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LA PRESIDENTE DELLA CASSAZIONE: “INSULTI DAI POLITICI INACCETTABILI”

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

SCHLEIN: “MELONI E SALVINI ATTACCANO PER COPRIRE I FALLIMENTI”… PER NOI IL CONCETTO E’ CHIARO: DEVONO PAGARE DI TASCA PROPRIA TUTTI I COMPONENTI DEL GOVERNO, I SOLDI LI DEVE CACCIARE CHI HA VIOLATO LA LEGGE, NON IL CONTRIBUENTE ITALIANO

Il governo dovrà risarcire i migranti della Diciotti. Lo ha deciso la Cassazione accogliendo il ricorso di un gruppo di migranti eritrei, trattenuti dal 16 al 25 agosto del 2018, dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Decisione che immediatamente spinge la presidente Giorgia Meloni, il vicepremier Salvini e tutta la maggioranza ad attaccare la pronuncia. Di tutto altro tono invece i commenti delle opposizioni che, dal Pd ad Avs, criticano il governo.
Meloni su X scrive: “Non credo siano queste le decisioni che avvicinano i cittadini alle istituzioni e confesso che dover spendere soldi per questo, quando non abbiamo abbastanza risorse per fare tutto quello che sarebbe giusto fare, è molto frustrante”.
Durissima la reazione di Salvini che parla di sentenza vergognosa: “Mi sembra un’altra invasione di campo indebita. Se c’è qualche giudice che ama così tanto i clandestini, li accolga un pò a casa sua e li mantenga”. Anche l’altro vicepremier, Antonio Tajani, si dice in disaccordo con la decisione.
L’attacco è così grave che in Cassazione montano stupore e disagio. Tanto che la prima presidente, Margherita Cassano, deve vergare quattro righe durissime: “Le decisioni della Corte di Cassazione, al pari di quelle degli altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono, invece, inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”. Cassano che già aveva espresso con pacatezza la sua contrarietà sulla separazione delle carriere. Analoga reazione poi, dopo il malumore di queste ore, potrebbe arrivare dalla giunta dell’Associazione nazionale magistrati, sezione Cassazione.
Dall’opposizione invece, risponde in maniera secca alla premier la segretaria del Pd, Elly Schlein: “Giorgia Meloni continua ad alimentare lo scontro con la magistratura per coprire i fallimenti del suo governo. Ma la Cassazione è l’ultimo grado di giudizio, come stabilito dalla Costituzione, che non cambia in base al suo umore. Non è possibile che ogni giorno il governo attacchi le sentenze. Ciò che allontana i cittadini dalle istituzioni – aggiunge – è una sanità pubblica presa a picconate dai tagli del suo governo, sono salari da fame, è il quasi miliardo di euro dei contribuenti scialacquato in Albania per costruire delle prigioni vuote: il prezzo delle sue scelte intanto continuano a pagarlo gli italiani”.
(da agenzie)

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LE CAZZATE DI TRUMP HANNO PROVOCATO UNA SERIE DI CONSEGUENZE INATTESE: HA RIAVVICINATO IL REGNO UNITO ALL’UE, HA RILANCIATO L’IMMAGINE DI TRUDEAU E ZELENSKY, HA RIACCESO IL SENTIMENT ANTI-RUSSO NEGLI USA

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

LA MOSSA DA VOLPONE DI ERDOGAN E IL TRACOLLO NEI SONDAGGI DI NETANYAHU (SE SALTA “BIBI”, SALTA ANCHE IL PIANO DI TRUMP PER IL MEDIO ORIENTE)

Si riparte da Riad. Martedì 12 marzo, Usa e Ucraina si ritroveranno a discutere per la tregua con la Russia, dopo l’imboscata fatta a Zelensky nello studio ovale da parte di Trump e il suo vice, JD Vance.
Chissà se, al momento di riallacciare i fili della diplomazia con Kiev, Trump avrà la lucidità di mettere in fila i pezzi di un puzzle che sembra essergli un po’ sfuggito di mano.
Il suo incedere da bulldozer, con 79 ordini esecutivi in 40 giorni, e l’approccio da cowboy coatto in politica internazionale ha innescato una serie di conseguenze che il tycoon non s’aspettava.
Non aveva, ad esempio, previsto che negli Stati Uniti albergasse un certo sentiment anti-russo. Ben pasciuta in cinquant’anni di guerra fredda, l’antipatia degli statunitensi verso i “sovietici” è riemersa in tutta la sua evidenza.
Il vicepresidente JD Vance è stato costretto a scappare dall’hotel in Vermont, dove si era recato con la famiglia a sciare, per la contestazione di alcuni cittadini che hanno mostrato cartelli con su scritto “traditore”, “vattene a sciare in Russia”. Anche un bel pezzo di partito repubblicano, educato alla competizione con Mosca non vede di buon occhio la mano tesa di Trump al Cremlino.
Il tycoon divenuto presidente, inoltre, non poteva immaginare che il fido alleato degli Stati Uniti, il Regno Unito, si schierasse inequivocabilmente al fianco dell’Unione europea in difesa dell’Ucraina.
Né era immaginabile che l’orsacchiotto Keir Starmer si trasformasse in un “Churchill laburista” abbracciando Zelensky appena 48 ore dopo la scazzottata verbale tra Trump e il presidente ucraino nello Studio ovale.
Fuori dalle previsioni della Casa bianca era anche la mossa del cavallo di Erdogan. Il “Sultano di Ankara”, fiutando la debolezza dell’Unione europea ha subito teso la mano a Bruxelles proponendosi come alleato sul dossier Ucraina, mettendo a disposizione i suoi 400mila soldati. Una strategia che punta a un obiettivo preciso: trascinare la Turchia all’interno dell’Unione europea
Imprevisto, infine, è stato il crollo della popolarità di “Bibi” Netanyahu in Israele. Il 60% degli israeliani vuole le dimissioni del premier, lo stesso su cui Trump ha puntato le sue fiches per costruire il nuovo Medio oriente (accordi di Abramo, resort a Gaza, eccetera). Una caduta del primo ministro a Tel Aviv, con elezioni anticipate dall’esito imprevedibile, potrebbe scalfire il progetto di Washington per la regione.
A queste “esternalità negative” se ne aggiungono altre. Per esempio, il tira e molla sui dazi: Trump è stato “costretto” a rinviare di un mese alle “tariffe” a Canada e Messico per evitare di scontentare i suoi elettori. È infatti emerso che i dazi avrebbero fatto impennare i prezzi dei fuoristrada pick-up tanto cari all’elettorato burino di Trump (con un rincaro fino a 7mila euro a veicolo).
La diplomazia maranza del Caligola di Mar-a-lago, inoltre, ha avuto come effetto inaspettato quello di rilanciare il consenso dei leader con cui si è scontrato direttamente.
E’ accaduto alla presidente del Messico Claudia Sheinbaum, che gode dell’80% dei favori del suo popolo, ma anche al povero Volodymyr Zelensky, risalito al 44%, e a Justin Trudeau.
Il premier canadese, fino a qualche settimana fa, era politicamente azzoppato. Ora, dopo lo scontro sui dazi con Trump, il suo partito si è ringalluzzito ed è cresciuto del 10%.
A proposito di Trudeau, una guerra commerciale con Ottawa finirebbe per far molto male anche agli Stati Uniti.
Il Canada è il quarto esportatore al mondo di petrolio, ma vende principalmente (il 97% del suo greggio) agli Usa, che decidono di fatto il prezzo. Se un domani la tensione arrivasse al punto di rottura, Trudeau potrebbe dirottare il suo petrolio sui mercati internazionali, finendo per fare concorrenza alle Big oil americane. Hai voglia a trivellare…
Nel “mondo al contrario” che Trump vuole creare (prima promette di ridurre i prezzi e poi innesca spirali inflattive attraverso i dazi), si iniziano a formare le prime fronde. I potentati economici americani “old style”, in prima linea uomini d’affari e banchieri (per capirci, quelli che preferiscono il buon vecchio dollaro alla criptovalute), hanno attivato un canale di comunicazione intenso con le controparti britanniche. L’obiettivo è disporre di un maggiore coordinamento sulle future mosse da compiere per non farsi trovare impreparati davanti all’imprevidibilità di Trump.
(da Dagoreport)

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ALBERTO TRENTINI, UN POVERO CRISTO CHE HA LA SFORTUNA DI NON ESSERE CECILIA SALA, IL COOPERANTE ITALIANO ARRESTATO IN VENEZUELA LO SCORSO 15 NOVEMBRE È STATO ACCUSATO DI “COSPIRAZIONE”. SECONDO CHI SI OCCUPA DEL DOSSIER “È UN’ACCUSA RIDICOLA, UNA PROVOCAZIONE”

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

PERCHÉ PER RIPORTARE A CASA CECILIA SALA ABBIAMO RISPEDITO IN IRAN UN TERRORISTA DEL CALIBRO DI ABEDINI, E PER TRENTINI IL GOVERNO NON È DISPOSTO A UNO SCAMBIO?… GLI STATI UNITI A FEBBRAIO HANNO OTTENUTO LA LIBERAZIONE DI 7 AMERICANI, SOLO L’ITALIA NON CONTA UN CAZZO

Il cooperante italiano Alberto Trentini è accusato di cospirazione, in un’inchiesta che sarebbe già sul tavolo del tribunale speciale che si occupa di terrorismo. «Un’accusa ridicola, priva di qualsiasi appiglio» spiega a Repubblica una fonte che si sta occupando del dossier.
Un’accusa che, però, giustifica ancora di più la necessità di fare in fretta: il cooperante italiano deve essere riportato al più presto in Italia, come il sottosegretario Alfredo Mantovano che sta seguendo personalmente il dossier ha assicurato che il governo sta cercando di fare sin dal principio. «Abbiamo attivato tutti i canali per il suo rientro» ha detto. «Stiamo investendo ogni sforzo per rendere possibile il rientro. Ma è una situazione complessa e di difficile soluzione».
A rendere così complicata la situazione è il muro che fino a questo momento il Venezuela ha alzato davanti all’Italia. Tutto quello che si sa, a cominciare dalle accuse, è frutto del lavoro sotto traccia che stanno compiendo i nostri servizi di intelligence che sono riusciti a ottenere anche la prova che Trentini sia vivo. Una prova che ormai risale, però, a più di un mese fa.
I nostri servizi, in collaborazione anche con quelli europee, hanno appurato che le accuse mosse a Trentini sono sicuramente strumentali. Trentini non aveva mai avuto collegamenti con i gruppi anti Maduro, era completamente estraneo ai servizi di intelligence, l’unico collegamento con il Venezuela fino a quel momento era di tipo sentimentale: si era innamorato di una ragazza in Venezuela.
Fino a questo momento dal Venezuela sono arrivate richieste ritenute irricevibili: dal riconoscimento del governo alla consegna di oppositori attualmente nel nostro paese.
Questo non significa che le trattative non siano in corso: Aise è volata a Caracas e ci tornerà, si spera per rientrare con Alberto. Il punto è però fare in fretta e non fare cominciare il processo.
Si sta pensando alla nomina di un inviato per tutti i casi di alto profilo politico, come hanno fatto gli Stati Uniti con l’ambasciatore Richard Grenell, per parlare con Maduro: il 7 febbraio è riuscito a far liberare sei detenuti-ostaggi statunitensi che si trovavano nelle stesse situazioni di Trentini.
(da La Repubblica)

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I DAZI SONO AMARI PURE PER GLI AMERICANI: LA MAGGIOR PARTE DEI RESIDENTI NEGLI USA PENSA CHE SARÀ IL LORO PAESE, E NON GLI ALTRI STATI, A RISENTIRE MAGGIORMENTE DELLE TARIFFE IMPOSTE DA TRUMP

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO UN SONDAGGIO DI “THE ECONOMIST/YOUGOV”, IL 54% DEGLI INTERVISTATI CREDE CHE LE “TARIFFE SUI PRODOTTI ESTERI IMPORTATI NEGLI STATI UNITI” PESERANNO DI PIÙ SULLE AZIENDE E LE PERSONE NEGLI USA. SOLO IL 24% PENSA CHE, A SUBIRNE LE CONSEGUENZE, SARANNO I PAESI ESPORTATORI

La maggior parte degli americani ha affermato che saranno gli Stati Uniti e non altri paesi a risentire maggiormente dei dazi del presidente Trump.
Alla domanda sul “costo delle tariffe sui prodotti esteri importati negli Stati Uniti”, il 54% degli intervistati nel sondaggio The Economist/YouGov ha affermato di credere che “per lo più aziende e persone negli Stati Uniti” ne sentiranno il peso. Il 24% ha affermato che “per lo più aziende e persone nel paese che esporta prodotti” ne subiranno le conseguenze.
Martedì, il presidente ha imposto tariffe del 25 percento sulle importazioni da Canada e Messico e una tariffa del 10 percento sui prodotti cinesi. Trump ha citato l’irritazione per il flusso di fentanyl nel suo paese, ma gli esperti hanno notato che una percentuale ridotta del farmaco entra negli Stati Uniti attraverso il confine con il Canada.
Il sondaggio Economist/YouGov ha anche scoperto che la maggior parte degli intervistati, il 68%, ha affermato di credere che “l’aumento delle tariffe sui beni esteri importati negli Stati Uniti in generale” comporti un aumento dei prezzi. L’otto percento ha affermato che l’aumento delle tariffe sui beni esteri importati negli Stati Uniti in genere non comporta “alcun effetto sui prezzi”. Il sondaggio Economist/YouGov si è svolto dal 1 al 4 marzo, con 1.638 partecipanti e un margine di errore di 3,7 punti percentuali.
(da agenzie)

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L’ITALIA È IL PAESE-VASSALLO DI TRUMP IN EUROPA: GIORGIA MELONI HA INSISTITO PER INSERIRE NELLE CONCLUSIONI DEL CONSIGLIO EUROPEO UN PASSAGGIO PER RICONOSCERE “GLI SFORZI DI TRUMP PER RAGGIUNGERE LA PACE”. MA LA RICHIESTA È STATA RISPEDITA AL MITTENTE

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

LA DUCETTA FA BUON VISO A CATTIVO GIOCO: DICE SÌ AL PIANO DI RIARMO

Quando Volodymyr Zelensky è già seduto come ospite d’onore del vertice, attorno all’immenso tavolo ovale di Justus Lipsius mancano solo due persone: Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. Qualcuno si chiede se i due si stiano parlando in una stanza del palazzo. Nessuno è però in grado di verificarlo.
Sia come sia, a metà pomeriggio la posizione italiana al tavolo è chiara. L’Italia è favorevole al piano von der Leyen, salvo non amare il concetto di riarmo. Per garantire la sicurezza dell’Europa occorre molto di più: cybersicurezza, infrastrutture, ricerca.
Secondo: l’Italia è contraria all’uso dei fondi per la coesione per finanziare il piano. O meglio, è un bene li possano spendere i Paesi che lo vogliono fare se la considerano una priorità. Una linea che serve anche a rintuzzare gli argomenti dell’opposizione. “No ai fondi degli asili per le armi”, la sintesi di Giuseppe Conte. E poco importa se l’Italia non riesce mai a spendere più di un terzo di quei fondi.
Terzo: Meloni è più che favorevole all’esclusione delle spese per la Difesa dal calcolo del rapporto deficit-Pil, ma a questo punto ben venga una revisione complessiva del patto di Stabilità, la riforma che appena un anno fa il governo firmò senza entusiasmo perché considerata troppo austera.
E quarto: ben venga lo scorporo, purché vengano riconosciute per intero come risorse destinate ai programmi Nato.
Al netto dei distinguo, l’impressione confermata dalla linea italiana è che il piano della presidente della Commissione sarà approvato. La tedesca ha messo insieme una sapiente somma di minimi comuni denominatori.
Non sarà necessario il voto all’unanimità per evitare il veto di Viktor Orban, né passerà dal voto del Parlamento di Strasburgo per evitare problemi con l’universo sovranista.
Ciascun partner potrà aumentare la spesa per la Difesa fino a un massimo dell’1,5 per cento, e forse persino di più, grazie alla svolta storica dei tedeschi, decisi a superare la regola del tetto al debito.
Secondo fonti diplomatiche europee, al tavolo dei 27 Meloni insiste per inserire nelle conclusioni del consiglio un passaggio che riconosca «gli sforzi di Trump per raggiungere la pace».
Ma la richiesta non passa. La premier prova pure a rilanciare la sua idea di un vertice Usa-Ue sull’Ucraina, perché «sarebbe un errore» non riavvicinare le due sponde dell’Atlantico. Ma questo formato non piace nemmeno a The Donald. E la presidente del Consiglio, davanti ai taccuini, ammette: «Ci stiamo lavorando, ma non c’è nulla di concreto».
(da il Corriere della Sera)

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DA INIZIO ANNO MUSK HA PERSO QUASI 100 MILIARDI DI DOLLARI DI PATRIMONIO PERSONALE

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

TESLA HA PERSO UN TERZO DEL VALORE

Dall’inizio di gennaio Elon Musk ha perso quasi 100 miliardi di dollari, per l’esattezza 96,5 miliardi secondo il Billionaire Index di Bloomberg aggiornato al 5 marzo. Con un patrimonio di 336 miliardi resta comunque l’uomo più ricco del mondo, con più di 100 miliardi dal secondo Paperone, il fondatore di Meta (Facebook) Mark Zuckerberg, che con una ricchezza personale di 226 miliardi ha superato Jeff Bezos (225 miliardi).
Tesla ha perso un terzo del valore
L’impoverimento (sulla carta) di Musk è legata principalmente al calo a Wall Street di Tesla, di cui Musk controlla il 13% del capitale oltre ad esserne presidente e ceo. Dall’inizio dell’anno il titolo ha perso circa il 33%, scendendo intorno ai 250 dollari dopo aver toccato nell’ultimo anno un massimo di più di 461 dollari, mentre la capitalizzazione è scesa sotto quota 850 miliardi.
La crisi delle vendite di auto in Europa
Con un calo del 30% delle azioni, febbraio è stato il secondo peggior mese nella storia dell’azienda. Anche se la flessione è arrivata dopo un volo di oltre il 40% di Tesla in Borsa dall’elezione di Trump di inizio novembre. Il recente declino è stato attribuito a preoccupazioni riguardanti le attività politiche di Musk e una diminuzione delle vendite in mercati chiave come Europa, Stati Uniti e Cina.
Nel Vecchio Continente le auto elettriche di Musk hanno subito un crollo del 45%, mentre il mercato degli EV ha guadagnato il 15% e alcuni osservatori hanno attribuito questo declino alla presa di posizione di Musk a sostegno di AfD, il partito tedesco di estrema destra.
SpaceX, Starlink e i conflitti di interesse
A differenza della auto elettriche, SpaceX, fondata a guidata da Musk con il sogno di portare gli uomini su Marte, sembra continuare a rafforzare la sua posizione nel settore aerospaziale. Non essendo una società quotata, le stime sono più complesse e gli ultimi numeri risalgono allo scorso dicembre, quando la valutazione di SpaceX è salita da 210 miliardi a 350 miliardi di dollari con un nuovo round di finanziamenti. Ma il dinamismo della sua controllata Starlink induce a pensare che il gruppo continui a crescere.
Il contratto con Verizon
La Federal Aviation Administration (FAA), ad esempio, sta valutando di porre fine al contratto da 2,4 miliardi stipulato con Verizon e di affidarlo invece alla SpaceX di Elon Musk, secondo quanto riportato dal Washington Post. Il contratto, iniziato nel 2023, aiuterebbe la FAA ad aggiornare la piattaforma che le strutture di controllo del traffico aereo utilizzano per comunicare tra loro.
All’inizio della settimana, la FAA ha confermato che Musk ha approvato la spedizione di 4.000 terminali di comunicazione satellitare Starlink all’ente regolatore e che ne sta testando uno nel New Jersey e uno in Alaska.
I conflitti d’interesse
Il nuovo ruolo politico di Musk, con il suo ingresso ufficiale nell’amministrazione Trump, alla guida del Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), un’agenzia creata per ridurre la spesa federale e migliorare l’efficienza del governo, però amplifica anche i suoi conflitti di interesse.
Starlink ha firmato, tra l’altro, numerosi contratti con il Pentagono per fornire connettività satellitare a scopi militari, specialmente in zone di conflitto come l’Ucraina. Space X, invece, è il lanciatore finora scelto delle missioni della Nasa, dove compete con il concorrente Blue Origin di Jeff Bezos. E’ una commistione di interessi economici che mal si sposano con un ruolo politico prominente come quello incarnato oggi dall’imprenditore sudafricano accanto al presidente Trump.
La rivalutazione di X
Dopo l’acquisizione di Twitter nel 2022 per 44 miliardi di dollari, Musk ha ristrutturato l’azienda sotto il nome di X. La valutazione del social network, però, è scesa a circa 15 miliardi di dollari nel 2023, riflettendo le sfide affrontate nella transizione e nella monetizzazione della piattaforma.
Ma il successo derivato dal supporto di X alla campagna elettorale di Trump e la vicinanza di Musk al presidente americano sembrano aver rivitalizzato il social network, che attualmente sarebbe in trattative per raccogliere fondi a una valutazione di 44 miliardi di dollari.
Anche la società di intelligenza artificiale xAI sta negoziando 10 miliardi di dollari di nuovi finanziamenti che farebbero quasi raddoppiare la sua valutazione da 40 a 75 miliardi.
(da il Corriere della Sera)

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QUALCUNO DICA A TRUMP CHE LA POLO CON CUI ZELENSKY SI È PRESENTATO ALLA CASA BIANCA, CHE LUI HA DERISO, VA A RUBA

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE AMERICANO HA PRESO PER I FONDELLI L’UCRAINO PER LA SUA TENUTA DA BATTAGLIA, MA LA MAGLIA CON COLLO ALLA COREANA, I TRE BOTTINCINI E LO SCUDO CON TRIDENTE STA SPOPOLANDO: NONOSTANTE IL PREZZO DI 215 EURO NON SIA PROPRIO ECONOMICO… LA STILISTA ELVIRA GASANOVA HA RIVELATO DI AVER RICEVUTO MOLTI ORDINI PROPRIO DAGLI STATI UNITI

“Si è vestito bene, è elegante!”, ha ironizzato Donald Trump quando ha stretto la mano a Volodymyr Zelensky al suo arrivo alla Casa Bianca. Il presidente ucraino indossava una polo a maniche lunghe lavorata a maglia a tre bottoni con i pantaloni scuri. Ora però tutti lo vogliono, soprattutto negli Stati Uniti.
“Molte persone stanno acquistando la polo, che ha un prezzo di 215 euro”, ha raccontato la stilista ucraina che l’ha disegnata, Elvira Gasanova. “Oggi abbiamo avuto molti ordini dall’America. Forse vogliono qualcosa che un presidente ucraino ha indossato in un momento storico”, ha ipotizzato in un’intervista a Women’s Wear Daily.
Gasanova, che ha vestito la first lady ucraina e celebrità come Kim Kardashian, Gigi Hadid e Rita Ora, non avrebbe mai pensato che un capo da lei disegnato sarebbe diventato un caso geopolitico. “Ho solo cercato di essere una stilista che crea abiti o completi speciali”, ha spiegato. E per la designer questa polo di sicuro lo è: una versione speciale della sua collezione maschile disegnata per Zelensky con il tryzub, lo scudo con tridente che è parte dello stemma dell’Ucraina.
Seconda la stilista ucraina, il 99 per cento del guardaroba del presidente ucraino è composto dai suoi modelli. Abiti informali, verdi o scuri, sono una costante di Zelensky da quando è iniziata la guerra nel febbraio del 2022. Un segno di solidarietà nei confronti dei membri delle forze armate ucraine.
Sui social c’è chi fa il paragone con il primo ministro britannico Winston Churchill che nel 1943 si presentò alla Casa Bianca indossando un abito pratico e sobrio di ispirazione militare. “Nessuno sembrò obiettare quando Churchill si presentò alla Casa Bianca in tenuta da guerra”, ha scritto il giornalista britannico John Simpson su X.
“Non indossi nemmeno un vestito. È irrispettoso. Chi si presenta alla Casa Bianca in maglietta e jeans come un netturbino?”, ha detto il comico americano James Austin Johnson impersonando il presidente americano in uno sketch nel programma “Saturday Night Live”. E mentre il finto Trump pronuncia queste parole, ecco entrare Elon Musk nello Studio Ovale, interpretato da Mike Myers, in maglietta e jeans.
(da agenzie)

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IL “WALL STREET JOURNAL”, CHE HA DEFINITO I DAZI DEL TYCOON “I PIÙ STUPIDI DELLA STORIA”, TORNA A STRONCARE LA GUERRA COMMERCIALE: “LE TARIFFE SONO TASSE. E QUELLE DI TRUMP SONO PARI A UN AUMENTO DELLE TASSE DI 150 MILIARDI DI DOLLARI L’ANNO. LE TASSE SONO CONTRO LA CRESCITA”

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

IL QUOTIDIANO DI MURDOCH FA L’ESEMPIO DEL CORTOCIRCUITO SULLE AUTO: UNA TOYOTA RAV4 IMPORTATA DAL CANADA (E QUINDI TASSATA AL 25%) HA UNA GRAN PARTE DEI COMPONENTI PRODOTTI NEGLI USA, MENTRE IN UNA NISSAN ROGUE ASSEMBLATA NEGLI STATI UNITI (QUINDI NON TASSATA) PREVALGONO QUELLI GIAPPONESI

Da quando li ha definiti «i più stupidi della storia», il Wall Street Journal – che pure è il più conservatore e meno antitrumpiano dei grandi quotidiani statunitensi – non si stanca di tentare di convincere Donald Trump, a suon di articoli ed editoriali, del perché i dazi, in particolare quelli contro Canada e Messico, saranno controproducenti per l’economia statunitense e, soprattutto, per i consumatori americani.
«Le tariffe sono tasse – si legge in un editoriale – e le ultime tariffe di Trump si stimano pari a un aumento delle tasse di circa 150 miliardi di dollari all’anno. Le tasse sono contro la crescita. Questo è il messaggio che gli investitori stanno inviando questa settimana, da quando Trump ha fatto entrare in vigore le tariffe del 25% contro Canada e Messico. (…) Le tasse alla frontiera, e l’incertezza che comportano, stanno pesando sulla crescita e sulla fiducia dei consumatori».
Dopo numerosi esempi di effetti indesiderati e controproducenti alle porte (dal rincaro di elettricità, carburanti e fertilizzanti agricoli a quelli della birra più venduta negli Usa, messicana), il Journal conclude: «L’euforia tariffaria di Trump è il trionfo dell’ideologia sul buon senso. Speriamo che il Presidente torni presto in sé».
Che cos’è «un’auto importata»?
Il New York Times, da parte sua, ha provato a spiegare, con casi concreti, quanto sia difficile definire, ad esempio, cosa sia «un’auto importata»: una Toyota Rav4 importata dal Canada ha una gran parte dei componenti prodotti negli Stati Uniti, mentre in una Nissan Rogue assemblata negli Stati Uniti prevalgono quelli giapponesi (che, se colpiti dai dazi, faranno salire il prezzo). D’altra parte, come fa notare Sam Fiorani, vicepresidente della società di ricerca AutoForecast Solutions «i veicoli avrebbero prezzi ancora meno accessibili se tutte le parti fossero prodotte nello stesso Paese».
Sarà un caso, ma ieri è arrivata, dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, la notizia che gli Stati Uniti fanno slittare di un mese i dazi sulle auto per Canada e Messico.
Su Avvenire prova a illustrare più o meno gli stessi concetti, in un editoriale, anche l’economista Leonardo Becchetti: «Viviamo in un mondo profondamente interdipendente, dove in ogni filiera si arriva al prodotto finito venduto ai consumatori dopo un gran numero di passaggi di frontiera di materie prime o semilavorati.
Nel caso specifico la divisione del lavoro è tale che le auto americane sono assemblate in gran parte in Messico, mentre il petrolio americano è raffinato in Canada. I dazi americani danneggeranno pertanto gli stessi Stati Uniti, aumentando i prezzi di prodotti realizzati in filiere solo in parte modificabili e sostituibili. (…) Gli effetti dei dazi sono molteplici e complessi. Per prodotti di alta qualità consumati da fasce medio-alte di reddito (come formaggi e vini italiani) la domanda è piuttosto inelastica, e dunque i dazi si risolvono in aumento dei prezzi di prodotti che gli americani comunque compreranno, generando così tensioni inflazionistiche. Solo nel medio termine, se mantenuti in vigore, i dazi producono una ristrutturazione delle filiere.
È il caso di quelli sulle auto cinesi. Ma come nel caso dell’analoga imposizione sulle vetture giapponesi negli anni Ottanta, in questo caso i dazi fanno nascere le “fabbriche cacciavite” in Europa, dove si assemblano le stesse auto cinesi per aggirare il pagamento. Un altro effetto di medio termine è la ricomposizione dei flussi commerciali, che rinforza le relazioni tra Paesi colpiti riducendo invece export e import del Paese che applica le tariffe. I dazi sono dunque un pessimo affare sia per chi li impone sia per chi li subisce: riducono gli scambi e fanno aumentare i prezzi dei prodotti».
L’effetto: rallentano crescita e investiment
L’Economist, in proposito, fa notare che «dato che l’aumento dei prezzi pesa sui consumi e sull’industria manifatturiera, i dazi, secondo gli analisti della banca Morgan Stanley, potrebbero togliere un punto percentuale al tasso di crescita dell’America. Le misure dell’incertezza riguardo la politica commerciale hanno anch’esse fatto segnare un’impennata, il che significa che le imprese potrebbero trattenersi dall’investire».
Visto però che, avvertimenti degli economisti o no, Trump è decisissimo ad andare avanti per la sua strada (in sintesi «se vendi i tuoi prodotti all’America ti metto i dazi, se invece vieni a produrli qui ti taglio le tasse», come ribadito più volte nel discorso davanti al Congresso), come si può reagire?
Nell’intervista con Cesare Zapperi, il presidente della Regione Veneto (grande esportatrice verso gli Usa) Luca Zaia ha parlato dei dazi come di un «flagello», ma ha aggiunto: «Se [Trump] ipotizza dazi al 25% probabilmente il punto di caduta vero è un altro. Del resto, lo ha detto lui stesso alla Casa Bianca a Zelensky: “Non ho mai fatto un affare senza un compromesso”.
Quindi, l’Europa, che con i suoi 450 milioni di abitanti rappresenta il mercato più florido al mondo per gli Stati Uniti, deve essere consapevole che ha le sue carte da giocare. A una condizione. Deve presentarsi unita di fronte a Trump. Non ha senso che i singoli capi di governo o di Stato si presentino da lui per condurre trattative singole. Nessuno da solo ha la forza di trattare da pari a pari».
(da il Corriere della Sera)

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INTERVISTA A ROBERTO D’AGOSTINO: “IL GOVERNO MELONI DEVE FICCARSI NELLA TESTA CHE LO SMANTELLAMENTO SELVAGGIO ALLA TRUMP DEGLI ORGANI DI CONTROLLO DELLO STATO (IL COSIDDETTO “DEEP STATE”), NON ESISTE NELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA”

Marzo 7th, 2025 Riccardo Fucile

“DOPO VENT’ANNI DI DITTATURA FASCISTA, CORTE DEI CONTI, CONSULTA, RAGIONERIA GENERALE ETC. HANNO IL COMPITO DI VIGILARE SULLE EVENTUALI SPINTE AUTORITARIE DELL’ESECUTIVO”… “I SEDICENTI ”CAMERATI” DI PALAZZO CHIGI, POVERI DI CULTURA DEL POTERE MA RICCHI DI VOGLIA DI RIVINCITA, HANNO COMMESSO UN’ARROGANZA DIETRO L’ALTRA: SUL PNRR, TOGLIENDO AL MES I DOSSIER E POI POSTCIPANDO IL CONTROLLO DELLA CORTE DEI CONTI, FINO ALLA SCELTA DI GIORGETTI DI NOMINARE DARIA PERROTTA COME NUOVA RAGIONIERA DELLO STATO”

Le ultime settimane sono state caratterizzate da numerose vicende di cronaca, alcune delle quali ancora poco chiare, che hanno messo in luce una guerra totale tra poteri dello Stato ed evidenziato, ancora una volta, la presenza di uno Stato dentro lo Stato, il cosiddetto Deep State.
Ma che cos’è di preciso il Deep State? E come agisce soprattutto in momenti storico-politici complessi e delicati come quello attuale?
Lo abbiamo chiesto a Roberto D’Agostino, fondatore e direttore di Dagospia, sito web di successo che da oltre vent’anni racconta il potere italiano senza filtri.
Conoscitore del potere che si esplica soprattutto negli ambienti politico-romani, ma che influenza poi lo spirito delle scelte nazionali, “Dago” spiega a TPI perché tutti i premier, dal Dopoguerra in poi, hanno dovuto fare i conti con il Deep State, chiarendo anche quali siano state, a suo parere, le conseguenze per coloro che non si sono adeguati al sistema. Perché, per dirla con le sue parole, con gli apparati «non si va alla guerra, ma ci si deve “attovagliare”».
Lo spionaggio contro i giornalisti, il Dis che presenta un esposto contro il procuratore di Roma, Lo Voi, lo scontro tra Governo e magistratura: sembra di assistere ad una guerra tra poteri dello Stato. Qual è la sua chiave di lettura e di interpretazione delle recenti vicende di cronaca politica?
«Lo scontro tra poteri dello Stato, vale a dire gli apparati e il cosiddetto Deep State, e gli inquilini di Palazzo Chigi è sempre stato un tema all’ordine del giorno sin dall’inizio della Repubblica».
D’Agostino, ci aiuta a comprendere meglio che cos’è di preciso il cosiddetto Deep State?
«Al termine della guerra, dopo vent’anni di Fascismo, la Repubblica italiana, i vari De Gasperi, Togliatti, Nenni eccetera, danno vita a una democrazia parlamentare articolata in un sistema che controbilanciava il potere del governo con il potere del Quirinale, della Corte dei Conti, della Consulta, della Ragioneria Generale, eccetera.
Il ventennio di dittatura mussoliniana aveva lasciato una tale ferita profonda nel corpo dello Stato (di cui gli italiani non hanno mai elaborato il lutto: prima 45 milioni di fascisti, dopo il 25 luglio 45 milioni di antifascisti) che spinse i due maggiori partiti, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, a creare un contrappeso legislativo ad eventuali spinte autoritarie dell’esecutivo.
Il “duello” tra poteri, ad esempio, si è presentato con l’arrivo a Palazzo Chigi di Bettino Craxi, che era estraneo a certe dinamiche dei Palazzi romani».
Ovvero?
«Già Pietro Nenni nel 1963, nel primo governo di centrosinistra, scoprì che a Palazzo Chigi la fatidica “stanza dei bottoni” non esisteva e che l’inquilino del primo piano non poteva fare il cazzo che voleva. Il sistema democratico italiano è fatto di pesi e contrappesi: da una parte, il potere esecutivo; dall’altra, gli apparati dello Stato».
E cosa fece Craxi al suo arrivo al potere, che fino ad allora era stato detenuto quasi esclusivamente dalla Democrazia Cristiana?
«Craxi premier prende come sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giuliano Amato, che non faceva parte della sua corrente, ma era il “Dottor Sottile” ad essere il punto di riferimento tra Palazzo Chigi, il Quirinale, la Corte dei Conti, i Servizi, la Consulta, eccetera».
E poi?
«Quando arriva Silvio Berlusconi al potere, nel 1994, il suo governo fa una fine immediata».
Successivamente, però, Berlusconi è stato il presidente del Consiglio più duraturo dell’Italia repubblicana, detentore di un grandissimo potere economico, mediatico e politico, oltre che beneficiario di un altissimo consenso
«E infatti nel suo secondo governo, Berlusconi corre ai ripari. Chiama come sottosegretario alla presidenza del Consiglio il navigatissimo Gianni Letta, affiancato dall’ottimo Franco Frattini.
Sono loro il segreto dei rapporti del ventennio berlusconiano con il Deep State. Va detto che Berlusconi era interessato ai suoi affari, non a quelli dello Stato: una volta mi rivelò di non conoscere come si chiamava il capo dei Servizi Segreti. Tutto era delegato alle capacità diplomatiche di Frattini e Letta».
Il problema di Giorgia Meloni, quindi, è quello di non essersi affidata a persone in grado di dialogare con il Deep State e di non avere scelto accanto a sé personaggi adatti a ricoprire il ruolo del calibro di coloro che li hanno preceduti?
«Mica solo lei: tutti i premier recenti non hanno mai avuto l’attenzione di avere un “ponte” con i controllori del potere esecutivo.
Renzi arriva a Palazzo Chigi e fa il suo Giglio Magico con quattro amici fiorentini.
Conte, un avvocato del tutto a digiuno di politica politicante, “inventato” da Luigi Di Maio con Matteo Salvini, ha tirato avanti finché relazionava le sue decisioni con il Quirinale (nella persona di Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica, già tutor di Di Maio quando era presidente della Camera)
Quando, dopo l’uscita coatta di Salvini e l’arrivo del Pd, Conte si è cotonato il cervello tagliando il filo con il Colle è naufragato miseramente: gli bastavano appena tre senatori per il Conte-ter, ma il Quirinale l’ha segato».
Torniamo a Meloni.
«All’inizio Meloni voleva mettere come sottosegretario alla presidenza del Consiglio Guido Crosetto, che poi fu fatto fuori perché non era uno della “parrocchia” del Colle Oppio.
La scelta è poi ricaduta su Giovanbattista Fazzolari, uno che nel 2018 era un dirigente di seconda fascia alla Regione Lazio. Quali potevano essere i rapporti con il Deep State?
Infatti Gianfranco Finì chiamò la premier consigliandole di chiamare anche Alfredo Mantovano, ex magistrato, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio».
Gli apparati ora si stanno rivoltando contro il Governo Meloni?
«Sicuramente nei confronti del Deep State, i componenti dell’esecutivo Meloni, poveri di cultura del potere ma ricchi di voglia di rivincita, hanno commesso un’arroganza dietro l’altra».
Ci può fare qualche esempio?
«Sul Pnrr, per esempio, Mario Draghi aveva creato una task force a via XX Settembre, al ministero dell’Economia. Quando arriva Meloni questa task force viene abolita, si crea un nuovo dicastero e passa tutto nelle mani di Raffaele Fitto. Questi sono sgarbi che la Pubblica Amministrazione non digerisce. Un altro esempio è legato alla cacciata di Alessandro Rivera, ex direttore generale al ministero del Tesoro, oppure il violento scazzo con la Corte dei Conti sul controllo dei fondi Pnrr e la scelta di Giorgetti di nominare Daria Perrotta come nuova Ragioniera dello Stato, una figura che non faceva parte dell’apparato».
Quindi, secondo lei, è una sorta di dichiarazione di guerra al Deep State?
«Meloni e camerati non hanno capito che il Deep State è un mondo che non è né di destra né di sinistra ma sta nel centrotavola. Sanno bene che tutti i governi passano, tutti i regimi si dimenticano, ma loro stanno sempre lì, fedeli nei secoli. Quindi, se c’è qualche divergenza con la Corte dei Conti, non si va alla guerra ma, come si dice a Roma, ci si deve “atto-vagliare”, prima discutere e trovare una quadra e infine legiferare».
Dunque la sopravvivenza di un governo passa inevitabilmente dal dialogo con gli apparati. Forse Meloni ha commesso un errore di impreparazione e di prospettiva?
«Se tu prendi una decisione e poi, solamente dopo, la spieghi, ti crei un’opposizione.
La burocrazia sarà elefantiaca, insopportabile nell’era digitale, ma è quella che ha il compito di salvaguardare e vigilare i dettami della Carta costituzionale. Quando si sgarra mette i bastoni tra le ruote, fa il suo compito».
Un esempio di un apparato particolarmente potente?
«Gli uomini degli uffici legislativi sono potentissimi, e gran parte provengono dalla Consulta e dalla Corte dei Conti, perché sono quelli che scrivono materialmente le leggi. E quando vogliono che una noma sia cestinata dal Quirinale o dalla Corte Costituzionale, la scrivono con i piedi.
Un “problema” che Giorgia Meloni vorrebbe decapitare come ha fatto il Caligola a stelle e strisce Trump attuando lo spoils system più folle, a partire dalla decapitazione dei vertici del Pentagono. Ma in Italia, purtroppo per la Giorgia dei Due Mondi, c’è un sistema politico che è ben diverso da quello americano dove la burocrazia è considerata obsoleta. Però anche il sistema americano sta avendo i suoi problemi».
Ci spieghi meglio questo concetto.
«Quando tu decapiti centri di potere assoluto come l’Fbi o la Cia, una reazione te la devi aspettare. Guarda caso, poi spunta un dissidente libico che si trova in Svezia che posta le foto di Almasri mentre scende da un aereo dei Servizi italiani (Aise)».
Questo che significa?
«Forse chi è troppo vicino ad Attila Trump potrebbe correre: magari i vertici dell’intelligence avranno riempito gli scatoloni di chiavette piene di documenti…».
Quindi le pressioni maggiori sul Governo arrivano dall’estero?
«No, quello di Almasri è un caso. Poi anche all’interno c’è un sistema che non prevede di far fuori la burocrazia, che ha pure tempi cari al Novecento. In Italia ci sono più leggi che abitanti, ma senza la burocrazia non ci sarebbe nessuna vigilanza sul governo. La burocrazia puoi adeguarla ai tempi ma non puoi farne a meno».
A proposito di intelligence, le recenti dimissioni di Elisabetta Belloni dal Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, come vanno lette?
«Dopo la riforma dei Servizi Segreti, il Dis aveva il compito amministrativo di coordinare il lavoro esecutivo delle due agenzie di interni ed esteri. Un bel giorno Belloni è andata da Mantovano, autorità delegata ai Servizi, chiedendo di essere l’unica sua interlocutrice. Ovviamente, è uscita con le pive nel sacco».
Perché?
«Mantovano ha come interlocutori Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise, e Bruno Valensise, direttore dell’Aisi: Elisabetta Belloni è finita in “sala d’attesa”. È anche vero che la riforma dei Servizi è stata fatta male perché chi è andato a capo del Dis, poi, non si è mai limitato alle regole d’amministrazione e si creano dei conflitti in un apparato il cui obiettivo è quello di assicurare la sicurezza dello Stato».
Riguardo all’argomento inerente alla sicurezza dello Stato, nei giorni scorsi è emerso che alcuni giornalisti e attivisti sono stati intercettati attraverso lo spyware Paragon, in dotazione al Governo italiano prima della rescissione del contratto.
«Se un giornalista viene spiato dovrebbero spiegare se l’intercettato è un terrorista che mette a rischio lo Stato. Se l’intercettato è solo un “avversario” politico, non si capisce dove andiamo a finire».
Il silenzio di Giorgia Meloni, in particolar modo su questa vicenda, ma anche su altre questioni poco chiare, sulle quali la presidente del Consiglio sembra sparita dai radar del dibattito parlamentare e giornalistico, social a parte, come si spiega
«Sinceramente non la capisco. Basterebbe porre il segreto di Stato e spiegare che sono affari che riguardano la sicurezza del Paese chiudendo lì la questione. Queste vicende dimostrano che coloro che governano oggi non hanno la cultura del potere in possesso ai leader della Prima Repubblica».
È un problema di classe dirigente, quindi, e di scelte di personale politico?
«Basti pensare al caso Striano e all’accesso abusivo ai dati della Direzione nazionale Antimafia. Non è che la destra ha potuto incolpare Elly Schlein o Nicola Fratoianni, è tutta roba loro».
Qual è il ruolo dei Servizi al giorno d’oggi?
«Il problema è geopolitico, la discriminante oggi è la politica estera, che è un settore da sempre in mano all’intelligence. Il ruolo dei Servizi è molto ma molto più importante perché ha bisogno di mezzi tecnologici che l’Italia deve solo comprare. Ma c’è un problema».
Quale?
«Che se tu compri, il venditore a sua volta ti può “attenzionare” quando vuole. E con l’intelligenza artificiale gli spyware saranno sempre più invasivi».
Lei con il suo sito Dagospia non fa sconti a nessuno, potenti e non. Non teme di essere intercettato?
«Lo do per scontato, ma è ovvio. Siamo tutti intercettati, oggi basta uno che lavora in banca per entrare nel conto corrente di Mattarella. È l’altra faccia della tecnologia. Da una parte ti dà la possibilità di fare tutto digitando un telefonino, dall’altra devi mettere in conto che la tua privacy non esiste più. Come si dice a Roma: non si può avere la siringa piena e la moglie drogata».
(da TPI – The Post Internazionale”)

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