Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL COMPLESSO DI MODIFICHE AL FISCO E AL SISTEMA DI BONUS DEL GOVERNO MELONI HA AUMENTATO LE DISUGUGLIANZE: L’INDICE DI GINI, CHE MISURA LE DIFFERENZE DI DISTRIBUZIONE DI RICCHEZZA, NEL 2024 È SALITO DAL 30,25 AL 30,40%
Il passaggio dal reddito di cittadinanza all’assegno di inclusione è costato caro a 850 mila famiglia, tra quelle più povere del Paese. Lo segnala l’Istat nel report sulla redistribuzione del reddito per il 2024. In generale, il complesso di misure e modifiche al fisco e al sistema di bonus del governo Meloni non ha inciso sulla riduzione delle differenze tra redditi più alti e più bassi, anzi. Seppur “in lieve misura”, certifica l’Istat, l’equità si è ridotta.
E a dimostrazione di un aumento delle disuguaglianze, cresce l’indice di Gini, che misura proprio la differenza di distribuzione tra redditi e nel 2024 è salito dal 30,25% al 30,40%. La misura che più ha inciso sull’ampliamento delle disuguaglianze è proprio la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione.
Il 3,2% delle famiglie residenti ha visto peggiorare le proprie condizioni economiche con la fine del reddito di cittadinanza, già depotenziato nel 2023, e sostituito dall’assegno di inclusione.
Secondo l’Istituto di statistica, 850 mila famiglie che percepiscono il nuovo sostegno hanno perso, in media, 2.600 euro all’anno. Si tratta, aggiunge l’Istat, di una diminuzione che riguarda quasi esclusivamente le famiglie che appartengono agruppo di quelle più povere.
L’Inps calcola come la riforma dell’Irpef ha avuto scarsi effetti per i nuclei più fragili. E in generale le modifiche al fisco e al sistema di bonus non ha inciso su una redistribuzione delle ricchezze. La situazione migliora per le famiglie con almeno una persona che percepisce reddito da lavoro dipendente, per le quali bisogna valutare anche le due forme di decontribuzione 2024.
In questo gruppo, si stima che siano 11,8 milioni i nuclei per cui migliora il reddito disponibile, per 586 euro annui, quasi il 45% delle famiglie residenti e il 78,5% delle famiglie con almeno un lavoratore dipendente. Si stimano 300 mila famiglie interessate da entrambe le misure che registrano una perdita, pari in media a 426 euro, e riconducibile alla perdita del bonus Irpef.
(da La Repubblica)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
SECONDO I MAGISTRATI QUESTA MISURA RENDERÀ IMPOSSIBILE ABBATTERE L’ARRETRATO E I TEMPI DEI PROCESSI PER RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI DEL PNRR
Sarà di almeno 2.500 fascicoli l’anno il carico di lavoro aggiuntivo per le Corti d’Appello
causato dall’“emendamento Musk“, la norma che ha spostato in secondo grado – senza alcun motivo razionale – la competenza sulle convalide dei trattenimenti dei migranti richiedenti asilo.
La stima arriva dall’Ufficio statistico del Consiglio superiore della magistratura, incaricato dalla Settima Commissione – competente sull’organizzazione degli uffici giudiziari – nell’ambito dell’”analisi delle ricadute organizzative” del provvedimento voluto dal governo.
L’emendamento al decreto Flussi aveva lo scopo di esautorare i giudici delle Sezioni Immigrazione dei Tribunali, considerati ideologizzati: una reazione al flop dei centri per il rimpatrio in Albania, lanciati in pompa magna ma rimasti vuoti a causa delle mancate convalide da parte del Tribunale di Roma.
Per questo la norma era stata subito intitolata dalla stampa a Elon Musk, che pochi giorni prima aveva scagliato il suo anatema contro i magistrati italiani “guastafeste”: “These judges need to go“, “Questi giudici devono andarsene”.
In realtà il piano è già fallito: anche la Corte d’Appello della Capitale, infatti, ha sospeso i trattenimenti rinviando gli atti alla Corte di giustizia europea, che dovrà decidere sulla compatibilità col diritto Ue della lista di Paesi sicuri stilata dall’Italia. Ancora una volta, quindi, i migranti portati al di là dell’Adriatico sono stati liberati.
Anche se non è servita agli scopi della politica, però, la norma è ormai in vigore. E i suoi effetti peseranno sull’organizzazione delle Corti, già oberate di lavoro e alle prese con la difficile sfida di abbattere l’arretrato e i tempi dei processi per raggiungere gli obiettivi del Pnrr.
Proprio su questo aspetto la Settima Commissione del Csm ha avviato un monitoraggio, chiedendo all’Ufficio statistico “una preliminare stima dei procedimenti che potrebbero pervenire alle Corti d’appello”, sulla base del decreto Flussi, “nonché, per il futuro, un’analisi e un monitoraggio semestrale dell’impatto delle nuove competenze”.
La relazione, depositata il 19 febbraio, è basata sui numeri registrati nei Tribunali nell’ultimo triennio: la media è di 2.312 fascicoli l’anno aventi ad oggetto convalide di trattenimenti. Ma questo valore, si precisa, “non è utile ai fini della stima”, perché il numero di casi è in continua crescita: in particolare, si legge, i fascicoli in materia “sono aumentati del 23% tra il 2022 e il 2023 e di un ulteriore 8% tra il 2023 e il 2024, ed è ipotizzabile che lo stesso trend si verifichi anche nel corrente anno per le richieste di convalida iscritte in Corte d’appello”
Per questo, si legge, il valore da ipotizzare nel 2025 è “almeno” pari a quello registrato nei Tribunali nel 2024: 2.578 fascicoli, di cui circa un quarto a Roma (694), 329 a Potenza e intorno ai 250 a Palermo, Trieste, Caltanisetta e Bari.
(da il Fatto Quotidiano)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL TRIBUNALE DELL’AIA AVVIA UNA PROCEDURA DI ACCERTAMENTO NEI CONFRONTI DELL’ITALIA PER UNA CONDOTTA “INADEMPIENTE” SULLA MANCATA CONSEGNA DEL GENERALE, ACCUSATO DI CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ
Il governo, a quanto apprende l’Ansa, ha chiesto una proroga per l’invio delle informazioni sollecitate dalla Corte penale internazionale sul caso Almasri. Il termine scadeva oggi.
La richiesta dell’esecutivo è legata all’attesa degli esiti del lavoro del Tribunale dei ministri che ha aperto un fascicolo d’indagine sulla premier Giorgia Meloni, l’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, Alfredo Mantovano, i ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e dell’Interno, Matteo Piantedosi dopo un esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti che aveva chiesto accertamenti per i presunti reati di favoreggiamento e peculato.
La Camera preliminare, l’organo giudiziario della Cpi, ha avviato una procedura di accertamento formale nei confronti dell’Italia per una condotta ritenuta “inadempiente” in merito alla mancata consegna del generale libico accusato di crimini contro l’umanità
L’organismo ha quindi invitato il governo a fornire informazioni sul perché non ha adempiuto alla richiesta della Corte ed a “presentare osservazioni in merito alla sua mancata perquisizione e al sequestro di materiali” in suo possesso. Il 17 marzo era la scadenza indicata dall’organismo per l’invio della documentazione. Ora la richiesta del governo di avere più tempo.
Nel frattempo dovrebbe definirsi l’esito dell’indagine del Tribunale dei ministri. I magistrati si sono mossi acquisendo documentazione sia al ministero della Giustizia che a quello dell’Interno, con l’obiettivo di ricostruire quanto accaduto dall’arresto di Almasri – avvenuto a Torino il 19 gennaio – alla scarcerazione ed al rimpatrio, due giorni, dopo su un aereo dei servizi.
Il Tribunale ha 90 giorni di tempo – scadranno a fine aprile, ma è possibile chiedere una proroga – per svolgere le indagini, che potrebbero concludersi con un’archiviazione oppure con l’invio del fascicolo in procura per chiedere al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti degli indagati.
(da agenzie)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
LA MEME COIN $TRUMP HA PORTATO NELLE CASSE DELLA TRUMP ORGANIZZATION 350 MILIONI DI DOLLARI – IL “WALL STREET JOURNAL”: “DONALD JR. È ENTRATO NELL’ORGANIGRAMMA DI DIVERSE AZIENDE CHE POTREBBERO TRARRE VANTAGGIO DALLE POLITICHE FEDERALI” – AMAZON HA SBORSATO 40 MILIONI DI DOLLARI PER REALIZZARE UN DOCUMENTARIO SU MELANIA TRUMP
Tradizionalmente, quando giungono al loro secondo ed ultimo mandato, i presidenti
americani fanno il possibile per passare alla storia: l’impressione è che Donald Trump intenda invece passare alla cassa. Che intenda, cioè, monetizzare il potere che gli deriva dalla funzione che ricopre e che intenda farlo per fini meramente personali.
Una tendenza manifestata già durante il suo primo mandato, ben dettagliata nel report di 98 pagine diffuso nel 2017 dall’Ufficio etico federale americano. Una tendenza che, come ha detto al Wall Street Journal l’avvocato d’affari Ty Cobb, che collaborò con lui alla Casa Bianca, si manifesta oggi senza più alcun freno inibitorio né alcun timore rispetto alle accuse di conflitto di interessi.
Come ha scritto Internazionale, fino ad oggi la famiglia Trump ha ricevuto almeno 80 milioni di dollari sotto forma di donazioni ad un “fondo per la biblioteca del presidente” da parte di colossi dell’informazione stellestrisce come Abc News, Meta e Cbs in cambio del rinuncia ad azioni legali più o meno pretestuose nei loro confronti.
Ciascuno paga i Trump come può. Amazon, ad esempio, ha deciso di pagare 40 milioni di dollari per realizzare un documentario sulla vita di Melania Trump. Si tratta della cifra più alta mai spesa dall’azienda di Jeff Bezos per un’operazione commerciale del genere.
Scrive il Wall Street Journal che Donald Jr., figlio prediletto di Trump, “è entrato nell’organigramma di diverse aziende che potrebbero trarre vantaggio dalle politiche federali, dalla spesa del Pentagono alla normative sulle scommesse online fino ai dazi contro le importazioni cinesi”
Una tra le tante, è la Unusual Machines, che produce droni, le cui azioni sono cresciute del 249% dopo che il figlio del presidente è stato nominato consulente. Con i figli Eric e Donald junior, Trump ha costituito la World Liberty Financial, società di criptovalute che ha raccolto più di 300 milioni di dollari vendendo il suo token digitale $WLFI.
Come è noto, a ridosso della cerimonia di insediamento, Donald Trump ha lanciato sui mercati finanziari una propria meme coin, $TRUMP, che secondo gli analisti avrebbe portato nelle casse della Trump Organizzation, di proprietà del presidente, 350 milioni di dollari. Dollari sostanzialmente pagati dagli 813.294 investitori che hanno fatto l’errore di credere nella tenuta della moneta presidenziale, in pochi giorni passata da un valore di 75 dollari ad un valore di 16.
I capofila del mondo crypto sono stati tra i principali finanziatori della campagna elettorale di Trump, e nei giorni scorsi il presidente ha inserito le criptovalute nella riserva finanziaria degli Stati Uniti, istituzionalizzandole.
Non solo. Il neopresidente americano ha anche smantellato il Consumer Financial Protection Boureau, l’istituzione federale costituita con il Dodd- Frank Act dopo la crisi del 2008 per proteggere i cittadini comuni dalle frodi finanziarie. Il sistema finanziario americano è così tornato alla legge della giungla, giungla in cui Donald Trump recita la parte del leone.
Appare perciò superfluo indugiare sull’inclinazione per gli affari del suo alter ego, Elon Musk. È tutto ufficiale, è tutto pubblico. Meno noto il fatto che, come ha scritto il Financial Times, le aziende di Musk beneficino anche dei soldi di importanti soggetti istituzionali cinesi attraverso gli “special-purpose veicols” (Svp), grazie a cui è possibile nascondere l’identità degli investitori.
Tra questi spicca Justin Sun, fondatore della cryptovaluta Tron, che, tra le altre cose, lo scorso anno ha investito 75 milioni di dollari in una delle crypto della famiglia Trump, la World Liberty. Niente di strano, se consideriamo che il rappresentante di Musk in Italia, Andrea Stroppa, è appena entrato a far parte della media company digitale basata in Italia Unaluna, cui partecipano Barbara Berlusconi, John Elkann e Leonardo Del Vecchio.
Insomma, in un contesto dove tutti approfittano del proprio status politico e istituzionale per fare soldi, come dar torto al fratello minore di Elon Musk, Kimbal, che in un sol giorno è stato ricevuto da Giorgia Meloni, dai ministri Alessandro Giuli e Matteo Salvini, dal presidente della Fifa Infantino e dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ai quali ha cercato di vendere i servizi della Nova Sky Stories, un’azienda specializzata in coreografie aeree realizzate utilizzando 9000 droni?
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
L’INCIPIENTE FRONTE INTERNAZIONALE DEL NO A TRUMP HA DECISO DI NON ASSOGGETTARSI SUPINAMENTE AI DETTATI ESTEMPORANEI EMANATI DALLA CASA BIANCA… IL NO PIÙ IMPORTANTE VIENE, IN EUROPA, DALLA FORMAZIONE DELLA ‘COALIZIONE DEI VOLENTEROSI’ RIUNITA FATICOSAMENTE DA STARMER”. E LA CAMALEONTE MELONI CHE POSIZIONE PRENDERA’?
Che fare con Donald Trump? Con chi crede nella “paura” come “vero potere”, come disse a Bob Woodard nel lontano 2016. Non ha cambiato idea. L’America alza le braccia – per ora. Il resto del mondo non se lo può permettere. Se lo domandano gli Houthi a Sanaa come i groenlandesi a Nuuk. Gli uni per i mezzi persuasivi usati dal Presidente americano; i secondi per scelta esistenziale.
Casi estremi, ma non c’è politica estera, e/o commerciale, al mondo che non sia condizionata dal “cosa fare con Trump”. Lo sono soprattutto gli alleati ed amici, presi di mira ben più degli avversari, forse perché nella logica della paura è di metterla agli amici. I nemici l’hanno già. Quindi alle prime minacce, dazi, solo poi dialogo sotto una pistola puntata.
Cosa fare? Lusingare non basta. Fare concessioni incoraggia a chiedere di più. “No, grazie”? Molti cominciano a dirlo. Educatamente. Fermamente (Canada). L’incipiente fronte internazionale del no a Donald Trump non nasce “contro” il Presidente americano.
Mantiene una visione di alleanza e partnership con gli Stati Uniti. Si limita a non fare, o a non fare esattamente, quello che egli vorrebbe imporre alla comunità internazionale.
La strategia consiste nel non assoggettarsi supinamente ai dettati spesso estemporanei emanati dalla Casa Bianca o da Mar-a-Lago.
Quando non c’è alternativa, vedi dazi, nel rispondere pan per focaccia ma non per fare escalation bensì per trovare una soluzione reciprocamente accettabile, dando prova di forza per guadagnare rispetto come nelle famose strette di mano di Macron.
A due mesi scarsi di presidenza, Trump ha sovvertito le direttrici tradizionali della politica estera americana. Finora principalmente in tre direzioni – il sipario sulla quarta, dazi a 360 gradi, si aprirà completamente il 2 aprile: espansione territoriale degli Usa nell’emisfero occidentale; retrocessione dell’Ucraina di Volodymir Zelensky rispetto alla Russia di Vladimir Putin per mettere fine alla guerra; cocktail mediorientale, contrassegnato dalla proposta di fare Gaza la “Riviera del Medio Oriente”, lasciando carta bianca a Netanyahu in Cisgiordania, con segnali misti all’Iran e, da ultimo, con l’intervento militare più ultimatum sia agli Houthi che a Teheran.
Come reagiscono le controparti? Il Medio Oriente è in attesa. L’ultimatum americano agli Houthi può finalmente porre fine alla minaccia alla navigazione nel Mar Rosso. Se Trump mette l’Iran, già degradato da Israele e boccheggiante economicamente, con le spalle al muro non ci saranno molte lacrime arabe (o israeliane) versate
Ma l’Arabia Saudita continua a subordinare la piena normalizzazione con Israele a un orizzonte di Stato palestinese: mezzo no. Egitto e Giordania, pur con Re Abdullah II ricevuto all’Ufficio Ovale, hanno inequivocabilmente detto no alla Riviera Gaza di Trump. No, poi indirettamente corroborato dal piano della Lega Araba che l’Italia appoggia.
Sull’Ucraina, il primo no a Trump è stato quello di Zelensky, coraggioso quanto pubblicamente umiliato alla Casa Bianca: no a una pace senza garanzie internazionali. Il Presidente ucraino lo pagherà forse caro ma ha costretto Washington al negoziato bilaterale di Gedda culminato nella pendente proposta di tregua di trenta giorni.
Che, pur sicuramente costata a Kiev pesanti concessioni, nasce da un’idea franco-britannica e sta bene agli ucraini. Di conseguenza, il secondo no a Trump arriva da Putin. Mascherato come “sì ma” che, nei manuali diplomatici, è la formula classica per dissentire.
All’Onu o alla Nato, insegnano a tremare quando un discorso inizia con “sono pienamente d’accordo ma”…..Donald Trump tende a non riconoscere un no quando se lo sente dire. Si rifugia nel “costruttivo”. Questa settimana probabilmente ne parlerà con Putin. Farà poi pressioni sul Presidente russo per accettare la tregua senza condizioni o su Zelensky per accettare le condizioni richieste da Putin? O annuncerà un vertice bilaterale russo-americano? Con l’espansione territoriale Donald Trump vuole veramente passare alla storia.
L’ultima annessione (Samoa americane) risale al 1900; il confine col Canada fu fissato in un Trattato del 1908, menzionato casualmente da Trump in una telefonata a Justin Trudeau. Niente di casuale nella pioggia di netti no ricevuti: del nuovo Primo Ministro canadese, Mark Carney; dei canadesi, in preda a un’impennata di patriottismo; della Primo Ministro danese, Mette Frederiksen; dei groenlandesi che hanno votato per il partito più favorevole allo status quo.
A Trump non rimane che prendersela con l’anello più debole delle sue richieste, Panama, che pur gli ha fatto immediate concessioni. Per ora.
Il no più importante – a parte quello fondamentale dei marcati e dell’invisibile mano – viene, in Europa, dalla formazione della “coalizione dei volenterosi” riunita faticosamente da Keir Starmer sabato scorso, in un improbabile formato di europei, compresa Turchia, Australia, Canada, Nuova Zelanda, più Nato e Ue.
Non sappiamo cosa ne uscirà fuori, se riuscirà a garantire il futuro indipendente ed europeo dell’Ucraina. Ma prende atto che in Europa – e nel mondo – c’è oggi un vuoto di sicurezza e di ordine internazionale da colmare. Che la causa è l’America di Donald Trump che, per essere “prima”, è pronta a mettersi contro tutti. La fiducia in Trump di Giorgia Meloni è giusta per far politica estera, ma merce rara sul mercato europeo e internazionale.
(da La Stampa)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
NICOLA RAO GUIDERÀ IL GIORNALE RADIO DA LUGLIO, CONFERMATI ROBERTO PACCHETTI ALLA DIREZIONE DELLA TGR E PIERLUCA TERZULLI AL TG3. A RAI ITALIA ANDRÀ MARIA RITA GRIECO. ANDREA SASSANO SARÀ DIRETTORE DI RAI TECHE
Accordo trovato sulle nomine Rai. 
Secondo quanto si apprende, la maggioranza ha raggiunto un’intesa sui nomi delle direzioni dei Tg in vista del Cda che si terra’ giovedi’ 20 marzo e che dovrebbe dare il via libera. Alla guida di Rainews 24 andra’ Federico Zurzolo al posto di Paolo Petrecca che approdera’ a Rai Sport.
Nicola Rao guidera’ il Giornale Radio dal mese di luglio, quando Francesco Pionati andra’ in pensione.
Saranno confermati invece Roberto Pacchetti alla direzione della Tgr e Pierluca Terzulli al Tg3.
A Rai Italia andrà Maria Rita Grieco, attuale vicedirettrice del Tg1, e prendera’ il posto di Fabrizio Ferragni. Andrea Sassano, direttore di Rai Teche dovrebbe prendere il posto di Flavio Mucciante alla Radiofonia.
(da agenzie)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL SERVO DI MOSCA AMA SOLO LE SFILATE E LE VIOLENZE NEONAZISTE OLTRE CHE I SOLDI CHE LA UE CONTINUA A DARE A UN REGIME CORROTTO
Il partito ungherese al governo, Fidesz, ha presentato un disegno di legge per vietare la marcia del Pride da parte delle comunità LGBTQ+ e imporre multe agli organizzatori e alle persone che partecipano all’evento che Budapest organizza da tre decenni. Lo riportano i media internazionali.
Il disegno di legge vieta il Pride stabilendo che “non si possono tenere riunioni che violino il divieto stabilito dalla legge sulla protezione dei bimbi”.
Orbán si è impegnato a reprimere i finanziamenti esteri ai media indipendenti, ai politici dell’opposizione e alle ong in Ungheria in vista delle elezioni previste all’inizio dell’anno prossimo
(da agenzie)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
“PER I FUNZIONARI ITALIANI AL-MASRI È UNA RISORSA UTILE. MOLTI HANNO CONSIDERATO IL RILASCIO COME UN SIMBOLO DELL’APPROCCIO MORBIDO DI ROMA NEI CONFRONTI DEI FUNZIONARI LIBICI” … L’INDAGINE DELLA MAGISTRATURA PER FAVOREGGIAMENTO E ABUSO DI UFFICIO PER USO DI UN JET DEI SERVIZI SU MELONI, NORDIO E PIANTEDOSI DESTINATA AL NULLA DI FATTO (IL DESTINO DEL PROCESSO DIPENDE DAL PARLAMENTO, DOVE IL CENTRODESTRA HA LA MAGGIORANZA)
Quando Osama Al-Masri Njeem è stato arrestato a gennaio, sembrava un turista
qualunque in vacanza in una città europea
Il 45enne era appena tornato da una partita di calcio della Juventus a Torino quando le autorità italiane hanno fatto irruzione nel suo Holiday Inn e lo hanno sequestrato in risposta a un mandato di arresto della Corte penale internazionale con l’accusa di omicidio, stupro e tortura.
Secondo la Corte penale internazionale, Al-Masri non era un ricco vacanziere del Mediterraneo, ma il responsabile di una delle prigioni più letali della Libia.
Quando la notizia del suo arresto è arrivata in patria, la gente del posto l’ha vista come una rara occasione per chiamare a rispondere delle proprie azioni uno dei tanti uomini di potere che avevano gettato il Paese nella miseria
Ma questa speranza si è rivelata effimera: nel giro di 48 ore, l’Italia lo ha misteriosamente rilasciato – una mossa che si sta trasformando in un importante test di responsabilità per il rapporto tra il Primo Ministro Giorgia Meloni e la nazione nordafricana distrutta dalla guerra.
La sorprendente decisione – da parte di un governo che ama essere considerato duro nei confronti del crimine organizzato – ha scatenato una reazione furiosa da parte di attivisti, media e opposizione.
Il 28 gennaio, lo scandalo ha subito un’ulteriore svolta drammatica quando Meloni ha annunciato di essere indagata dai pubblici ministeri italiani per favoreggiamento del rimpatrio di Al-Masri, insieme al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
È accusata anche di abuso d’ufficio, a causa dell’uso di un jet governativo per il rientro del signore della guerra.
Le fasi preliminari di quella che è già diventata un’indagine altamente politicizzata sono ora in corso, con i giudici che raccolgono le prove per determinare se il caso debba procedere a un tribunale formale – anche se ciò sembra improbabile, dato che la decisione sarà in ultima analisi nelle mani dei parlamentari.
Il 10 febbraio, la CPI ha avviato un’inchiesta chiedendo al governo italiano di spiegare perché il Paese ha rilasciato Al-Masri invece di inviarlo all’Aia.
L’11 febbraio, i partiti dell’opposizione hanno presentato una mozione di sfiducia congiunta contro Nordio in seguito alle sue giustificazioni contraddittorie per il rilascio di Al-Masri.
“Il caso Al-Masri” ha provocato anche una feroce reazione della Meloni, che ha sfruttato l’inchiesta per amplificare una campagna contro la magistratura italiana che si è fatta sempre più feroce.
Allo stesso tempo, ha sollevato seri interrogativi sulla misura in cui i funzionari italiani sono disposti a scendere a compromessi sgradevoli per proteggere gli interessi in una regione dilaniata dalla guerra e dalla corruzione.
Dalla caduta di Muammar Gheddafi nel 2011, la Libia è rimasta divisa tra amministrazioni in lotta tra loro e legate a potenti milizie, rendendola vulnerabile
all’influenza straniera, in particolare dell’Italia.
Roma ha mantenuto i suoi legami di epoca fascista con il Paese fino al XXI secolo, sviluppando importanti accordi petroliferi attraverso la sua principale azienda energetica Eni e collaborando con i leader delle milizie per controllare i flussi di migranti verso l’Europa.
A seguito della guerra civile nel Paese, l’Italia ha firmato la Dichiarazione di Tripoli nel 2012, impegnandosi a sostenere la ricostruzione della Libia e ad addestrare le forze del Paese. Nel 2017 l’allora primo ministro Paolo Gentiloni ha firmato il Memorandum Italia-Libia, un controverso patto migratorio che finanzia ed equipaggia la Guardia costiera libica […], […] automaticamente rinnovato nel 2019 e nel 2023.
Da quando è entrata in carica nel 2022, Meloni ha rafforzato questi legami, firmando un accordo sul gas da 8 miliardi di dollari nel 2023 e lanciando una strategia nel 2024 per aumentare l’influenza dell’Italia in Africa. Il piano prende il nome da Enrico Mattei […]
Secondo i documenti giudiziari visionati da POLITICO, Al-Masri è salito al potere combattendo le forze di Gheddafi nel 2011, quando ha preso il controllo dell’aeroporto più importante del Paese, Mitiga, e lo ha trasformato in un vasto centro di detenzione dove la Corte penale internazionale afferma che le sue forze hanno commesso stupri, torture e violazioni dei diritti umani.
Ma per i funzionari italiani e occidentali Al-Masri era un’altra cosa: una risorsa utile.
Sotto la sua sorveglianza la prigione è diventata una fonte vitale di intelligence per i governi stranieri, con visite regolari di spie per interrogare i militanti del gruppo dello Stato Islamico e altri detenuti radicali.
Al-Masri, in particolare, è diventato un intermediario ricercato, alimentando la convinzione “arrogante” che sarebbe stato al sicuro sul suolo europeo, secondo un libico che conosce il modo in cui operano i leader delle milizie, parlando a condizione di anonimato per evitare ritorsioni
Persone come Al-Masri “vogliono andare in vacanza in Europa, vogliono godersi i loro soldi”, ha detto la persona. Secondo i documenti del tribunale, Al-Masri sembra avere accesso alla Gran Bretagna e possiede conti bancari nel Regno Unito presso Barclays e HSBC.
Per questo motivo, molti hanno considerato il rilascio anticipato di Al-Masri come un simbolo dell’approccio morbido di Roma nei confronti dei funzionari libici.
“Il governo italiano mi ha reso vittima per la seconda volta”, ha dichiarato il migrante sud-sudanese Lam Magok Biel Ruei, che ha aggiunto di aver sofferto personalmente per mano di Al-Masri e di aver presentato una denuncia contro il governo italiano, accusandolo di aver permesso crimini di guerra
Parlando a POLITICO da Roma, dove attualmente vive, Ruei ha ricordato di essere stato torturato da un comandante nella prigione di Mitiga. “Mi ha colpito con un bastone. Mi ha tolto una croce dal collo e mi ha colpito. Mi torturava sulle gambe… e diceva ai suoi soldati di fare lo stesso. Ho cercato di fuggire”
Ha aggiunto che il ritorno di Al-Masri in Libia incoraggia altri criminali di guerra. “Quando lo hanno rimandato indietro, significa che l’Italia gli ha dato il potere di andare a continuare il suo lavoro, a torturare le persone”, ha detto, aggiungendo di temere per gli altri migranti detenuti in Libia.
Claudia Gazzini, esperta di Libia presso l’ONG Crisis Group per la risoluzione dei conflitti, ha affermato che l’arresto iniziale di Al-Masri da parte delle autorità italiane è stato incoraggiante per i libici comuni.
“Molti libici speravano che avrebbe portato a una qualche forma di responsabilità, ma così non è stato”, ha dichiarato. “Il messaggio che il suo rilascio ha inviato è che esiste un certo grado di impunità e che alcuni Paesi lo salvaguardano”, ha aggiunto Gazzini.
In loro difesa, la Meloni e i suoi alleati hanno insistito sul fatto che Al-Masri aveva poco a che fare con la strategia del governo sui migranti.
Ma questo non ha fatto altro che aggiungere ulteriore confusione alla decisione di riportarlo in Libia, per la quale hanno offerto una frustrante serie di spiegazioni segrete.
Il 28 gennaio, in un video in cui annunciava di essere sotto inchiesta, la Meloni ha affermato che il ritorno di Al-Masri era stato necessario per motivi di “sicurezza nazionale”.
Il 3 febbraio, invece, riferendo sul caso al Parlamento italiano, il ministro della Giustizia Nordio ha attribuito la colpa del rilascio di Al-Masri ai documenti contraddittori inviati dalla CPI, che secondo lui erano per lo più in inglese e in arabo e quindi di difficile comprensione.
I critici trovano queste argomentazioni difficili da credere. Gazzini si è detta sorpresa dall’affermazione secondo cui il Ministero della Giustizia italiano avrebbe trovato incongruenze nel documento che ha faticato a tradurre, dato che il documento della CPI era “semplice, con solo piccoli errori di battitura”.
Ha aggiunto che il governo italiano, come altri Stati, aveva già esaminato e approvato in precedenza i mandati della CPI spiccati contro i libici, e avrebbe potuto aspettare che gli errori venissero corretti o riarrestare il militante anche se c’era un errore procedurale.
L’autrice ha inoltre messo in dubbio l’idea che il militante rappresentasse una minaccia immediata per la sicurezza nazionale, come sembra suggerire la Meloni, sottolineando che non si trattava di un terrorista, ma di un alto funzionario ben inserito che si era recato in Italia principalmente per assistere a una partita di calcio.
Ma negli ambienti governativi ci sono pochi dubbi sul fatto che il rilascio di Al-Masri sia stato effettuato per proteggere quelle vitali relazioni intermediterranee, anche se si riconosce che la vicenda è stata gestita in modo incompetente, secondo quanto dichiarato da diversi funzionari di alto livello con cui POLITICO ha parlato.
La Meloni ha avuto immediate preoccupazioni per la sicurezza. Solo pochi giorni prima il premier aveva assicurato il rilascio della giornalista italiana Cecilia Sala, che era stata rapita dalle autorità iraniane – e c’era il timore che una cosa simile potesse accadere al personale dell’ambasciata italiana a Tripoli, secondo due persone che hanno familiarità con la questione.
Ai dipendenti dell’ambasciata […è già vietato uscire, tranne che per viaggi diplomatici di alto livello, e c’è un timore persistente sulla sicurezza del personale consolare nel Paese che risale all’attacco mortale all’ambasciata statunitense di Bengasi nel 2012.
Un esperto ritiene che il governo italiano avrebbe potuto avvalersi delle norme sul segreto di Stato che gli avrebbero permesso di mantenere il silenzio sull’intera vicenda. “Avrebbero dovuto dichiarare immediatamente che si trattava di una questione di interesse nazionale. Imporre il segreto di Stato e chiudere il caso”, ha detto Giovanni Orsina, professore di storia contemporanea all’Università Luiss di Roma.
Invece, ha aggiunto, il governo “si è rifugiato dietro i cavilli legali, e credo che sia stato questo l’errore perché, invece di risolvere la questione, l’ha resa molto più complicata”.
Contattato da POLITICO, il governo italiano non ha risposto a una richiesta di commento.
In tutta la vicenda, una cosa è rimasta costante: gli attacchi spesso febbrili della Meloni alla magistratura.
Il premier ha da tempo assunto un atteggiamento contraddittorio nei confronti della magistratura italiana, a partire dagli attacchi dello scorso anno ai giudici dell’immigrazione di Roma che avevano respinto la richiesta di trattenere i migranti in un “centro di rimpatrio” in Albania.
La schermaglia ha scatenato una battaglia a distanza tra la Meloni e i tribunali e ha intensificato i discorsi sulla riforma giudiziaria.
Questa tattica trumpiana – negare e contrattaccare – è sbocciata nel caso Al-Masri.
In un video sui social media in cui annunciava di essere indagata, il premier ha cercato di collegare il magistrato inquirente Francesco Lo Voi a un processo fallito contro il vicepremier Matteo Salvini e ha insinuato l’esistenza di legami tra Luigi Li Gotti, l’avvocato calabrese dietro la denuncia che ha portato all’inchiesta sul suo operato, e l’ex premier di centrosinistra Romano Prodi.
Li Gotti, ex attivista di destra diventato politico di centro-sinistra, ha negato le accuse, affermando che la sua denuncia si basava su resoconti giornalistici di un reato.
Ha dichiarato a POLITICO di non aver mai incontrato Prodi e di aver presentato la denuncia contro la Meloni perché rispecchiava le politiche che hanno portato all’annegamento di migranti naufragati al largo della costa meridionale italiana nel 2023, a cui aveva assistito personalmente.
In particolare, anche la Meloni ha fatto eco agli Stati Uniti gettando disprezzo sulla Corte penale internazionale, accusandola di aver preso di mira il suo governo emettendo il mandato di arresto solo quando Al-Masri si trovava sul territorio italiano e rifiutandosi di sostenere la Corte dopo le recenti sanzioni di Trump.
Nonostante la controversia, secondo gli osservatori è improbabile che l’indagine progredisca. L’avanzamento del processo dipende dall’approvazione del Parlamento italiano, che è dominato dalla coalizione della Meloni e che è riuscito a far passare il processo come un attacco di parte.
“Anche se il Tribunale dei Ministri procede, il Parlamento deve votare e con questa maggioranza lo bloccherà”, ha detto Orsina.
“È facile, quando si denuncia un politico, dire che si tratta di un atto politico”, ha sottolineato Li Gotti.
“Ma io ho compiuto un [atto] giudiziario… L’ho denunciata perché c’era un reato, che io sostengo. Quando un politico commette un omicidio, non credo che denunciarlo sia un atto politico. È un crimine”.
(da agenzie)
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Marzo 17th, 2025 Riccardo Fucile
IL SOTTOSEGRETARIO ALLA CULTURA GIANMARCO MAZZI (FRATELLI D’ITALIA) E IL MINISTRO OMBRA… HA DATO 1,7 MILIONI EXTRA ALLA FONDAZIONE VERONESE A CUI E’ MOLTO LEGATO
Sotto il balcone di Giulietta non c’è Romeo che declama il suo amore. Più prosaicamente c’è una pioggia di soldi, che cade giù anche grazie a un sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi, innamorato della sua Verona come la coppia shakespeariana.
Ci sono due fiamme che ardono nel cuore del sottosegretario, veronese doc, in grande ascesa. La prima, appunto, è per la città natia, quella dell’Arena. Da manager dello spettacolo è un suo feudo nell’ambito dell’organizzazione di eventi culturali.
E ora, in virtù del ruolo governativo, crocevia di possibili conflitti di interessi, visto che nella fondazione e nella società Arena di Verona srl, società che organizza degli eventi extra lirici (concerti, show televisivi), ci sono al timone sue fedelissime dirigenti. E fino al 2022 era lui personalmente a tirare le fila come amministratore delegato.
Un dato è certo: da quando si è insediato il governo Meloni e Mazzi è andato al Mic, alla fondazione sono arrivati in totale un milione e 700mila euro aggiuntivi ai finanziamenti attraverso due stanziamenti ad hoc. In totale, poi, tra i vari capitoli (su cui spicca l’ex Fus) nell’ultimo biennio il ministero ha trasferito alla fondazione oltre 13 milioni di euro all’anno.
La seconda fiamma è invece quella politica, che arde per Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sebbene Mazzi non sia un militante tradizionale. Ma vanta un’antica e solida amicizia con Ignazio La Russa, che lo aveva messo nella galassia della destra. Anche se il sottosegretario rifugge dalle etichette: «Non sono mai stato di sinistra. Ma oggi ha ancora senso parlare di destra e di sinistra?», disse in un’intervista prima di approdare in parlamento da deputato (nel 2022) e quindi al governo.
Tra ministero e Rai
Mazzi è oggi sempre più potente al Collegio romano, sede del ministero della Cultura, a dispetto dei possibili conflitti di interessi. Quasi un ministro-ombra, molto stimato dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, che sente spesso. Da palazzo Chigi si informano per sapere cosa funziona o meno. A dargli maggiore spazio sono le guerre interne scoppiate soprattutto dopo le dimissioni di Gennaro Sangiuliano, che
colpiscono il ministro Alessandro Giuli non molto amato proprio da Fazzolari.
I rapporti si sono deteriorati anche con Alfredo Mantovano, a causa delle varie incomprensioni sul decreto Cultura. Negli uffici ministeriali si racconta che Mazzi abbia accolto con un certo sollievo le dimissioni di Vittorio Sgarbi da sottosegretario.
L’attivismo del critico d’arte, su Verona, gli aveva provocato qualche malumore, che non ha portato allo scontro frontale, ma aveva alimentato risentimenti. Insomma, il sottosegretario ha superato gli scogli su cui si sono incagliati molti altri al ministero.
Il rapporto privilegiato al ministero è con il direttore generale dello spettacolo, Antonio Parente, approdato all’incarico con Dario Franceschini, ma che ha costruito un’intesa con il sottosegretario. Ed è in odore di riconferma. L’altro grande interlocutore è Emanuele Merlino, capo della segreteria tecnica già con Sangiuliano, che palazzo Chigi ha imposto a Giuli, che invece era intenzionato a fare cambiamenti più profondi nello staff.
Mazzi è uno che sa adattarsi. Nel 2016 la Lega lo ha cercato per realizzare uno spot elettorale, si andava alla ricerca di figuranti. Armando Siri è stato il tramite per organizzare un veloce incontro con Matteo Salvini. Era un onore averlo come tecnico, visti i trascorsi da direttore artistico del Festival di Sanremo in sei edizioni.
Ma questo è il passato. Il sottosegretario, da manager consumato, guarda al presente e ancora di più al futuro, sfruttando il suo upgrade nelle gerarchie ministeriali.
L’organizzazione della mostra sul futurismo al Maxxi è stato un esempio del peso acquisito dal sottosegretario veronese. Nel passaggio di consegne tra Sangiuliano e Giuli, ha gestito la partita per evitare sorprese. Più di recente, invece, ha mostrato il suo potere in Rai.
In un confronto con Marcello Ciannamea, direttore dell’intrattenimento a viale Mazzini, ha bocciato i nomi dei possibili conduttori per la prossima Partita del cuore, appuntamento di beneficenza della nazionale cantanti che si dovrebbe svolgere a maggio. Il candidato prediletto del sottosegretario, d’accordo con il suo sodale, l’organizzatore dell’evento Gian Luca Pecchini, è sempre quello di Carlo Conti.
Cent’anni di fondazione
Ma dalla postazione del collegio Romano, il sottosegretario ha rivolto le maggiori attenzioni alla sua Verona.
E quando si parla della città di Romeo e Giulietta, la macchina culturale ed economica più importante è la fondazione Arena di Verona, che appena pochi mesi fa, a ottobre 2024, è passata all’incasso di 700mila euro versati dal ministero della Cultura. Il motivo? «Un evento culturale musicale di livello internazionale per celebrare l’iscrizione della pratica del canto lirico in Italia nella lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco», si legge nel titolo del bando pubblicato a gennaio e aggiudicato, a febbraio, proprio dalla fondazione Arena di Verona per l’appuntamento che si è tenuto a giugno.
Ma non è stato il primo caso di un finanziamento extra. Nel 2023 il ministero della Cultura, all’epoca guidato da Sangiuliano, ha stanziato un milione di euro per festeggiare il centenario della fondazione. Per rivendicare la paternità dell’operazione, Mazzi ha consegnato simbolicamente la busta alla sovrintendente della fondazione, Cecilia Gasdia, che non conteneva l’assegno, ovviamente: c’erano scritte le motivazioni dell’assegnazione del contributo. Contava la photo-opportunity.
Il sottosegretario ha sparso parole al miele, parlando della fondazione come un «modello da esportare, per gestione amministrativa e artistica, un modello virtuoso da preservare con cura. Verona è un’isola felice, abbiamo una governance di prim’ordine, una delle migliori a livello internazionale».
Il controllo su Verona
Parole che suonano come un autoelogio. La gestione dell’arena è stata plasmata da Mazzi, sebbene il sindaco della città, Damiano Tommasi (civico di centrosinistra), sia il presidente del consiglio di amministrazione per statuto.
Gasdia, da sovrintendente, è la vera macchina della fondazione. Ed è una fedelissima del manager-sottosegretario. La conferma al timone dell’Arena è arrivata, nel marzo 2023, al termine di uno scontro che ha spaccato il cda, mettendo in minoranza il sindaco che ha dovuto mandare giù la sconfitta.
Tommasi in quel caso ha lamentato: «Hanno prevalso logiche romane». Ma la manina del blitz era, secondo i ben informati, quella veronese di Mazzi più che romana. L’appartenenza politica di Gasdia è testimoniata dalla candidatura con Fratelli d’Italia alle comunali di Verona nel 2017 con la benedizione di Ciro Maschio, all’epoca dirigente locale e attuale presidente della commissione giustizia alla Camera.
L’altro pezzo di Mazzi per avere pieno controllo dell’Arena è la srl (ex Arena Eventi) che promuove gli eventi non legati alla lirica. È stato amministratore fino all’elezione alla Camera. Ora la direttrice è un’altra fedelissima, Cecilia Baczynski, segretaria generale della società ai tempi della guida-Mazzi. L’ultimo bilancio disponibile, quello del 2023, parla di un utile di 391mila euro anche grazie ai 38 eventi live organizzati. Una postazione di prestigio.
Dal territorio, poi, il sottosegretario ha scelto il suo capo di gabinetto, Michele Ghionna, già collaboratore dell’ex sindaco di centrodestra, Federico Sboarina. L’attuale braccio destro del sottosegretario al Mic è stato a lungo, fino al 2017, responsabile delle relazioni esterne del teatro stabile del Veneto “Carlo Goldoni”.
Un quadro completo di “presa” del Mic, almeno dei temi a lui più cari. «Meloni si fida molto di Mazzi, lo ritiene un profilo serio, credibile e umanamente simpatico», spiegano dal ministero. Il racconto di Mazzi come un buontempone, dalla battuta veloce, è comune a molti di quello che lo conoscono. Tra un sorriso e l’altro, sempre a Verona si torna per il futuro. La tentazione è quella di candidare Mazzi a sindaco al
prossimo appuntamento.
Opzione tutta da esplorare, però. «È un uomo più di azione che di mediazione, con certe liturgie politiche e gli apparati burocratici comunali si troverebbe a disagio», racconta chi conosce bene Mazzi. Quindi, «è difficile possa candidarsi per la città. A meno che non glielo chiedano con insistenza l’amico di sempre La Russa insieme a Giorgia Meloni».
Anche se il pensiero alla sua città è fisso. Un amore intenso nella città dell’amore.
(da editorialedomani.it)
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