Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
LA DISERZIONE SI DEVE AL PROTAGONISMO DI MACRON E STARMER CHE FA ROSICARE LA DUCETTA: SOGNAVA DI ESSERE LEI, IL PONTE TRA WASHINGTON E BRUXELLES, SI TROVA A DOVER INGOIARE LE DECISIONI PRESE DA LONDRA E PARIGI
Lo strappo si consumerà sabato. Giorgia Meloni non parteciperà alla videocall convocata dal primo ministro britannico Keir Starmer. La premier ha infatti chiarito ai suoi fedelissimi di non aver intenzione di mettere la faccia su un’iniziativa che «non convince».
E cioè su una riunione che, a seguito del vertice di Parigi di ieri tra i vertici della Difesa dei Paesi coinvolti nella “coalizione dei volenterosi”, avrebbe discusso apertamente dell’invio di truppe in Ucraina.
Dopo aver più volte mostrato le proprie perplessità sul formato e sulle modalità di questi tentativi, Meloni ha sciolto ieri sera la riserva, decidendosi a spaccare il fronte che il britannico ed Emmanuel Macron stavano costruendo a fatica.
In questo modo, l’Italia pare spostare al di là di ogni ragionevole dubbio il proprio asse verso Donald Trump, assumendosi l’onere di porre un pietra potenzialmente tombale sull’iniziativa che non avrebbe avuto né l’egida Onu, né tanto meno quella della Nato.
La diserzione italiana è arrivata dopo una lunga serie di riflessioni e di contatti con le cancellerie, compresa quella di Washington. Dopo giorni di indugi, a far decidere Meloni pare sia stato il buon esito dei colloqui tenutisi a Gedda tra Usa e Ucraina
A colpire Palazzo Chigi sono state le parole lasciate trapelare da Macron ieri: dobbiamo «assumerci le nostre responsabilità» perché «è il momento in cui l’Europa deve fare il possibile, per l’Ucraina e per se stessa». Fattori che […] non solo non motivano un’iniziativa alternativa a quella a stelle e strisce, ma impongono di tirare il freno.
La scelta italiana potrebbe però ora deflagrare nel cuore dell’Europa, aprendo una crepa che sarà difficilissimo risanare. Anche perché è forte il sospetto che il vero nodo della contesa sia stato il protagonismo di Macron e Starmer, determinati a sedersi al tavolo a cui Trump sta facendo il bello e il cattivo tempo.
D’altro canto, ieri sono arrivati molteplici segnali di disallineamento rispetto all’Europa da parte del centrodestra italiano. A Strasburgo, infatti, Fratelli d’Italia sta valutando di non sostenere la risoluzione di maggioranza «sull’incrollabile sostegno Ue» da destinare all’Ucraina.
(da Dagoreport)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
LA PROVINCIA CANADESE FORNISCE ELETTRICITÀ A TRE GRANDI STATI DEGLI USA: NEW YORK, MICHIGAN E MINNESOTA. SE VENISSE STACCATA LA CORRENTE, O VENISSE RINCARATA, SAREBBERO PENALIZZATI CIRCA 1,5 MILIONI DI UTENTI AMERICANI
È uno scontro aspro, come quello che può esplodere tra due vecchi amici che sembravano
inseparabili. Donald Trump ieri ha minacciato di portare dal 25 al 50 per cento i dazi sull’import di acciaio e alluminio dal Canada e di far chiudere tutto il settore auto del Paese. Salvo poi ripensarci in serata e tornare al 25 per cento.
Dall’altra parte del confine il nuovo primo ministro Mark Carney, liberale, ex banchiere cosmopolita e il più ruspante premier dell’Ontario, il populista Doug Ford, condividono la stessa rabbiosa risposta: il Canada difenderà la propria economia, la propria identità e la propria indipendenza.
Dall’Ontario, Doug Ford aveva addirittura minacciato di tagliare le forniture di elettricità a tre grandi Stati degli Usa: New York, Michigan e Minnesota, penalizzando circa 1,5 milioni di utenti. O, comunque, di applicare un sovraprezzo del 25%.
In serata, a sorpresa, arriva un comunicato congiunto firmato dallo stesso Ford e dal Segretario al Commercio Howard Lutnick: rincaro delle tariffe sospeso; i due si incontreranno a Washington il 13 marzo.
Ma Trump che cosa cerca, che cosa vuole dal Canada?
Già nel corso del suo primo mandato l’ex costruttore newyorkese non è mai entrato in sintonia con il governo, all’epoca guidato da Justin Trudeau. E per altro nel 1969 il padre di Justin, l’allora premier Pierre Trudeau, in un famoso discorso tenuto a Washington si rivolse così agli americani: «essere vostri vicini è come dormire con un elefante»
I consumatori canadesi iniziano a boicottare i prodotti americani. I tifosi canadesi ormai fischiano regolarmente l’inno americano, quando le loro squadre di basket o di hockey sfidano gli yankee.
Il governo di Ottawa si sta preparando a fronteggiare un’offensiva politica ed economica ancora più dura. Il primo obiettivo trumpiano è evidente: ridurre il deficit commerciale con il Canada, 102,3 miliardi di dollari nel 2024. Ma il premier Carney e i suoi ministri sono convinti che il presidente americano punti a saccheggiare le risorse naturali del Paese
In particolare il pregiato petrolio, necessario per far funzionare al meglio le raffinerie statunitensi. E poi gas, minerali, alluminio, acciaio. Insomma le materie prime di base. Fino ad arrivare alla manifattura. Il caso del settore auto, quello che Trump vorrebbe azzerare, è esemplare. Praticamente tutte le principali case automobilistiche hanno impianti in Canada: Ford, General Motors, Stellantis, Volkswagen, Toyota, Honda
Tutti sfruttano i costi decisamente minori della produzione, sintetizzati dal cambio: un dollaro canadese vale 1,4 dollari americani. Si costruisce a basso costo e si vende a prezzi più alti negli Usa. Non stupisce allora che sempre più imprese americane scelgano di migrare a Nord. Joe Biden aveva cercato di invertire la tendenza, offrendo generosi incentivi alle aziende che investivano negli Usa. Per Trump non basta. Nessuno sa fin dove potrà spingersi.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
E’ BASTATO L’IMPEGNO MILITARE DI MACRON E STARMER PER DIMOSTRARE A PUTIN CHE KIEV PUÒ ANCORA FARE MOLTO MALE ALLE FRAGILI DIFESE RUSSE: CON I CACCIA MIRAGE FRANCESI L’UCRAINA PUÒ ANDARE AVANTI ALTRI SEI-OTTO MESI: UN PERIODO INACCETTABILE PER TRUMP… ORA CHE MOSCA SI MOSTRA “SCETTICA” DAVANTI ALLA TREGUA, IL TYCOON E IL SUO SICARIO, JD VANCE, UMILIERANNO PUBBLICAMENTE ANCHE PUTIN, O CONTINUERANNO A CORTEGGIARLO?… LA CINA ASPETTA AL VARCO E GODE PER IL TRACOLLO ECONOMICO AMERICANO: TRUMP MINIMIZZA IL TONFO DI WALL STREET (PERDITE PER 1000 MILIARDI) MA I GRANDI FONDI E I COLOSSI BANCARI LO HANNO GIÀ SCARICATO
A favorire un’accelerazione verso il cessate il fuoco in Ucraina ha contribuito una serie di fattori: il primo è stato il massiccio lancio di droni ucraini su Mosca.
Un attacco che ha ucciso tre persone, ha portato alla chiusura di tre aeroporti e soprattutto ha colpito infrastrutture strategiche, come la raffineria petrolifera di Novokuybyshevsk.
Soprattutto, il lancio di droni ha dimostrato, in barba alle dichiarazioni filo-putiniane di Varacciolo e Travaglio, a Mosca come Kiev non solo non sia stata piegata, ma anzi possa fare molto male alle fragili difese, sia militari che economiche, della Russia.
Senza contare che la macchina bellica agli ordini del Cremlino, pur sbandierando conquiste di villaggi nel Kursk, non riesce a sfondare nella regione russa occupata dagli ucraini, ed è costretta ad alzare le paghe per trovare carne da cannone disposta a morire al fronte per la patria.
Un ostacolo che ha costretto Putin a chiedere l’aiuto di truppe alla Correa del Nod di Ciccio Kim. Ma il risultato è stato mortificante: dopo la debacle dei soldati fetecchia nord coreani, spediti in prima linea, è stata tale che sono stati frettolosamente richiamati (ora starebbero per tornare con rinforzini di artiglieria).
Il secondo fattore a creare pressione è il rinforzato impegno militare di Francia e Regno Unito, le uniche due potenze nucleari d’Europa.
Emmanuel Macron ha messo a disposizione di Zelensky i caccia Mirage 2000, già utilizzati 5 giorni fa per respingere gli attacchi russi.
Con il solo sostegno militare di Parigi e Londra, l’Ucraina può continuare a combattere per altri sei-otto mesi, una finestra lunghissima e inaccettabile per Trump, che in campagna elettorale aveva promesso una fine della guerra in 24 ore. Meglio trovare un accordo subito per evitare ulteriori strascichi.
Il terzo e decisivo fattore è stata la mediazione di Mohammed Bin Salman, grande amico di Donald Trump e del genero, Jared Kushner, con cui ballano da tempo ricchi affari (Kushner, come Renzi, fa parte del board della Future Investment Initiative di MBS e progetta business immobiliari insieme ai sauditi, come il “resort” immaginato a Gaza).
Ora il destino della tregua è in mano a Putin. Al momento i russi manifestano “cautela” e fanno sapere di essere “scettici” di fronte all’idea del cessate il fuoco.
Trump, che ha fatto di tutto per piegare e umiliare Zelensky (con l’indegna imboscata alla Casa Bianca), adesso che farà per convincere Putin? Insieme al suo vice-bullo Vance, lo sottoporrà a un trattamento simile o gli darà tutto quello che vuole?
E la Cina che fa? Finito il congresso del Partito popolare, gli alti papaveri pechinesi come al solito si muovono con prudenza e attendismo, diffondendo dichiarazioni di circostanza come “speriamo in una pace sostenibile e duratura che faccia proprie le preoccupazioni reciproche”.
Nel frattempo, però, Xi Jinping usa il suo soft power per giocare le partite che gli interessano davvero: quelle economiche.
Pechino, che ha in mano 759 miliardi di debito pubblico statunitense, ha ripescato i vecchi capitalisti come Jack Ma, il fondatore del colosso e-commerce Alibaba, per competere con gli Usa dando impulso alla piattaforma attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale.
E nel frattempo si gode il monopolio dell’auto elettrica, che Europa e Stati Uniti gli hanno gentilmente regalato, e il panico nei mercati occidentali.
Il crollo di Tesla in Borsa (il titolo da inizio anno ha perso il 45% di capitalizzazione) non si deve tanto ai sabotaggi europei delle macchine di Musk o alla campagna di vandalizzazione, quanto piuttosto ai dati horror della casa automobilistica nel mercato asiatico: a febbraio Tesla ha perso il 49% di vendite rispetto allo scorso anno, mentre la società cinese Byd cresce del 24% (e ha il triplo della quota di mercato).
Trump è costretto a tenere botta, fare buon viso a cattivo gioco e sponsorizzare gli acquisti di Tesla con uno show a favor di telecamera.
Il presidente difende Musk dagli assalti alle concessionarie, definendolo terrorismo interno, e ne approfitta per minimizzare, dichiarando “momentaneo” il periodo nero delle borse americane.
Pur non negando la possibile recessione, King Donald la giustifica come “periodo di transizione, perché quello che stiamo facendo è molto grande“. Il messaggio che vuole veicolare, di fronte al profondo rosso di Wall Street, è: siamo di fronte a una tempesta passeggera, la nostra “grande rivoluzione” ha bisogno di tempo. Il tutto accompagnato a un attacco ai grandi fondi di investimento.
Parole al vento, quando la realtà scodella uno scenario horror. Ieri Wall Street ha perso 1000 miliardi (Il Dow Jones – 2,09%, S&P 500 il 2,77%, Nasdaq -4% – Tesla -15,43%. Perdite che penalizzano i dividendi di tanti fondi pensione Usa, azionisti dei vari Blackstone, Pinko, Blackrock, etc., che, a loro volta, hanno subito scaricato il Tycoon comunicando di non avere affatto fiducia nella politica economica muscolare della Casa Bianca.
Che la politica dei dazi faccia solo male, molto male all’economia americana, lo conferma nientemeno che Larry Fink, boss di Blackrock: “Le politiche nazionalistiche faranno aumentare l’inflazione nei prossimi sei-nove mesi”.
Come Dago-dixit, i grandi banchieri statunitensi e gli omologhi britannici hanno avuto vari incontri nelle scorse settimane a Londra, più che allarmati per le mosse economiche di Donald Trump, ormai più che consapevoli che il loro vecchio ordine del capitalismo, fondato sulla globalizzazione e sulla supremazia del dollaro come moneta di scambio internazionale, non ha nulla a che fare con la tecnocrazia dei vari Thiel e Musk, supportati dai miliardari della Silicon Valley.
Risultato? Il biglietto verde traballa, e l’economia Usa, secondo le ultime stime, potrebbe entrare in recessione già nel trimestre in corso. Altro che “età dell’oro”.
(da Dagoreport)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
I VERTICI DEL PENTAGONO HANNO DIFESO I MILIONI DI DOLLARI DI FONDI PUBBLICI UTILIZZATI PER MANTENERE LE STRUTTURE
La parola “letalità” non è ciò che di norma si assocerebbe al golf, eppure sono almeno
145 i campi dedicati a questo sport di proprietà del Dipartimento della Difesa Usa, edificati anche in suolo estero.
I vertici del Pentagono ne hanno giustificato l’esistenza, insieme a quella di piste da bowling e ristoranti militari. Ma in un forte clima di tagli alle spese previsti dall’amministrazione Trump, il loro mantenimento risulta anacronistico e criticato come sperpero del denaro dei contribuenti. […]
Per recuperare le spese, martedì 4 marzo l’ufficio Usa che si occupa degli immobili di proprietà statale aveva diffuso una lista di 443 strutture in vendita perché classificate “non fondamentali per le operazioni governative”: per mantenerle richiedono 430 milioni di dollari l’anno.
Il piano è parte di un programma per favorire le entrate, anche da donazioni esterne. Ma la lista è stata rimossa solo 24 ore dopo: i campi da golf comunque non vi comparivano.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
MANCO UNA PAROLA SUL “DEMOCRATICO” PUTIN CHE VUOLE METTERE BOCCA SULLE ELEZIONI DEGLI ALTRI
La Corte Costituzionale romena ha impiegato poco più di un’ora per emettere il suo
irrevocabile verdetto: Calin Georgescu resta escluso dalla corsa alle presidenziali in Romania del 4 maggio
Le motivazioni della Corte non sono ancora state rese note ma si presume siano allineate a quelle che avevano indotto a dicembre gli stessi giudici ad annullare la tornata elettorale vinta al primo turno da Georgescu: tra i sospetti di interferenze russe, i togati avevano deciso di cancellare l’intero processo elettorale per «garantirne la validità e la legalità».
Una sentenza senza precedenti arrivata dopo che documenti dell’intelligence romena avevano indicato che Mosca avesse coordinato attacchi ibridi per influenzare pesantemente le elezioni dell’ex Paese sovietico poi entrato nell’Ue e nella Nato
Ad aggravare a livello giudiziario la posizione di Georgescu è stata la sua incapacità di dar conto della provenienza dei fondi che hanno finanziato la sua massiccia campagna social che lo ha spinto, a sorpresa, alla vittoria. Ombre che non hanno appannato la sua stella: i sondaggi continuano a darlo come favorito con percentuali intorno al 40 per cento.
«Ancora una volta la Corte costituzionale si sta prendendo gioco del popolo romeno, attaccando la nostra democrazia e i nostri diritti e libertà» ha tuonato su X l’altra figura di spicco dell’ultradestra nazionalista, George Simion. Potrebbe essere lui a rimpiazzare Georgescu: i partiti che lo sostengono — Aur e Pot — hanno tempo fino a sabato per registrare un altro nome. In corsa per ora restano il candidato della coalizione europeista al governo, Crin Antonescu e il sindaco di Bucarest Nicusor Dan.
Si prospettano due mesi di grande agitazione e una campagna elettorale infuocata. Il caso Romania torna ad attirare l’attenzione internazionale. Georgescu ha sempre negato di essere filorusso, preferisce definirsi trumpiano.
Tuttavia, tra le più forti reazioni oltre confine si è registrata ieri proprio quella del Cremlino: l’esclusione di Georgescu è «una violazione delle norme democratiche, sarà illegittima qualsiasi elezione in Romania che escluderà questo candidato», ha affermato il portavoce Dmitri Peskov che ha anche bollato come «sciocchezze» le affermazioni sui legami di Mosca con Georgescu.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
IL PARLAMENTO HA BOCCIATO LA FIDUCIA, IL PREMIER TRAVOLTO DA UNO SCANDALO FINANZIARIO E DAI CONFLITTI DI INTERESSE… SI VOTA A MAGGIO
In Portogallo si apre la crisi di governo. Il Parlamento portoghese ha respinto la mozione
di fiducia presentata dal governo minoritario di centrodestra, guidato da Luís Montenegro, coinvolto in una serie di scandali: il governo automaticamente è caduto, appena un anno dopo il voto.
Solo i deputati di Iniziativa liberale hanno votato a favore insieme ad Alleanza democratica, la coalizione di socialdemocratici e popolari che aveva vinto le elezioni il 10 marzo di un anno fa. I deputati socialisti, quelli di Chega, i comunisti, il Blocco di sinistra e altri partiti minori come Livre e gli animalisti del Pan hanno votato contro.
Il risultato del conteggio dei voti non è stato reso noto nell’immediato ma il presidente del Parlamento, Jose Pedro Aguiar-Branco, ha annunciato che l’esecutivo è uscito sconfitto. Il governo, composto da un’alleanza bipartitica guidata dal Partito Socialdemocratico, aveva solo 80 seggi nell’attuale legislatura di 230 seggi. L’esecutivo aveva chiesto la fiducia per “dissipare l’incertezza” sul proprio futuro nel mezzo di una crisi politica che si è concentrata sul premier Montenegro, distogliendo l’attenzione dalle politiche del governo. E’ probabile che le nuove elezioni si svolgeranno a maggio
Cosa succede adesso
Ora sarà il Presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo de Sousa, a decidere i prossimi passaggi: il presidente dovrà decidere se individuare un nuovo premier o indire nuove elezioni. L’ipotesi più accreditata comunque è il ritorno alle urne, probabilmente a maggio.
La crisi politica arriva pochi mesi prima dell’inizio del semestre bianco, che segna la fase finale del suo mandato, durante la quale il presidente non avrebbe potuto sciogliere l’Assemblea legislativa.
Nei giorni scorsi Marcelo Rebelo de Sousa aveva già annunciato due possibili date (11 o 18 maggio) per le elezioni anticipate, mentre per il 12 e 13 marzo sono previsti i primi round negoziali con le delegazioni dei partiti. Il governo Montenegro cade in seguito alle polemiche delle ultime settimane, legati a uno scandalo finanziario che vede coinvolti anche sua moglie e i suoi figli.
Diverse inchieste giornalistiche hanno fatto emergere possibili conflitti d’interesse fra la società di consulenza gestita dalla famiglia del primo ministro, la Spinumviva, e alcuni dei suoi clienti, in particolare l’azienda Solverde, che gestisce diversi casinò le cui concessioni dipendono proprio dall’esecutivo.
Dopo aver superato due mozioni di sfiducia di Chega e del Partito comunista, Montenegro ha deciso di presentare una mozione di fiducia quando i socialisti avevano richiesto l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività della Spinumviva. Lo scioglimento del Parlamento rinvierebbe ogni altra eventuale iniziativa alla prossima legislatura.
(da Fanpage)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
RITORNANO LE RONDE PER FOMENTARE L’ODIO: MA SE GOVERNANO I SOVRANISTI DI CHE VI LAMENTATE? RIVOLGETEVI A CHI AVETE VOTATO SE NON SANNO GESTIRE LA SICUREZZA DEI CITTADINI
Si fanno chiamare Articolo52 e sono un gruppo di persone che hanno deciso di riunirsi per dar vita a una sorta di movimento che ha l’intento di difendere i cittadini di Milano dai malviventi e garantire la sicurezza, su cui adesso indaga la polizia. Nei giorni scorsi hanno condiviso il video di un pestaggio ai danni di un ragazzo.
Le immagini sono impressionanti e mostrano un uomo che, con volto coperto, si avvicina a un giovane straniero sostenendo che aveva appena rubato una collanina. Nonostante gli risponda dicendo di non aver fatto nulla, l’uomo decide di sferragli comunque un pugno. Un colpo talmente violento che il giovane finisce a terra. Subito dopo arrivano altre persone: il ragazzo continua a essere picchiato.
Qualcuno ha deciso di riprendere la scena che è stata poi condivisa sul canale Instagram di Articolo52. Le immagini sono corredate da una didascalia: “Finché lo Stato, in primis la magistratura corrotta e nemica del popolo, continuerà a ignorare, volutamente, questa situazione, le ronde continueranno e si moltiplicheranno in tutte le zone degradate”. Il “Movimento anticrimine” precisa poi: “Se non c’è un braccio armato di solide manette, la legge rimane lettera morte e vile”. Gli agenti della Questura di Milano hanno avviato le indagini per risalire all’identità degli aggressori. Perché quanto avvenuto nei giorni scorsi è un crimine.
I rimandi a una dialettica di estrema destra sono chiari e netti. In primis, li troviamo nel nome scelto da gruppo, che pur rimandando all’articolo 52 della Costituzione e precisamente al “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, fa riferimento alla possibilità di potersi fare giustizia da sé in nome della difesa dei cittadini. Ma da chi? Da coloro che questo gruppo ritiene essere malviventi. Come avvenga questa scelta è ancora poco chiaro. In alcuni gruppi Telegram – nati sulla scia della pagina Instagram – è specificato che, prima di agire, debbano essere fatte opportune verifiche.
Successivamente è anche precisato che è necessario contattare le forze dell’ordine. Un’attività che non sembrerebbe essere stata fatta quando è stato malmenato, nei giorni scorsi, il ragazzo accusato di aver derubato qualcuno di una collanina. Le azioni di questo gruppo e il fatto che, in poche ore, abbiano già raggiunto più di tremila persone è allarmante. Lo è soprattutto il fatto di pensare che alla violenza si debba rispondere con la violenza e che sia necessario organizzarsi in ronde per farsi giustizia da soli.
I commenti al video del pestaggio sono altrettanto impressionanti: si incita alla violenza, si ringrazia di quello che si sta facendo e si chiede come fare per unirsi a questo movimento che, nel frattempo, oltre ad aprire diversi gruppi su Telegram, ha aperto un conto: chi vuole può versare del denaro. Parte di questi soldi serviranno per un fondo casso che sarà dedicato sia ala copertura di spese legali che all‘acquisto di spray al peperoncino e walkie talkie. E sempre agli utenti, viene chiesto di indicare le zone che vorrebbero che fossero controllate.
Il sostituirsi alle forze dell’ordine è una prassi che va avanti da diverso tempo. Sono diventati ormai famosi, i video condivisi da diversi utenti social in cui si inseguono le borseggiatrici sui treni della metropolitana di Milano. Il pericolo di quella attività, sulla quale si è ironizzato e che qualcuno (soprattutto alcune forze politiche) ha elogiato, è che poi si sfoci in azioni simili. I megafoni vengono sostituiti con pugni e calci nel tentativo di salvare una città dal rischio che – come specificato da questo movimento anti-crimine – si trasformi in una Gotham.
Non è questo il modo corretto per avere sicurezza. E il fatto che nessuno abbia deciso di arginarli è angosciante. Come se ormai ci fossimo assuefatti alla possibilità che questa deriva sempre più estremista sia inevitabile. Come se credessimo che lo Stato sia assente, l’unico modo per sopperire a questa mancanza è farsi giustizia da sé. Ma questo, in un Paese civile, non dovrebbe essere nemmeno immaginabile.
(da Fanpage)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
PER MUSK LA PERSONA IDEALE SAREBBE LOWE CHE È PORTAVOCE DI POSIZIONI DI ESTREMA DESTRA, COMPRESA LA “DEPORTAZIONE DI MASSA” DEGLI IMMIGRATI
Il partito di Nigel Farage, Reform, sta implodendo: e dietro si intravede la mano di Elon
Musk. È una faida interna quella che dilania la formazione della destra populista britannica e che ne rimette in discussione le possibilità di successo, proprio ora che i sondaggi la davano davanti a laburisti e conservatori.
Venerdì scorso è stato sospeso dal partito Rupert Lowe, il più in vista dei loro cinque deputati (dopo Farage): è stato accusato di bullismo verso le donne dello staff e perfino di minacce fisiche contro il presidente, Zia Yusuf, cosa per la quale è stato denunciato alla polizia. Lui però nega tutto e accusa il leader di averlo fatto fuori per gelosia personale.
Ma c’è di più: Farage e Lowe sono ai ferri corti da quando Musk, dopo aver fatto balenare una donazione da 100 milioni a favore di Reform, ha detto che il partito avrebbe bisogno di un leader diverso da Farage e che il «papabile» sarebbe Lowe. Secondo il Financial Times, il miliardario americano starebbe tramando per provocare una scissione e appoggiare un nuovo partito ancora più a destra di Reform.
Lowe si è fatto portavoce di posizione di estrema destra, compresa la «deportazione di massa» degli immigrati, che non si confanno al «populismo in giacca e cravatta» di Farage.
In tutto questo a godere è Keir Stramer: i laburisti avevano già individuato in Reform la sfida più pericolosa, molto più degli ormai spompati conservatori, ma ora la «bolla» sembra già scoppiare
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2025 Riccardo Fucile
I RIVERBERI DELLA GUERRIGLIA RAGGIUNGONO LA CAPITALE, LA SFIDA TRA MESSINA E DONZELLI
Sgambetti, veleni, faide. Fratelli d’Italia in Sicilia è una polveriera. Inevitabile è maturata la rottura che ha portato al passo indietro di Manlio Messina da vice capogruppo alla Camera. Fino alle voci su una fuoriuscita dal partito e dal gruppo a Montecitorio, derubricato a provocazione.
In ogni caso è il segnale dell’appannamento della sua stella nel partito. Per questo i vertici nazionali, con la decisione delle sorelle Meloni e la regia di Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di FdI, hanno deciso di darci un taglio con l’azzeramento dei dirigenti e il conseguente siluramento dei due coordinatori Giampiero Cannella, in Sicilia occidentale, e Salvo Pogliese, Sicilia orientale. La diarchia è finita. E dall’isola arriva una fotografia degli affanni dei meloniani sui territori, non più un soggetto-monolite ma una forza attraversata da scontri e ripicche che si fanno sentire fino a Roma.
Un romano in Sicilia
La decisione è stato quello di inviare in Sicilia il deputato Luca Sbardella nelle vesti di commissario, che da romano non è certo avvezzo alla frequentazione dell’isola, gradito all’area del presidente del Senato, Ignazio La Russa, e vicino a Donzelli che ha sempre avuto un rapporto conflittuale con Messina.
Fonti interne ricordano che il coordinatore di FdI avrebbe voluto candidare il deputato a sindaco di Catania. Un’idea che non ha trovato seguito.
Ora la parola chiave è repulisti. Di motivi ce ne sono in abbondanza. Il partito in Sicilia ribolle.
Lo scenario è quello di guerriglia tra bande, un tutti contro tutti. Si racconta che Carlo Auteri, autosospeso dal gruppo di FdI (dopo gli scandali sul finanziamento alle associazioni culturali) ma che è tuttora in consiglio, abbia tramato contro Luca Cannata, ex sindaco di Avola (Siracusa) e attuale deputato, coinvolto nello scandalo sui presunti versamenti fatti da assessori direttamente a lui per finanziare il partito, come raccontato dal quotidiano La Sicilia negli articoli firmati da Mario Barresi e Luisa Santangelo.
Cannata ha respinto le accuse, promettendo chiarezza. Intanto la nomina a coordinatore è saltata a favore del commissario. E sono tanti i sospetti, malcelato, di fuoco amico nel partito.
Una voce che sembra tirare in ballo Auteri, uomo di fiducia di Messina, che a sua volta avrebbe confidato di aver individuato in Cannata la “talpa” del “sistema-Auteri” sui finanziamenti alle associazioni. Dicerie che sono le scorie di una crisi strisciante.
Proprio Messina, ex golden boy di FdI, è la figura che esce più indebolita. Formalmente non ha avuto ruoli in Sicilia, ma ha sempre vantato un peso specifico notevole. È stato il raccordo tra il partito regionale e quello nazionale. Quando c’era un problema si prendeva il telefono per chiamare l’ormai ex capogruppo a Montecitorio, spesso bypassando i coordinatori Cannella e Pogliese.
Ascesa e declino
Il potere nelle sue mani è cresciuto velocemente. Da assessore al Turismo ha gestito un apparato considerato importante dentro Fratelli d’Italia, che proprio sul turismo punta nelle varie amministrazioni regionali.
In quella casella Messina aveva potuto portare al proprio fianco, nelle vesti di consulente, un altro peso massimo di FdI, Gianluca Caramanna, l’uomo del turismo di Meloni.
Ma da quella postazione ha iniziato pure a inanellare scivoloni. Uno di questi, svelati da Domani, riguarda l’idea di un finanziamento di 6 milioni di euro per promuovere l’immagine della regione durante il Festival di Cannes con lo scopo di attrarre set e registi nell’isola. I soldi sono finiti alla società lussemburghese, Absolute Blue s.a. Il progetto di Messina è stato portato avanti dal successore all’assessorato al Turismo, Francesco Scarpinato.
Messina era infatti approdato alla Camera, indicato come uno dei volti più in ascesa dentro FdI tanto da prendersi velocemente il ruolo di vicecapogruppo, nonostante la prima esperienza in parlamento. A lungo è stato il punto di riferimento di Francesco Lollobrigida.
Dopo la separazione del ministro dell’Agricoltura con Arianna Meloni. Messina ha cercato, con successo, un riposizionamento nella geografia interna del partito, sfruttando la stima della presidente del Consiglio nei suoi confronti. Il sistema di potere siciliano, però, ha creato più di qualche problema negli ultimi mesi come raccontato da Domani nelle inchieste sui finanziamenti di Auteri.
È noto il battibecco tra Donzelli e Messina dopo che questo giornale aveva svelato il giro di fondi pubblici regionali della cultura incassati da associazioni vicine alla famiglia di Auteri. Messina avrebbe voluto un maggiore sostegno al suo fedelissimo. I due, del resto, hanno condiviso da sempre l’interesse per il mondo culturale. Dalla Sicilia c’è stato lo sbarco a Roma con il controllo del teatro Quirino nella capitale, in cui Auteri è stato a lungo consigliere.
Dopo il passo indietro, il loro riferimento al Quirino è diventato Guglielmo Ferro, direttore artistico, che condivide la provenienza siciliana con il duo Auteri-Messina. Da quanto apprende Domani, Messina non sarebbe stato nemmeno favorevole alla vendita del teatro, stabilita poi da Invimit (società controllata dal ministero dell’Economia). La sua opposizione è stata vana.
Alla luce di un legame così solido, il deputato aveva chiesto un gesto di solidarietà nei confronti di Auteri. Per tutta risposta è arrivato il gelo.
Si racconta che già allora Messina fosse pronto alle dimissioni dal ruolo di vicecapogruppo alla Camera. L’intercessione dei vertici aveva scongiurato la frattura: è stata solo una dilazione dei tempi.
E dire che in passato il nome di Messina è stato candidato per vari ruoli di prestigio, da possibile capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, al posto di Tommaso Foti andato a palazzo Chigi a completare il Pnrr, a quello di ministro del Turismo per sostituire Daniela Santanchè, in caso di dimissioni.
Invece oggi Messina è un deputato semplice di FdI. Fatale è stata la gestione allegra del partito in Sicilia.
(da editorialedomani.it)
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