Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
AGLI INTERVISTATI È STATO CHIESTO SE FOSSERO D’ACCORDO, ALLO SCOPO DI “RENDERE L’ITALIA PIÙ EFFICIENTE, GIUSTA E SICURA”, DI AFFIDARE IL GOVERNO A “UNA PERSONA AUTOREVOLE, IN GRADO DI OPERARE IN AUTONOMIA, SENZA IL CONTROLLO DEL PARLAMENTO, E SENZA NECESSITÀ DI UNA MAGGIORANZA PARLAMENTARE, CON UN MANDATO FISSO DI CINQUE ANNI” … TRA 18 E 24 ANNI, LA PERCENTUALE DI ITALIANI FAVOREVOLE A QUESTA SOLUZIONE È AL 42%. TRA 25 A 34 ANNI SALE AL 52%
Giovedì, sul finale della puntata di «Otto e mezzo», Carlo Calenda ha tirato fuori un
foglio con un sondaggio commissionato da Azione all’istituto Swg. «Ipotesi del premier con mani libere», recita il titolo. Tra 18 e 24 anni, la percentuale di italiani favorevole a questa soluzione è intorno al 42%. Tra 25 a 34 anni sale al 52%: la maggioranz
All’inizio ho pensato a un malinteso, a una domanda formulata male. Ma non è così.
Agli intervistati è stato chiesto se fossero d’accordo, allo scopo di «rendere l’Italia più efficiente, giusta e sicura», di affidare il governo a «una persona autorevole, in grado di operare in autonomia, senza il controllo del Parlamento, e senza necessità di una maggioranza parlamentare, con un mandato fisso di cinque anni». Questa è la strada maestra verso un’autocrazia. Ce ne rendiamo conto?
I più anziani lo capiscono. La percentuale degli over 64 favorevole al «premier con le mani libere» scende al 28%. Forse perché noi, qualcuno che ha vissuto l’inganno della dittatura, l’abbiamo conosciuto. Abbiamo incontrato e ascoltato i testimoni diretti. Nati nella prima metà del Novecento ci hanno raccontato come i regimi sappiano raccogliere la frustrazione diffusa e alimentare catastrofiche illusioni. Ma noi non siamo stati capaci di spiegarlo ai nostri figli.
Un disastro educativo che potrebbe avere conseguenze drammatiche. Un governo senza controllo parlamentare è un regime. E un regime per cinque anni non esiste: chi prova il potere assoluto non lo molla. Guardate cos’è successo in Russia e in Bielorussia; cosa sta accadendo in Turchia, in Ungheria e in Israele; cosa potrebbe accadere negli Usa.
(da Corriere della Sera)
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
LA LINEA DELLA MELONI E’ COMPLETAMENTE APPIATTITA, INDEBOLISCE LA CREDIBILITA’ DEL NOSTRO PAESE E DELEGITTIMA LA LINEA COMUNE DELL’EUROPA
Giorgia Meloni si lamenta spesso del modo in cui, a suo dire, verrebbero interpretate e strumentalizzate le sue parole. Del resto, vittimismo e deresponsabilizzazione sono componenti essenziali della sua comunicazione, praticamente da quando ha cominciato a fare politica. È più o meno quello che è avvenuto dopo la sua intervista al Financial Times, che è stata interpretata un po’ da tutti per quello che era: la conferma dell’appiattimento pressoché totale del nostro governo sulla linea della nuova amministrazione americana, che si esplicita nel modo in cui Meloni si muove ai tavoli europei sulle grandi questioni di politica estera. Abituata a disporre a proprio piacimento o quasi dei media a lei vicini, dunque, la nostra presidente del Consiglio si è detta “stupita” di tale interpretazione e ha provato a propinarci la solita solfa: lei “sta con l’Italia”, che è in Europa e che ha come ruolo quello di “difendere l’unità dell’Occidente”.
Chi abbia rotto l’unità dell’Occidente, però, Meloni non lo dice. Chi stia cannoneggiando le democrazie liberali europee, non è un problema di Meloni. Chi considera gli alleati storici un peso (con epiteti non sempre ripetibili), mentre ridisegna il sistema di scambi e relazioni, non è un discorso che Meloni si sente di affrontare. Insomma, siamo sempre lì: tra vittimismo e supercazzole, speculazioni e trial balloon (oggi ci dice che Schlein vuole una comunità hippie demilitarizzata, invece che il riarmo dell’Unione), la leader di Fratelli d’Italia continua a fare il gioco delle tre carte in politica estera. Indebolisce la linea comune, delegittima l’azione politica europea, mentre rafforza la strategia globale del trumpismo. Uno schema piuttosto chiaro agli alleati europei, ormai rassegnati a muoversi senza il nostro Paese (al netto dei tentativi di von der Leyen, che sul suo rapporto con Meloni ha investito tanto e che prova a giustificare anche i due tavoli su cui gioca la leader di Fdi).
Discorso diverso, invece, per quel che riguarda il modo in cui le scelte di Meloni in politica estera vengono digerite ed elaborate nel dibattito interno. Qui Meloni ha un indubbio vantaggio, che nasce dalla debolezza dei propri alleati di governo e dalle divisioni dell’opposizione. Oltre che da una evidente capacità di far passare per buonsenso e realismo quelle che invece sono posizioni strumentali alla strategia trumpiana di indebolimento della Ue e di ridefinizione delle sfere di influenza, con la riabilitazione dell’autocrazia russa.
Giorgia Meloni ormai è più trumpiana di Donald Trump: e per l’Europa è un grosso problema
Tornando alle vicende interne, va dato atto a Claudio Durigon, vice-segretario nazionale della Lega, di aver detto quello che pensiamo un po’ tutti: Antonio Tajani è in grande difficoltà, perché tocca palla raramente e le sue dichiarazioni appaiono spesso fuori contesto, evidenziando quanto ampia sia la distanza fra i principali partiti della maggioranza di governo. Il piccolo problema è che Tajani non è solo il leader di Forza Italia, ma il ministro degli Esteri del governo di cui Lega e Fratelli d’Italia fanno parte. E dire pubblicamente che “deve farsi aiutare”, equivale ad ammettere che la sua linea non è convincente, efficace, ma soprattutto non condivisa. Che va cambiata, insomma. In un Paese normale, avremmo parlato di una sfiducia esplicita. Da noi, le cose vanno diversamente, soprattutto perché Tajani è da tempo un ministro degli Esteri a mezzo servizio, commissariato da Meloni e poco rispettato dai leghisti.
Il modo in cui si è risolta la polemica di qualche giorno fa è paradigmatico. Infatti, per rabbonire il leader forzista è bastata la prontezza con cui Giorgia Meloni, di solito maestra nell’arte del temporeggiare e attendere che le polemiche interne decantino, è intervenuta. Alla presidente del Consiglio, infatti, è stato sufficiente telefonare a un “furibondo” Antonio Tajani per rinnovargli la propria fiducia e per condividere con lui una buona dose di insofferenza per la strategia leghista. In un momento in cui l’Italia sta giocando una partita cruciale in Europa, è stato il ragionamento comune, aprire una crisi sarebbe stato un problema enorme. Non solo perché si rischiava di indebolire la linea “di discontinuità” del governo italiano in Europa (ricordiamo che Tajani è praticamente il solo interlocutore del partito di maggioranza relativa a Bruxelles e già deve districarsi in equilibrismi dialettici per spiegare ai vertici del Ppe la posizione “problematizzante” del nostro governo su dazi, ReArm e Ucraina). Ma anche perché avrebbe rianimato l’opposizione, che proprio in politica estera mostra con grande evidenza le proprie divisioni strutturali. Meglio derubricare a “salvinata” l’attacco scomposto della Lega all’altro vicepresidente del Consiglio. Così come sono liquidati come marginali i distinguo del Carroccio sulla difesa comune e sulle spese per il riarmo in generale.
Una pezza regge però solo finché non ci sono altre sollecitazioni, è noto. E in politica estera ci sono quei momenti in cui non bastano le capriole comunicative e gli artifici retorici, ma occorre dire da che parte si sta, per cosa si vuole lavorare e qual è la reale strategia. Ecco, uno di quei momenti sta arrivando. Non basteranno più le supercazzole, gli equilibrismi tattici e i “ma anche”. Sulla Groenlandia, sull’Ucraina, sui dazi, sullo spazio, Meloni dovrà fare scelte chiare. E dirci anche a che servono Salvini e Tajani.
(da Fanpage)
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
MORALE DELLA FAVA? NELLO SCONFINATO MAGAZZINO DELLA RISCOSSIONE, AL 31 GENNAIO SCORSO, C’ERANO 1.279,8 MILIARDI DI DEBITI ARRETRATI … IN TEORIA GLI ITALIANI DEVONO ANCORA AL FISCO UNA CIFRA PARI AL 58,4% DEL PIL, E LA MONTAGNA CRESCE AL RITMO DI 65 MILIARDI ALL’ANNO, 178 MILIONI AL GIORNO
I numeri fotografano una macchina della riscossione che, dismessi gli abiti da parata,
zoppica con un motore imballato da annullamenti, in autotutela o in giudizio, stralci, rottamazioni e sanatorie di ogni genere e specie. «Il tasso di riscossione dei carichi affidati dal 2000 al 2024 – riconosce la memoria depositata mercoledì a Palazzo Madama dal direttore generale delle Finanze, Giovanni Spalletta – si attesta al 9,6%, sicché i carichi riscossi sono meno della metà di quelli annullati (22,5%)». In pratica, ogni 100 euro chiesti dalle cartelle fiscali, solo 9,6 finiscono nelle casse dello Stato, dell’Inps o degli altri enti creditori.
Altri 17,4 euro vengono cancellati dai colpi di spugna normativi, come quelli che negli ultimi otto anni sono intervenuti a ripetizione per cancellare i mini-debiti (82,7 miliardi sfumati in tre stralci, si veda Il Sole 24 Ore di venerdì) o abbuonare sanzioni, interessi e aggi a chi aderiva alle rottamazioni, spesso senza pagare le rate successive alla prima (63 miliardi persi in quattro edizioni; Sole 24 Ore di venerdì).
Il resto finisce nello sconfinato magazzino della riscossione, che al 31 gennaio scorso ospitava la somma stellare di 1.279,8 miliardi di debiti arretrati come spiegato giovedì, sempre al Senato, dal direttore delle Entrate, Vincenzo Carbone. In teoria, insomma, gli italiani devono ancora al Fisco una cifra pari al 58,4% del Pil, e la montagna cresce al ritmo di 65 miliardi all’anno, 178 milioni al giorno: quasi quanto il debito pubblico, che nel 2024 è aumentato di 266,5 milioni ogni 24 ore. In teoria, appunto.
Perché oltre a essere sterminato, il magazzino delle cartelle non è propriamente a tenuta stagna, come dimostra un altro gruppo di numeri discussi al Senato. A portarli è stato Roberto Benedetti, l’ex presidente di sezione della Corte dei conti che ora guida la «Commissione per l’analisi del magazzino della riscossione» creata dalla delega fiscale per fare luce sul tema: 537,75 miliardi, ha detto, sono ormai persi, perché dovuti da persone ormai decedute, società cancellate o fallite o da contribuenti che, di fronte al tentativo di azioni esecutive del Fisco, si sono rivelati nullatenenti, e altri 167,31 miliardi presentano un «profilo di riscuotibilità non determinabile»
perché relativi a imprese con fallimento in corso oppure oggetto di attività di riscossione sospese in autotutela dagli enti creditori o da decisioni dei giudici.
Restano 567,85 miliardi caratterizzati da qualche «aspettativa di riscossione»: aspettativa non elevatissima, par di capire, se il 13,8% di questi crediti risale ai primi anni Duemila, e un altro 29,5% ha un’età compresa fra gli 8 e i 14 anni.
Gli italiani pagano quando sono costretti a priori, con quella che il sorvegliato gergo tecnico definisce «compliance» e un linguaggio più schietto può inquadrare come obbligo senza via d’uscita. Ma squadernano un ventaglio amplissimo di strumenti elusivi, dilatori o giudiziari quando la prevenzione fallisce, sfruttando anche gli infiniti passaggi procedurali imposti dalle tante norme nate negli ultimi anni per tagliare le unghie alla riscossione: avvisi, intimazioni, solleciti che «assorbono buona parte della capacità operativa dell’agenzia della riscossione», ha sottolineato Carbone.
La prevenzione vince, insomma, sulla repressione. Lo dimostrano i risultati ottenuti con fatturazione elettronica, split payment e reverse charge, su cui lo stesso Renzi liquidatore di Equitalia ha puntato con successo riducendo il tax gap, cioè la forbice fra gettito tributario atteso e incassi realizzati, dai 96,7 miliardi del 2016 ai 72 miliardi del 2021, quando quegli strumenti erano pienamente in vigore.
(da Sole 24 Ore)
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX PRESIDENTE ALCOLIZZATO MEDVEDEV: “HA FALLITO, IL SUO POPOLO STA MORENDO E IL SUO PAESE SCOMPARENDO” … RIA NOVOSTI , LA PIÙ GRANDE DELLE TRE AGENZIE DI STATO: “ZELENSKY? CON LUI, PUTIN NON INTENDE DIALOGARE. E NON VEDE IN UCRAINA PERSONAGGI CON CUI ACCORDARSI”
«Nessun rispetto». Nell’epoca della politica fatta con i social, anche un personaggio come Dmitry Medvedev può fare da bussola. Sono ormai più di cinque anni che l’ex presidente della Federazione russa ed ex primo ministro è fuori dai giochi. Da quando Vladimir Putin lo sostituì in modo molto brusco alla guida del governo. Ma dopo l’inizio dell’operazione militare speciale, Medvedev sta usando la comunicazione per tornare nelle grazie del suo mentore.
Così negli ambienti della politica moscovita viene spiegata la sua frenetica attività su Telegram, espressa con una aggressività e una violenza verbale sconosciute a un personaggio che per un breve periodo incarnò la speranza di una svolta liberale del suo Paese. «Oggi scrive per compiacere il Capo», si dice. E quindi, in qualche modo, svolge anche una funzione di bussola. Le sue parole su Volodymyr Zelensky, sul fatto che non c’è nulla per cui rispettarlo, indicano una tendenza precisa
«Ha fallito, il suo popolo sta morendo e il suo paese scomparendo» scrive, attaccando
anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, reo di avere sostenuto che l’Ucraina ha un governo legittimo e un presidente degno. «Questa è una doppia bugia», urla Medvedev.
Dopo le parole rivelatrici di Putin sulla possibilità a lui ben accetta di introdurre una governance esterna in Ucraina, la questione Zelensky è ormai ufficialmente sul tavolo dei negoziati, impossibile da ignorare. Non che fosse una novità. Il presidente russo aveva dedicato ampio spazio alla presunta illegittimità del suo omologo ucraino anche lo scorso 19 dicembre, durante la consueta linea diretta di fine anno con la Russia, considerandola come un impedimento alla firma e alla validità di qualunque trattato.
Ma siccome al Cremlino nulla avviene mai per caso, ritirare fuori l’argomento, con quella forza, nelle more di una tregua che più parziale non si può, significa porre con consapevolezza un ostacolo al momento insormontabile per l’esito finale delle trattative. E il carico messo da Medvedev, per la verità con una ferocia verbale più contenuta del solito, vale quasi come un sigillo.
Con un editoriale, Ria Novosti , la più grande delle tre agenzie di Stato, opera un ribaltamento di prospettiva […] «Zelensky finge che tutto sia sotto controllo e assicura gli americani che è pronto a parlare con la Russia, eccettuato Putin. Con lui, Zelensky non intende dialogare: questo è sicuramente reciproco. Putin non solo non vuole parlare con Zelensky, ma non vede in Ucraina personaggi con cui accordarsi. Però ce n’è bisogno per concludere accordi di pace, e allora dove cercarli?». […]
Sergey Stankevich, ex vicesindaco di Mosca, tra gli autori della Costituzione russa, da alcuni anni fervente sostenitore di Putin. «L’ostacolo principale alla pace è la presenza in Ucraina di una casta di parassiti guidata da Zelensky, che sostenuto e foraggiato dai governi europei, persevera a recitare la sua parte pur trovandosi in un vicolo cieco».
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
LA CROCIATA DEL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO HA SCATENATO UN’ONDATA DI POLEMICHE NEGLI STATI UNITI, CON MOLTI CHE LA GIUDICANO UNA VIOLAZIONE DI BASILARI PRINCIPI DELL’ECONOMIA DI MERCATO, DOVE LE IMPRESE HANNO IL DIRITTO DI DECIDERE LE PROPRIE STRATEGIE
Topolino è sotto inchiesta dell’amministrazione Trump, perché è troppo inclusivo e
attento alla diversità. Almeno così la pensa Brendan Carr, nominato dal presidente a capo della Federal Communications Commission, che appunto ha avviato l’indagine contro la Disney.
Trump ha lanciato una campagna contro i media su vari fronti. La scorsa settimana si sono tenute udienze in tribunale sulla chiusura di Voice of America e sulla disputa con l’agenzia Associated Press, esclusa dai briefing della Casa Bianca perché si rifiuta di definire il Golfo del Messico Golfo d’America, come ordinato dal presidente. Carr, nominato da Trump, ha indirizzato la Federal Communications Commission ad aprire indagini tra gli altri su ABC, CBS e NBC News.
“Per decenni – ha scritto a Iger il capo della Fcc – la Disney si è concentrata sulla produzione di successi al botteghino e nella programmazione. Ma poi qualcosa è cambiato. La Disney è ora coinvolta in una serie di controversie sulle sue politiche DEI”. Carr ha riconosciuto che la compagnia ha fatto alcuni cambiamenti, ma ha aggiunto che “restano notevoli preoccupazioni” su altre pratiche. Secondo l’AP, alcuni esempi citati nella lettera sono una politica della ABC di secondo cui almeno il 50% dei personaggi televisivi doveva provenire da gruppi sottorappresentati, e la
lettera di un dirigente della Disney che nel 2021 aveva respinto alcuni pilot televisivi perché non soddisfacevano gli standard di inclusione.
La pretesa di Trump di imporre la sua linea politica contro le iniziative per l’inclusione anche alle aziende private ha suscitato critiche e reazioni sconcertate
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
ZELENSKY: “LA RUSSIA SI STA PRENDENDO GIOCO DEGLI SFORZI MONDIALI PER LA PACE. VUOLE TRATTARE DA UNA POSIZIONE PIÙ FORTE”
Una palazzina vistosamente danneggiata, le finestre rotte, i balconi distrutti. E sotto un ammasso di schegge di vetro e calcinacci. Sono alcune delle terribili immagini che i giornali internazionali pubblicano da Dnipro, nel cuore dell’Ucraina martoriata dalla guerra. Una guerra che prosegue più cruenta che mai mentre la proposta di Kiev e Washington di una tregua “totale” di almeno 30 giorni giace ancora sulla scrivania di Putin.
Le autorità locali accusano le truppe russe di aver lanciato più di 20 droni contro la città di Dnipro. E denunciano gravissimi danni, incendi nella notte in un hotel e in diverse abitazioni. Il bilancio ufficiale delle vittime al momento è di almeno quattro morti e 24 feriti, di cui tre in gravi condizioni.
Mentre si parla di tregue “totali” o “parziali”, i cannoni continuano a sparare. La gente continua a morire. Anzi, l’alto commissario Onu per i diritti umani denuncia che la situazione ultimamente è persino peggiorata. «I combattimenti in Ucraina si sono intensificati e stanno uccidendo e ferendo ancora più civili. I numeri delle vittime nei primi tre mesi di quest’anno sono più alti del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso», ha precisato Volker Turk secondo il Guardian.
Per ora Mosca non mostra di voler fare alcun passo indietro sui territori ucraini occupati. E non pare esattamente un segnale di pace quello lanciato venerdì da Putin.«Ci sono ragioni per supporre che elimineremo» le forze ucraine, ha tuonato il padrone del Cremlino, sostenendo che le truppe russe detengano «l’iniziativa strategica lungo tutta la linea del fronte».
La risposta di Zelensky non si è fatta attendere. «La Russia si sta prendendo gioco degli sforzi mondiali per la pace, prolungando la guerra e continuando a provocare morte perché non sente ancora alcuna pressione reale», ha dichiarato il presidente
ucraino puntando il dito contro Putin ma probabilmente lanciando anche un messaggio a Washington, che con Trump alla Casa Bianca si è riavvicinata al Cremlino.
Nei giorni scorsi, Zelensky ha accusato Putin di voler lanciare nuove offensive sulle regioni di Sumy, Kharkiv e Zaporizhzhia – nell’Est dell’Ucraina – per negoziare poi «da una posizione più forte». E di futuri possibili attacchi russi «su più direzioni» parlano anche “analisti e comandanti” citati dall’Associated Press.
Anche a Kryvyi Rih, in Ucraina centro-meridionale, le autorità locali denunciano un nuovo raid: accusano l’esercito del Cremlino di aver attaccato la città con un missile balistico ferendo almeno otto civili e in un attacco con droni a Kharkiv si registrano un morto e una decina di feriti. Dall’altro lato del fronte, la Russia punta il dito contro i soldati ucraini accusandoli di aver colpito la rete elettrica della regione di Belgorod e di aver lasciato più di 9.000 persone senza elettricità.
Dai recenti colloqui di Riad, dove i rappresentanti americani hanno incontrato separatamente quelli di Russia e Ucraina, è emersa anche un’altra intesa di massima: quella sulla sicurezza della navigazione sul Mar Nero. Ma anche qui la strada non appare priva di ostacoli. Per attuare l’accordo, Mosca chiede infatti la cancellazione di alcune sanzioni che le sono state inflitte per aver invaso l’Ucraina.
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
GIAPPONE E COREA SI SONO ROTTI LE BALLE DELL’ARROGANZA DI TRUMP CHE E’ RIUSCITO NELL’IMPRESA DI FAR RIAVVICINARE ALLA CINA DUE PAESI FINO A IERI OSTILI AL DRAGONE
Giappone, Corea del Sud e Cina hanno dichiarato oggi che rafforzeranno la loro
cooperazione “per creare un ambiente prevedibile per il commercio e gli investimenti”, secondo un comunicato congiunto pubblicato dopo una riunione dicasteriale speciale. I ministri di tre paesi asiatici responsabili dell’Industria e del Commercio si sono incontrati a Seul in risposta all’offensiva doganale del presidente americano Donald Trump. Hanno inoltre chiesto di “accelerare” i negoziati in corso dal 2013 per concludere “un accordo trilaterale di libero scambio globale”.
L’incontro tra gli esponenti di Pechino, Seul e Tokyo è il primo a tale livello in cinque anni. Trump ha gettato il commercio globale nel caos con una serie di tariffe punitive su una vasta gamma di importazioni, tra cui automobili, camion e ricambi auto. Corea del Sud e Giappone sono importanti esportatori di automobili, mentre anche la Cina è stata duramente colpita dai nuovi dazi statunitensi.
All’incontro hanno partecipato il ministro dell’Industria sudcoreano Ahn Duk-geun, il suo omologo giapponese Yoji Muto e quello cinese Wang Wentao. Ahn ha affermato che i tre paesi devono rispondere “congiuntamente” alle sfide globali condivise. “L’attuale ambiente economico e commerciale è caratterizzato da una crescente frammentazione dell’economia globale”, ha detto.
(da agenzie)
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
“È UN’INSUBORDINAZIONE CONTRO UNO DEI CINQUE “RE” (ERDOGAN, PUTIN, XI, LA GUIDA SUPREMA IRANIANA, ISIS E SOCI) CHE SONO UNA MINACCIA ESISTENZIALE PER IL MONDO LIBERO. IN QUESTO MOMENTO STORICO L’EUROPA NON FA NIENTE, NON DICE NIENTE, NON SI ESPRIME, SE NON CON PAROLE DI CIRCOSTANZA”
Il popolo si sta ammassando nelle strade delle città turche. È lui che, in manifestazioni colossali, chiede la liberazione di Ekrem Imamoglu, il sindaco laico di Istanbul, investito dal suo partito per sfidare con i suoi colori Erdogan nel 2028.
È lui che, come il suo leader, sembra non voler cedere, malgrado le repressioni, le centinaia di arresti, le liste dei sospetti, le minacce, gli account su X chiusi – a prescindere da quello che dice Elon Musk – su richiesta delle autorità.
Si tratta di un movimento che non ha precedenti dai tempi delle manifestazioni di Gezi del 2013. È una sollevazione popolare i cui slogan ricordano quelli delle donne iraniane, degli studenti di Hong Kong, dei ribelli di Georgia, Serbia o Bielorussia. È un’insubordinazione contro uno dei cinque “re” (Erdogan quindi, ma anche Putin, Xi, la guida suprema iraniana, Isis e soci) che non faccio altro che ripetere che sono una minaccia esistenziale per il mondo libero. Un momento fantastico e bellissimo.
Ebbene, in questo momento in teoria storico l’Europa non fa niente, non dice niente, non si esprime, nel migliore dei casi, se non con parole di circostanza – «profonda preoccupazione… preoccupante passo indietro per la democrazia…». Erdogan non ha
forse il controllo, grazie agli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli, della rotta dal Mediterraneo al Mar Nero? Non è un altro grande esperto della “art of deal” che, nel 2015, sotto l’egida di Angela Merkel, è riuscito a concludere con Berlino un patto leonino che, in cambio di una rendita annua di qualche miliardo di euro, lo impegna a trattenere centinaia di migliaia di migranti, in arrivo perlopiù dalla Siria, e che minaccia di lasciar “riversare” in Europa?
Non siamo paralizzati dal nodo gordiano di una presenza nella Nato che risale all’epoca in cui l’ex potenza ottomana doveva essere un baluardo nei confronti dell’Unione Sovietica e dove si arrivò a intavolare il dibattito sull’adesione della Turchia all’Unione europea?
Pensate! Il secondo esercito dell’alleanza per numero di effettivi dopo quello degli Stati Uniti… La sua base più grande a Incirlik, sul Mediterraneo, non lontano dalla Siria… E, in quella base, un centinaio di ordigni nucleari americani conservati dagli anni Cinquanta – e si fa davvero fatica a credere che la loro chiave si trovi oltre Atlantico… E l’impossibilità, sì, di tagliare quel nodo perché nella Carta della Nato non esiste una clausola che prevede l’esclusione di uno dei suoi membri – oltretutto fondatore! – dall’alleanza… Pertanto, circospezione. Prudenza. E, sotto la spada di Damocle, proteste puramente formali.
Una pusillanimità simile sbigottisce. Penso infatti agli armeni dell’Artsakh, nostri amici, che le forze armate dell’Azerbaigian hanno combattuto e poi scacciato con l’aiuto della Turchia, e di cui stanno per cancellare addirittura la memoria e ciò che ne resta nelle loro terre ancestrali. Penso ai curdi di Rojava, altri amici, a Est della Siria, anche loro bestia nera di Erdogan che egli bombarda ad Afrin, Manbij, Kobanê.
Penso a Israele, naturalmente, l’eliminazione della quale questo Fratello musulmano non perde occasione di domandare – del resto, non fu uno dei primi, all’indomani del 7 ottobre, a dichiarare con la kefiah al collo che Hamas non è “un’organizzazione terroristica” bensì un gruppo di «mujaheddin che difendono le loro terre»? Penso ai suoi rapporti con Putin, di cui non si capisce mai molto bene se è nemico (quando uno dei suoi F16 abbatte un cacciabombardiere Sukhoi che si era avventurato nel suo spazio aereo) o amico (quando acquista da lui un sistema di difesa antiaerea made in Russia e incompatibile – a dir poco – con i sistemi e le procedure della Nato).
Penso a Cipro occupata. Penso alla Grecia minacciata. Penso alla mia cara Bosnia, il cui Islam illuminista lo mette in ombra e a bordo del quale egli tenta di salire. […]E mi dico che malintesi e farse sono durati troppo a lungo. Anche il suo popolo lo pensa e sembra disposto, adesso, a tagliare ogni rapporto? Ne ha abbastanza di questo tiranno sempre più vecchio che si è creduto un Solimano senza essere mai stato nient’altro che Ubu? Beh, tanto meglio. Non soltanto dobbiamo auspicarlo, ma se possibile incoraggiarlo. Ci farebbe onore. Ed è nostro interesse.
Bernard-Henri Lévy
per “la Stampa”
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Marzo 30th, 2025 Riccardo Fucile
SOLO CHE NEL 1935 IL GIOCO VENNE ACQUISTATO DALLA “PARKER BROTHERS”, CHE LO TRASFORMÒ DA “MANIFESTO RIVOLUZIONARIO” IN UN ELOGIO DEL CAPITALISMO … “MONOPOLI” DIVENNE TALMENTE POPOLARE CHE, DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE, VENIVA USATO DAGLI 007 BRITANNICI PER AIUTARE I PRIGIONIERI DI GUERRA A FUGGIRE DALLE PRIGIONI NAZISTE
Monopoly è un gioco spietato. Mica per niente è il più amato e odiato per le serate in
famiglia, tanto da spingere qualcuno a bandirlo definitivamente per evitare discussioni. Un sondaggio di OnePoll dice proprio questo: il 44 per cento dei giocatori intervistati ha vietato il gioco alle sue serate.
Una storia lunga novant’anni (forse qualcosa in più), che nasce dalle ceneri di movimento politico anti-monopolista per arrivare con il significato opposto nelle case di un miliardo di giocatori in 114 paesi, diventando un fenomeno culturale tanto forte da influenzare anche le sorti della seconda grande guerra.
In quel periodo, i servizi segreti britannici dell’MI9 avevano dato una strana istruzione ai soldati di alcuni reparti dell’aeronautica: controllare sempre la scatola del Monopoly. […] Qualche anno prima, come conseguenza della convenzione di Ginevra, la Germania nazista aveva concesso alla croce rossa un accordo per far arrivare pacchi ai prigionieri di guerra. A loro potevano essere recapitati beni primari e svaghi, scrive l’Atlantic.
L’MI9 era pronto a cogliere la palla al balzo, con l’obiettivo di fare entrare in quei kit anche oggetti che potessero aiutare i soldati nella fuga dalle prigioni naziste. […] I servizi avevano la necessità di stampare una mappa della Germania su un materiale come la seta, con l’obiettivo di renderla resistente a nascondigli (es. gli scarponi) e alle intemperie. Solo una società aveva sviluppato una tecnologia simile in quegli anni, la John Waddington Ltd. Per pura coincidenza, era anche la casa editrice di Monopoly nel Regno Unito. Così nel pacco per i prigionieri si poteva trovare anche una copia del gioco, con gli attrezzi per fuggire nascosti sotto la plancia, tra le banconote finte e in mezzo alle pedine.
La prima edizione è entrata in produzione il 19 marzo 1935 per volere della Parker Brothers, poi acquisita da Hasbro. Più tardi è approdata nei negozi italiani con l’iconico adattamento della Editrice Giochi, che ha cambiato i nomi delle vie ispirandosi alla toponomastica di Milano. Nonostante il suo grande successo, però, non è chiaro a tutti i giocatori che Monopoly potrebbe essere tranquillamente ribattezzato come “Capitalismo: The Game”.
Monopoly però nasceva con tutt’altro intento. La genesi è infatti un gioco da tavolo intitolato The Landlord’s Game, cioè il gioco dei latifondisti ideato dall’autrice e imprenditrice Elizabeth Magie nel 1904. Gli Stati Uniti in quel momento stavano entrando prepotentemente nell’epoca industriale, con la diffusione del petrolio, delle acciaierie e delle ferrovie. […] E in quel contesto di ricchezza crescente crebbero anche i sindacati, perché le paghe erano basse, e i nuovi ricchi industriali stavano diventando sempre più ricchi.
Intanto, a bordo di un mercantile, il giovane Henry George rimase inorridito dalle condizioni di lavoro dei marinai. E senza alcun background economico, mosso solo dal desiderio di capire il mondo, arrivò a scrivere Progresso e povertà, un libro manifesto pubblicato nel 1879 con cui – sostanzialmente – denunciava le iniquità del capitalismo moderno. La sua tesi era molto semplice: la proprietà privata sul terreno crea disuguaglianze, e crea la base anche per lo sfruttamento del lavoro. La sua
proposta? Una tassa unica sui terreni, un affitto che si doveva pagare allo stato per poter usufruire di un terreno di proprietà naturale di tutti.
Così nacque il gioco di Magie, dalla fascinazione per la “single tax”: «Lo scopo non è solo quello di intrattenere i giocatori, ma di illustrare loro come nell’attuale sistema di proprietà terriera, il proprietario ha un vantaggio rispetto ad altre imprese. E anche come un’imposta unica scoraggerebbe la speculazione fondiaria», si legge nel brevetto del gioco, poi acquistato dalla Parker Brothers e affidato alle mani dell’autore Charles Darrow per la commercializzazione.
Comunque, le teorie di George – tra fine Ottocento e inizio Novecento – ebbero un discreto successo. E l’establishment dell’epoca lo etichettò presto come un pericolosissimo comunista. Ma, ecco, non era propriamente così. Il Georgismo ipotizzava quella sui terreni come unica tassa, tutte le altre (sul capitale e sul lavoro) dovevano essere eliminate. Proprio per queste ragioni l’idea è stata ripresa successivamente e inglobata a forme di libertarismo di destra. Tuttavia, dopo la morte di George, il movimento ha cominciato a perdere rapidamente popolarità, fino all’oblio
Ora rimane una domanda: viste le premesse ideologiche, perché Monopoly sembra suggerire tutto il contrario? Semplice, manca un pezzo. «Nel passaggio da Magie alla Parker sono state modificate alcune cose. Ad esempio, la seconda parte del gioco, intitolata Prosperity, è stata eliminata. Parliamo di un intero impianto di regole che inserisce la riforma della single tax, mostrandone il funzionamento», racconta a Domani l’autrice di giochi da tavolo Marta Ciaccasassi. […
«Una persona che è in vantaggio economico – continua Ciaccasassi – per via delle regole tende a rimanerlo. È un sistema che può essere letto in modo critico, certo, ma non avendo noi una vera cultura del gioco viene difficile cogliere queste sottigliezze. Purtroppo il gioco, ancora oggi, è relegato ad attività da bambini, non si pensa al giocare come a un bisogno primario delle persone. E quindi non si prende in considerazione l’idea che possano avere anche temi adulti».
(da agenzie)
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