura “ci fu anche quello di destabilizzare le dinamiche all’interno della magistratura stessa. Diversi colleghi vivevano quei processi come un ostacolo alle loro carriere o a eventuali richieste di adeguamenti economici. Una lettura corporativa, che rese palpabile l’ostilità” tutta interna agli uffici di Via Freguglia nei confronti di Boccassini.
Gli attacchi della futura presidente del Senato Casellati durante l’affaire Ruby
All’offensiva contro le inchieste milanesi sul Cavaliere parteciparono tante figure. Boccassini le elenca praticamente tutte. Tra gli avversari più importanti, ai tempi del processo Ruby, c’erano esponenti del Centrodestra come Santanché, Taradash ma anche Maria Elisabetta Alberti Casellati, dal 2018 presidente del Senato. “Berlusconiana di ferro – la descrive così Boccassini – con un excursus politico-istituzionale di alto livello, interamente dovuto al fondatore di Forza Italia. Non ha mai perso occasione di attaccare frontalmente il lavoro della procura di Milano, ribadendo la sua convinzione che decine di magistrati agissero d’intesa per imbastire inchieste senza fondamento ed emettere sentenze sballate all’unico scopo di colpire Silvio Berlusconi. Logico quindi che ci fosse anche lei, l’11 marzo 2013, insieme a un altro centinaio di parlamentari del Popolo della libertà, a manifestare nei corridoi e di fronte al palazzo di giustizia durante un’udienza” del processo alle olgettine, le ragazze che partecipavano alle ‘cene eleganti’ di Berlusconi ad inizio anni Dieci, quelle del Bunga Bunga. “Si trattava di donne anche diplomate e laureate, senza nessuna scusante economica o sociale. Credo che queste ragazze siano l’angosciante prodotto di trent’anni di cultura dozzinale, in cui l’ambizione massima è un’ospitata in mediocri trasmissioni televisive”.
(da Huffingtonpost)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
“TENGO PIU’ VOTI A BENEVENTO CHE SALVINI IN TUTTA LA CAMPANIA”
Clemente Mastella, quanti voti le sono mancati per confermarsi sindaco al primo turno?
“Cento. Ma nei seggi sono successe cose che non mi spiego”.
E che è successo?
“Una signora, candidata in una delle mie liste, è andata a votare con le due figlie e le cognate e al momento dello spoglio è risultato un solo voto”.
Manco la figlia l’ha votata?
“Capisco le cognate, che tra parenti a volte si fanno i peggiori dispetti, ma la figlia…”.
Però.
“Un altro candidato si è recato al seggio con la moglie e non è uscita nemmeno una preferenza”.
Manco una?
“La signora avrà votato per l’amante, vai a sapere, ma il voto del marito perché non risulta?”
Com’è possibile?
“Non si trovavano presidenti di seggio, infatti quelli arrivati in fretta e furia sono andati in difficoltà. In un caso l’ultima sezione è stata scrutinata in tribunale, perché il presidente non se l’è sentita. E lì ho recuperato voti”.
Come giudica il suo exploit?
“Ero solo contro tutti i partiti. Tutti proprio, eppure la gente ha apprezzato questi cinque anni di amministrazione. Ai miei cittadini avevo detto: ‘Ho cantato a Sanremo, mo’ canto qui con voi’”.
Mastella ha cantato a Sanremo?
“Sì, nel 2004, con Bossi, in un dopofestival. Lui scelse una canzone napoletana, io Roma nun fa’ la stupida stasera“.
È stupito dell’entità del successo di Manfredi a Napoli?
“Vabbé, lei non conosce la psicologia del napoletano: se capisce che un candidato è perdente in partenza si butta su quello vincente”.
Lei se lo aspettava?
“Così no. Ma Manfredi ha fatto come De Luca: tredici liste, capirai”.
Una era la sua, Noi campani. Com’è andata?
“Ho conquistato due seggi e ho la metà dei voti dei Cinquestelle. E io a Napoli nun tengo nisciuno, mentre loro esprimono il ministro degli esteri e il presidente della Camera”.
I Cinquestelle hanno un futuro?
“Letta non può arroccarsi nella sola alleanza con Conte. Servono i voti del centro per vincere le politiche”.
Perché la destra è andata male?
“Salvini e Meloni sono due ragazzini che litigano tra loro”.
Non sono maturi?
“Non per i grandi traguardi”.
Salvini farà tremare Draghi?
“Ci prova, ma non gli riesce. Draghi è imperturbabile”.
Come lo vede Salvini?
“La sua avanzata al Sud è finita, tengo più voti io di lui in tutta la Campania”.
Per chi tifa al Quirinale?
“Per il mio amico Casini”.
Il favorito non è Draghi?
“Draghi ce la farà se promette che non si andrà a votare, altrimenti altro che 101. Ne avrà trecentouno contro”.
(da agenzie)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
LE DONNE LAUREATE SONO IL 23% CONTRO IL 17,2% DEGLI UOMINI
Le donne sono più istruite degli uomini, ma questo non ha effetti positivi
sulla loro vita lavorativa. E il divario di genere non si appiana.
È quanto emerge dal report Istat sui livelli di istruzioni e partecipazione alla formazione, secondo cui le donne laureate in Italia sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%. In generale la differenza dei livelli di istruzione tra uomini e donne, a favore delle seconde, è più marcata rispetta alla media Ue (pari a circa un punto percentuale).
Nel 2020, la crescita dei livelli di istruzione delle donne è simile a quella maschile: +0,6 contro +0,7 punti, per la quota di popolazione con almeno un diploma; +0,6 contro +0,4 punti, per la popolazione laureata.
Pertanto, rileva l’istituto, si interrompe la dinamica di maggiore crescita che negli anni precedenti aveva caratterizzato l’istruzione femminile.
Ma il livello di istruzione delle donne rimane sensibilmente più elevato di quello maschile: le donne con almeno il diploma sono il 65,1 per cento e gli uomini il 60,5 per cento, una differenza anche in questo caso ben più alta di quella osservata nella media Ue27, pari a circa un punto percentuale.
Anche le donne straniere hanno un livello di istruzione più elevato rispetto alla componente maschile: cinque straniere su dieci possiedono almeno il diploma contro quattro uomini su dieci, il 14,3 per cento di queste è laureato contro l’8,3 per cento degli uomini.
Le donne laureate in discipline STEM sono la metà dei maschi
Un altro dato rilevante, per misurare il divario di genere, è quello delle lauree scientifiche. Nel 2020, il 24,9% dei laureati (25-34enni) ha una laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche, le cosiddette lauree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). La differenza tra uomini e donne è molto marcata, se si considera che tra i ragazzi si tratta di un laureato su tre, tra le ragazze solo una su sei.
Le differenze territoriali, spiega l’Istat, aumentano notevolmente se si osserva la componente maschile: la quota di laureati STEM tra i giovani uomini residenti nel Nord è elevata (42,8%) e decisamente superiore a quella nel Centro e nel Mezzogiorno (32,4% e 29,2% rispettivamente). Tra le donne, invece, la quota di laureate STEM nel Nord è di qualche punto inferiore a quelle del Centro e del Mezzogiorno. Ne consegue che la differenza di genere nella quota di laureati in discipline tecnico-scientifiche è massima nel Nord, pari a 27,7 punti, e scende a 14,1 nel Centro e a 10,1 punti nel Mezzogiorno.
La quota di 25-34enni con una laurea nelle discipline STEM in Italia è simile alla media Ue22 (i paesi dell’Unione europea membri dell’OCSE, 25,4% nel 2018vi) e al valore del Regno Unito (23,2%), è invece inferiore al valore di Francia (26,8%) e Spagna (27,5%) e piuttosto distante dalla Germania (32,2%).
Questo risultato è tuttavia conseguenza di quanto osservato per la componente maschile: in tal caso il divario varia dai 6 punti con la media Ue22 e con il Regno Unito ai 13 punti con la Germania. Per la componente femminile, invece, l’incidenza delle discipline STEM in Italia è persino superiore a quella registrata nella media Ue22 e negli altri grandi paesi europei. Questo risultato deriva dal maggior peso relativo di lauree STEM nell’area disciplinare di scienze naturali, matematica e statistica, ma anche di ingegneria. Il divario di genere nella scelta delle discipline tecnico-scientifiche è dunque meno marcato in Italia rispetto al resto d’Europa.
Abbandono scolastico più alto nei maschi
In Italia, nel 2020 il numero di giovani che ha lasciato gli studi precocemente è pari al 13,1 per cento, per un totale di circa 543 mila giovani, in leggero calo rispetto all’anno precedente. Nonostante l’Italia abbia registrato notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici, la quota di ELET (Early leaving from education and training) resta tra le più alte dell’Ue.
Nell’anno di chiusura della Strategia decennale dell’Unione la percentuale è scesa infatti al 9,9 per cento in media Ue27 (valore addirittura lievemente più basso dell’obiettivo prefissato), alla luce del fatto che la Francia ha raggiunto il valore target già da diversi anni e la Germania lo ha praticamente raggiunto nel corso del 2020. L’abbandono scolastico caratterizza i ragazzi (15,6 per cento) più delle ragazze (10,4 per cento) e per queste ultime si registra una diminuzione anche nell’ultimo anno (-1,1 punti).
Resta alto il divario territoriale
La popolazione residente nel Mezzogiorno è meno istruita rispetto a quella nel Centro-nord: il 38,5 per cento degli adulti ha il diploma di scuola secondaria superiore e solo il 16,2 per cento ha raggiunto un titolo terziario. Nel Nord e nel Centro circa il 45 per cento è diplomato e più di uno su cinque è laureato (21,3 per cento e 24,2 per cento rispettivamente nel Nord e nel Centro). Il divario territoriale nei livelli di istruzione non sembra legato al genere, sebbene sia più marcato per la componente femminile.
Nel 2020 le differenze territoriali nei livelli di istruzione sono del tutto simili a quelle dei due anni precedenti, sia per gli uomini che per le donne. Il divario territoriale resta dunque praticamente invariato per due anni consecutivi, mentre nel decennio 2008-2018 aveva registrato un aumento, in particolare tra la popolazione con titolo terziario. I livelli di istruzione crescono in misura piuttosto simile nelle ripartizioni geografiche: la popolazione con almeno il diploma aumenta di +0,8 punti nel Nord, di +0,4 nel Centro e di +0,7 punti nel Mezzogiorno; stessa dinamica per la popolazione laureata che cresce rispettivamente di +0,6, +0,5 e +0,4 punti.
(da Fanpage)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
POI MOLTO INTELLIGENTEMENTE SCRIVE: “HO DOVUTO BLOCCARE SEI INIZIATIVE SU NOVE, ORA DOVRO’ PAGARE DI TASCA MIA”, CONFERMANDO IL FINANZIAMENTO ILLECITO
“Dammi una spiegazione entro un’ora o ti vengo a cercare”. Scrive così Roberto Jonghi Lavarini al nostro giornalista sotto copertura, Salvatore Garzillo, dopo aver aperto la valigia in cui credeva ci fossero i soldi in nero dei quali lui si stava facendo tramite con importanti esponenti dei partiti di destra.
L’episodio della consegna della valigetta è contenuto nella seconda puntata di Lobby Nera, incentrata sui legami del partito di Matteo Salvini e le organizzazioni di estrema destra.
La rabbia di Jonghi Lavarini nasce quando, al posto dei contanti per finanziare la campagna elettorale dei candidati di Lega e Fratelli d’Italia, nel trolley rosso, trova un libro sull’Olocausto e uno sulla costituzione italiana:
“Prima di emettere una mia sentenza e avviso pubblico nei tuoi confronti (ma poi devi lasciare Milano), attendo spiegazioni, di qualunque genere. Entro oggi”, continua l’esponente del gruppo di influenza di estrema destra.
“I vostri uomini attori sono stati a loro volta pedinati e filmati, come la targa del tuo amico”, esclama Jonghi riferendosi agli altri giornalisti di Fanpage.it che erano comparsi di sfuggita negli ultimi incontri con il Barone nero.
Prima di accordarsi per la consegna, Roberto Jonghi ci aveva dato istruzioni: “Ho già fatto operazioni del genere con gente veramente borderline, altroché. Parola d’ordine: rosso il colore del sangue e del fuoco”.
La frase, come raccontato nella seconda puntata di “La lobby nera”, viene poi effettivamente pronunciata dalla donna inviata dal Barone per ritirare il trolley.
Al termine dello scambio di libri, Jonghi insiste nello scriverci: “Ho bloccato sei iniziative su nove – dice riferendosi al passaggio di denaro agli esponenti politici che aveva trattato – ora mi toccherà pagare personalmente le altre promesse. Oltre il danno, la beffa”, chiosa amaro, ma confermando che il sistema messo in piedi era tutto vero.
(da Fanpage)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
LA SOLITA PAGLIACCIATA A POSTERIORI, SI INTERVENGA SUL MOMENTO E SI IDENTIFICHINO I RESPONSABILI
Dopo i tanti casi recenti, non ultimo quello ai danni di Koulibaly al Franchi di
Firenze, la Lega di serie A prepara nuove regole contro il razzismo allo stadio
Per la prima volta all’assemblea della Lega calcio di Serie A si è parlato di razzismo. Dopo l’ultimo episodio che ha visto cori anti sportivi contro il giocatore Koulibaly, nel corso dell’incontro al nuovo International Broadcast Centre, dopo circa sei ore di discussione, i club di serie A hanno preso una posizione netta contro il tifo da stadio a sfondo razzista.
Le nuove linee guida imporranno alle società di escludere i tifosi razzisti da qualsiasi evento e da qualsiasi stadio d’Italia.
Il cambiamento è soprattutto nelle modalità di esclusione: se infatti oggi a un tifoso è proibito tornare nello stadio in cui è stato commesso il fatto (esempio: la Juventus può vietare di accedere allo Stadium a chi ha insultato Miagnan, denunciato per istigazione all’odio razziale e successivamente destinatario del Daspo), presto le restrizioni potranno essere estese in maniera drastica, e ai razzisti potrà essere negato di assistere a tutte le partite dal vivo.
«Il 13 ottobre, in occasione della periodica Commissione CSR, i Club adotteranno nuove misure condivise per affrontare manifestazioni di razzismo negli stadi, come la possibilità di vietare l’accesso in tutti gli impianti a chi dovesse rendersi protagonista di tali episodi, nel segno di una decisa e unanime condanna da parte di tutto il mondo del calcio», ha scritto la Lega nella nota diffusa ieri, 7 ottobre, e riportata dalla Gazzetta dello Sport.
E questa sarebbe una “misura severa”?
(da agenzie)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
IL CANALE SOCIAL E’ NOTO PER ESSERE LA PATRIA DEI NEONAZISTI, LIBERI DI SCRIVERE SENZA CENSURA… CHE BISOGNO C’ERA DI ANDARE A CERCARE AUDIENCE IN QUELLA FOGNA?
Era novembre del 2019 quando, sugli altri profili social di Giorgia Meloni, era comparso il riferimento all’apertura di un canale su TikTok e di un canale su VK, che sta per VKontakte, il maggior social network russo.
Ora il suo profilo risulta inattivo e l’ultimo post risale al febbraio del 2020, quando si mostra una foto di Mattia Santori (fondatore del movimento delle Sardine) insieme alla famiglia Benetton.
Da quel momento, non c’è stata alcuna pubblicazione su VK da parte dello staff di Giorgia Meloni.
Il tema è stato ripreso nella serata del 7 ottobre, durante la trasmissione Piazzapulita che ha mostrato la seconda parte dell’inchiesta di Fanpage intitolata Lobby Nera. L’oggetto di questo secondo video, in realtà, non era Fratelli d’Italia (come nel primo caso), ma la Lega.
In ogni caso, prima della seconda parte dell’inchiesta, c’è stato modo per tornare sulle reazioni in Fratelli d’Italia dopo la scorsa puntata. Come ospite in studio c’era l’ex deputato di Fratelli d’Italia Guido Crosetto che si è molto alterato quando è stato mostrato il servizio di Alessio Lasta sull’utilizzo dei social network da parte di persone protagoniste dell’inchiesta giornalistica e della stessa Giorgia Meloni.
Nel servizio di Piazzapulita si è parlato dell’account VK di Roberto Jonghi Lavarini (l’uomo che era stato mostrato nella prima parte dell’inchiesta di Fanpage, come dialogatore con diversi esponenti politici di Fratelli d’Italia) e della sua attività sui social network.
Alex Orlowski – che da qualche tempo si sta concentrando sull’utilizzo dei social da parte dell’area sovranista – ha citato anche il profilo VK di Giorgia Meloni e i followers che seguivano questo profilo.
Bisogna spiegare che VK, spesso, è stato considerato una sorta di zona franca. Diversi contenuti di estrema destra – che altrove non sarebbero potuti essere pubblicati – trovano cittadinanza proprio sul social network russo.
La domanda che ci si pone è: perché la leader di Fratelli d’Italia (o, nel caso, il suo staff di comunicazione) avevano deciso di aprire un account su VK?
La costruzione del servizio, tuttavia, non è piaciuta a Crosetto che lo ha definito «schifoso», alzando la voce e discutendo animatamente con Alessio Lasta, che aveva firmato il pezzo.
«È uno sputtanamento vergognoso e falso: : la Meloni di quel profilo non sa nulla, non sa nemmeno cosa sia VK».
Sicuramente la comunicazione social di Giorgia Meloni è gestita da uno staff ad hoc ed è possibile che lei si fidi del tipo di messaggio che la gestione dei suoi canali va a veicolare.
La domanda che, però, Piazzapulita si è posta – e che anche noi ci siamo posti spesso – è: che bisogno c’è di andare a cercare audience anche su VK quando è noto e risaputo che su VK ci sono molti contenuti che parlano in maniera esplicita di destra neonazista?
(da NextQuotidiano)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
RICOVERATO IN OSPEDALE SOTTO OSSERVAZIONE, HA VARIE FRATTURE… I LEADER SOVRANISTI NON HANNO TEMPO PER FARE UN POST DI CONDANNA?
E’ stato selvaggiamente picchiato Jamilton, un ragazzo romano con la colpa
di avere origini brasiliane e una pelle di pigmentazione più scura rispetto ad un finlandese. Una notizia che fa male e dà anche molto fastidio, ancora e per l’ennesima volta dover parlare di questo scempio.
La storia arriva da Roma, San Lorenzo. Il 26enne Jamilton è stato selvaggiamente pestato e racconta quello che è accaduto dal letto di ospedale dove si è risvegliato.
Il ragazzo è stato aggredito e picchiato da un branco di quattro uomini al grido di “Negro di merda”.
Il 26enne dopo essere svenuto per le botte ricevute si è risvegliato in una stanza dell’ospedale San Giovanni Evangelista dove verrà sottoposto ad un intervento chirurgico per le percosse ricevute.
A salvargli la vita, come riporta Roma Today, è stata la presenza di un amico che era in sua compagnia. Ha fatto allontanare gli aggressori e poi lo ha portato d’urgenza in ospedale “dove mi sono svegliato stamattina tutto sporco di sangue credendo di essere morto”.
“La prima cosa che ho fatto è stato pensare a mia figlia”, racconta la vittima sul sito capitolino. Con uno zigomo fratturato, trauma facciali ed il corpo pieno di lividi ed ecchimosi il 26enne ancora sotto osservazione presso l’ospedale romano.
Una storia che a dirla tutta ha dell’incredibile, per come si è svolta e per quello che ha significato. “Nel 2021 siamo ancora a questi livelli – racconta il 26enne -. Ho avuto paura di morire. La mia colpa? Solamente il colore della mia pelle. Spero che il mio amico sia riuscito a prendere la targa dell’auto di chi mi ha pestato”.
E’ stato prima colpito da una bottiglia di birra mentre era lì seduto a sorseggiare un cocktail e poi raggiunto dai colpi delle bestie.
(da agenzie)
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Ottobre 8th, 2021 Riccardo Fucile
I GIORNALI SOVRANISTI, PRIMA DI SPARARE CAZZATE, DOVREBBERO LEGGERSI LA DELIBERA DI FIGLIUOLO CHE DICE BEN ALTRO… IL MATERIALE NON E’ INFIAMMABILE, LA MALAFEDE E’ UNA COSTANTE SOVRANISTA
Bufale nuove, fiammanti. Nei giorni scorsi, il quotidiano Il Tempo – diretto da
Franco Bechis – ha titolato in prima pagina: «La beffa dei banchi di Arcuri».
Fino a qui si tratta di un fatto di “cronaca” riassunto in un titolo abbastanza criptico, ma efficace.
Poi, però, l’occhiello prova a entrare nel dettaglio di questa vicenda: «I tavoli comprati per gli studenti sono pericolosi: vanno a fuoco». Si tratta, però, di una bufala.
Sarebbe bastato chiedere a chi di dovere – come il Ministero dell’Istruzione – o leggere con attenzione la nota diramata dalla struttura commissariale diretta dal generale Figliuolo per capire come i “banchi infiammabili” non c’entrino nulla con questa vicenda.
Eppure, tra edizione cartacea (quella venduta in edicola lo scorso 3 ottobre) e online (con tanto di “ripresa”, con gli stessi toni enfatizzati, da altri quotidiani di destra e da esponenti del mondo giornalistico che ammiccano in quella stessa direzione), Il Tempo non ha mai smentito quella sua narrazione sbagliata sui “banchi infiammabili” ritirati. Neanche dopo l’intervento del Ministro dell’Istruzione Bianchi.
E nell’edizione online, come ovvio – vista l’attinenza politica – non poteva mancare il pensiero della Lega (che, tra l’altro, fa parte del governo e quindi, prima di parlare, poteva chiedere al “suo” ministro – o direttamente a Figliuolo – un chiarimento su questa vicenda) che va ad acuire ancor di più la portata di questa bufala.
Perché non sono mancati riferimenti all’ex Ministra Lucia Azzolina, ovviamente senza alcun riscontro fattuale su questa storia dei “banchi infiammabili” ritirati. Una vicenda ripresa anche da Nicola Porro, noto giornalista Mediaset, sul suo sito.
Fatta questa breve rassegna partita da Il Tempo, andiamo a spiegare perché la ricostruzione fatta dal quotidiano diretto da Franco Bechis sia fantasiosa.
Ovviamente, questo deve essere il punto di partenza, il fatto che ci sia stato un ritiro di una discreta quantità di banchi è reale. Ma per quale motivo?
La nota della struttura commissariale spiega: «A seguito di specifiche analisi merceologiche gli arredi hanno evidenziato la non conformità alle normative in materia di sicurezza antincendio, impedendone l’uso ed imponendone il ritiro dagli istituti ove erano stati distribuiti al fine di eliminare i possibili rischi in caso di incendio». Il concetto di “rischi in caso di incendio” è stato letto con troppa superficialità da parte del quotidiano romano.
I “banchi infiammabili”, infatti, non sono banchi infiammabili.
Quelle sedute monoposto – prodotte dall’azienda portoghese Nautilus che aveva partecipato al bando per la produzione di sedute destinate alle scuole durante la fase intermedia di questa lunga pandemia – sono state ritirate per motivi tecnici che afferiscono alle norme anti-incendio.
Secondo i regolamenti (validi non solo per il distanziamento sociale all’interno delle aule), le dimensioni non dovevano superare una lunghezza di 60 centimetri.
Invece, l’azienda portoghese ha consegnato prodotti della lunghezza di 74 centimetri. Ed è qui che entrano in ballo le norme anti-incendio: banchi troppo grandi, oltre a “riempire” le aule oltremodo, non consentono la creazione di corridoi per procedere con la “fuga di emergenza” in caso di incendio.
Quindi i banchi sono stati ritirati per questo (un motivo comunque grave, visto che sono stati spesi soldi pubblici) e non per le narrazioni frettolose fatte da Il Tempo, ma Bechis non ha trovato “il tempo” di far inserire sul suo quotidiano la smentita ufficiale e la versione corretta di questa storia.
(da Giornalettismo)
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