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LA GROENLANDIA SFANCULA I TRUMPIANI : LA MOGLIE DEL VICEPRESIDENTE AMERICANO JD VANCE, USHA, VISITERÀ L’ISOLA INSIEME AL CONSIGLIERE PER LA SICUREZZA NAZIONALE MIKE WALTZ, MA IL PRIMO MINISTRO USCENTE DELL’ISOLA MÚTE BOURUP EGEDE BOLLA LA VISITA COME “UN’AGGRESSIONE AMERICANA”, VISTA LA VOLONTÀ DI TRUMP DI VOLER ANNETTERE LA GROENLANDIA

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

“FINO A POCO TEMPO FA POTEVAMO FIDARCI DEGLI AMERICANI, MA QUEL TEMPO E’ FINITO”

La Groenlandia si prepara a nuove visite dagli Stati Uniti, ma stavolta c’è meno entusiasmo. L’annunciato arrivo questa settimana di Usha Vance, moglie del vicepresidente J. D. Vance, che sbarcherà assieme al figlio, al consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca Mike Waltz e al segretario all’Energia Chris Wright, ha provocato un nuovo sussulto nella crisi tra gli Stati Uniti, la vasta isola artica popolata da 57 mila abitanti e il Regno di Danimarca, a cui la Groenlandia appartiene come governo autonomo.
Il primo ministro uscente dell’isola, Múte Bourup Egede, ha bollato la visita come una «aggressione americana», mentre Vance ha accusato la Danimarca di «non fare il proprio lavoro» e «non essere un buon alleato». La moglie del vicepresidente, attesa per una visita di tre giorni, assisterà nel weekend all’Avannaata Qimussersua, la corsa di cani da slitta più famosa al mondo.
Ma la presenza nella delegazione di Waltz, falco dell’amministrazione americana, secondo Egede fa apparire chiaro come questa «non possa essere considerata solo una visita privata». Simile la reazione della premier danese Mette Frederiksen: «Non può essere vista in modo isolato rispetto alle dichiarazioni pubbliche fatte. È qualcosa che prendiamo seriamente».
Immediata la controreplica di Donald Trump: «Questa visita non è una provocazione ma un segno di pura amicizia». Da due mesi lo stesso presidente promette l’annessione, «in un modo o nell’altro», della Groenlandia: Trump vuole mettere le mani sul patrimonio minerario groenlandese, prezioso per le nuove tecnologie, e sfruttare la posizione strategica di controllo delle rotte artiche.
Trump ripete che la gente dell’isola sarebbe entusiasta di essere annessa all’America. A gennaio il presidente aveva mandato in avanscoperta il figlio maggiore, Donald Jr, tornato a casa convinto che l’acquisto dell’isola fosse possibile coprendo di dollari gli abitanti. Ma alle elezioni dell’11 marzo ha vinto a sorpresa il partito indipendentista Demokraatit, il cui leader, Jens Frederik Nielsen, ha detto: «Non vogliamo essere danesi né americani».
In un’intervista al quotidiano locale Sermitsiaq ha criticato l’arrivo di Waltz: «Cosa sta facendo il consigliere per la Sicurezza in Groenlandia? L’unico scopo è
dimostrare potere su di noi. La pressione aumenterà». E ancora: «Fino a poco tempo fa, potevamo fidarci degli americani, che erano nostri alleati e amici, e con i quali ci piaceva lavorare a stretto contatto. Ma quel tempo è finito».
È utile un ripassino di storia. Nell’aprile 1940, dopo l’occupazione nazista della Danimarca, i governatori della Groenlandia dichiararono l’isola temporaneamente indipendente e chiesero agli Usa di assicurarne rifornimenti e protezione. Un anno dopo fu siglato l’Accordo sulla difesa della Groenlandia, con cui l’isola diventava un protettorato de facto di Washington, che iniziò a costruire basi militari.
L’«aiuto» avrebbe dovuto cessare con la fine della minaccia tedesca. Il 27 aprile 1951 il governo danese ratificò però un nuovo accordo, stavolta in chiave antisovietica, e accettò la costruzione della base aerea di Thule, un’enclave statunitense in terra inuit, oggi chiamata base spaziale di Pituffik.
Il braccio di ferro Trump non ha escluso l’uso della forza per controllare la Groenlandia, territorio che in quanto parte della Danimarca è protetto dall’ombrello Nato. È interessato alle vaste riserve di terre rare, essenziali per le industrie high-tech, e alle rotte commerciali che si aprono nell’Artico a causa del riscaldamento climatico. La posta più alta in gioco, però, è il controllo geostrategico dell’isola, che si trova lungo il percorso più breve dall’Europa al Nord America, vitale per il sistema di allarme missilistico balistico degli Usa.
(da agenzie)

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COSA INTENDEVA L’HACKER, L’UOMO DI MUSK IN ITALIA, ANDREA STROPPA, QUANDO HA DETTO: “BELLISSIMO QUANDO MI INSULTANO SU X CON GLI ACCOUNT ANONIMI… POTREI TROVARLI”?

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

SI RIFERIVA ALLE SUE ABILITÀ INFORMATICHE OPPURE LA VICINANZA A MUSK GLI CONCEDE DEI “PRIVILEGI” PARTICOLARI? NON SAREBBE ETICO, NÉ LEGALE

“Ma tu sei azionista di X? Ce le hai due azioni di X?”, chiede il giornalista Nicola Porro durante una chiacchierata su Space (la chat audio del social network X) ad Andrea Stroppa, diventato noto come il “referente di Elon Musk in Italia” e che ha già rivestito il ruolo di ricercatore indipendente per lo staff che curava la sicurezza del fu Twitter.
“Sì”, risponde Stroppa a Porro. “Tra l’altro, bellissimo, quando mi insultano qua [su X, ndr] con gli account anonimi… Potrei trovarli… Però non lo faccio perché…”.
Tanto bastò per scatenare il pandemonio. Sulla piattaforma, naturalmente. La frase è
stata notata per prima proprio su X da Claudia Giulia Ferrauto e ha sollevato parecchie perplessità. A che cosa faceva riferimento Stroppa? In che modo il romano potrebbe “trovare” gli account anonimi di X che lo insultano? Andrebbe poi chiarito di che tipo di informazioni parliamo: solo l’indirizzo email, oppure – per esempio – il numero telefono, le conversazioni private, le interazioni?
Ragioniamo. Si potrebbe supporre che Stroppa facesse riferimento alle proprie abilità da smanettone, che lo hanno condotto dritto alla corte dell’uomo più ricco del mondo, con un ruolo peraltro di primissimo piano in Italia.
In questo caso, sarebbe solo uno dei tanti personaggi estremamente abili che circolano in Rete: e parleremmo di un’iniziativa privata. Non è chiaro se con profili problematici dal punto di vista legale, ma insomma: uno del mucchio. E la società, X, non c’entrerebbe.
Un’altra opzione è che possa entrarci, invece, e proprio per il ruolo di Stroppa da ricercatore indipendente che si è occupato della sicurezza del social network. In questo caso, la faccenda comincerebbe a farsi preoccupante.
Anche perché significherebbe non solo che policy interne e leggi statali non vengono rispettate, ma anche che esiste un certo numero di persone – non si sa quante – che per qualche motivo hanno la possibilità di accedere ai dati personali di chi usa X. E lo scarso buonsenso di vantarsene in pubblico. Questa seconda ipotesi, sì, sarebbe preoccupante perché informazioni sensibili devono essere maneggiate solo per fini operativi.
Esiste una terza opzione. Che il presunto accesso sia dovuto a una semplice motivazione: la vicinanza personale di Andrea Stroppa a Elon Musk. Quindi, la vicinanza al capo garantirebbe privilegi. Sarebbe l’alternativa peggiore, al di fuori di ogni regola.
Il mistero delle partecipazioni di Andrea Stroppa in X
Ma cambiamo prospettiva, e guardiamo il versante economico. Potrebbe essere questa la giustificazione a una presunta facoltà di Andrea Stroppa accedere alle informazioni personali?
Innanzitutto, siamo sicuri che Stroppa possegga davvero delle partecipazioni in X? Fatto che lo porrebbe, peraltro, assieme a una compagine di tutto rispetto, che spazia dal principe saudita Alwaleed bin Talal al cofondatore di Oracle Larry Ellison e altri nomi di primissimo piano. Se davvero così fosse, sarebbe senz’altro una quota di minoranza, considerato chi sono i sodali. Ma non è questo. Il fatto è che diversi utenti si sono chiesti se questo presunto status comporti la possibilità di accedere a informazioni private.
Ci sentiamo di rassicurarli: a quanto ne sappiamo, gli investitori di X, e anche il proprietario, non dovrebbero avere accesso diretto ai dati personali degli utenti. Non sarebbe etico, né legale. Insomma, le preoccupazioni potrebbero sembrare solo ansie da complottisti. Se non fosse, però, che fonti estremamente autorevoli – e ben informate – hanno sottolineato che la risposta ai tanti dubbi su X non è scontata. Anzi.
Al tempo dell’acquisizione dell’allora Twitter da parte di Musk, l’amministrazione Biden sollevò alcune preoccupazioni su possibili accessi ai dati da parte degli investitori esteri coinvolti nell’affare, tra cui il principe saudita Alwaleed o il fondo del Qatar.
Preoccupazioni legate proprio al rischio che degli investitori stranieri potessero avere accesso a dati privati di cittadini americani. Si trattava, va chiarito, di ipotesi: non si sono trovate, al momento, prove che gli investitori di X possano avere informazioni personali degli utenti.
Anzi, un eventuale trasferimento di dati personali a soggetti economici senza consenso degli interessati e senza adeguata pubblicità violerebbe sia le policy interne di X che le leggi sulla privacy vigenti. Ma Joe Biden non è il primo tizio che passa per la strada: dispone di fonti di informazione attendibili, di orecchie piazzate ovunque e, soprattutto, è un politico navigato. Che non parla per caso. E, quando lo fa, lancia messaggi a chi può comprenderli.
C’è poi il caso segnalato da Vox. Ai tempi dell’acquisizione da parte di Musk, i messaggi diretti sulla piattaforma non erano protetti con la end-to-end encryption (il che li avrebbe resi visibili solo al destinario, come accade su Whatsapp). Questa scelta li ha resi accessibili da chi governa la piattaforma stessa.
Non solo. “Negli anni”, rincarava la dose la testata, “Twitter è stata perseguitata da problemi di privacy e sicurezza, rallentando al contempo l’adozione di possibili soluzioni. Il risultato è che, potenzialmente, tutto ciò che hai fatto o detto su Twitter — pubblico o privato, inclusi i tuoi messaggi diretti — ora appartiene a una delle persone più ricche del mondo, nota per il suo comportamento erratico, vendicativo e infantile”.
E ancora. Il whistleblower Peiter “Mudge” Zatko (ex responsabile sicurezza di Twitter) ha denunciato nel 2022 che circa la metà dei dipendenti Twitter poteva accedere ai dati personali di qualunque utente senza adeguati controlli. Secondo la sua testimonianza, esistevano regole formali che impedivano tali abusi, ma di fatto non venivano applicate. Per quanto la società abbia smentito le accuse, i sospetti non si sono fugati. E le cose potrebbero non essere cambiate.
(da Wired)

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INTERVISTA A MATTEO ORFINI: “SUI CENTRI IN ALBANIA MELONI HA FALLITO, ORA BASTA SPRECHI E BUGIE”

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

LA TRASFORMAZIONE DEI CENTRI IN ALBANIA IN CPR E’ LA DIMOSTRAZIONE DEL FALLIMENTO DI MELONI… “QUESTA OPERAZIONE NON E’ POSSIBILE PERCHE’ LE NORME NON LO CONSENTONO, L’EFFETTO SUI RIMPATRI SARA’ NULLO E CON UN ULTERIORE SPRECO DI SOLDI PUBBLICI”

I centri in Albania tornano a essere terreno di scontro tra maggioranza e opposizioni. Il ministro Piantedosi ha confermato l’ipotesi di una possibile conversione delle strutture di Shengjin e Gjader – al momento ancora vuoti – in centri di permanenza per il rimpatrio. Un’operazione che il deputato del Partito democratico, Matteo Orfini definisce a Fanpage.it come “la dimostrazione del fallimento” del cosiddetto modello Albania.
Secondo il dem la trasformazione annunciata da Piantedosi non solo non si potrà
fare– quantomeno in tempi brevi – perché le leggi vigenti non lo consentono, ma comporterà un ulteriore spreco di denaro pubblico. Anche l’effetto sui rimpatri sarà nullo. Dietro questa decisione si nasconde il tentativo del governo di “mascherare il fallimento politico del protocollo Italia-Albania”, ci spiega. “Il problema è che tutto questo ad oggi produce da un lato, una violazione dei diritti umani certificata dalle sentenze e dall’altro, uno sperpero immane di risorse pubbliche. Non possiamo continuare a pagare un miliardo per la propaganda di Giorgia Meloni”.
È la dimostrazione del fallimento del modello Albania. Intanto c’è un problema giuridico perché ad oggi un’operazione del genere non si può fare. Non è possibile portare chi è già trattenuto in un Cpr in un territorio extraeuropeo perché una cosa del genere non è prevista né dal protocollo Italia – Albania, né dalla legge applicativa del protocollo. Stiamo parlando di una cosa che a norme vigenti non si può fare. Ma soprattutto è l’ammissione di un fallimento politico perché i centri per come erano stati pensati erano concepiti per svolgere la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera”: chi arrivava in Italia coi barconi o veniva salvato in mare, invece di essere portato in Italia, veniva portato in un paese terzo, appunto l’Albania, dove gli si applicava una procedura sommaria è accelerata per valutare se avesse o meno diritto alla protezione internazionale e quindi in quel caso, ad essere portato in Italia. Secondo questo piano i centri Albania avrebbero dovuto ospitare per tempi molto limitati i migranti che poi sarebbero stati rimpatriati o portati in Italia. Il governo stimava il passaggio in quei centri di decine di migliaia di persone in un anno. La trasformazione in Cpr significa che quei centri verranno – ammesso che lo si renda legalmente fattibile – migranti che già sono reclusi in Italia in attesa di rimpatrio. Ma i tempi di permanenza in un Cpr sono lunghissimi. Parliamo di mesi e mesi. Quindi centri che costano un miliardo in 5 anni serviranno a tenere recluse poche centinaia di persone con un costo altissimo. Persone che potrebbero serenamente stare in un Cpr in Italia dovranno essere prese in Italia, trasportate in Albania, mantenute in una struttura che era pensata per una funzione diversa, aumentando ancora di più la follia dello spreco e tralasciando gli aspetti legati alle violazioni dei diritti dei migranti.
Piantedosi si è corretto e ha chiarito che quei centri non verrano convertiti in Cpr perché di fatto quelle strutture, in quanto “polivalenti”, lo sono già e andranno semplicemente attivati. È così?
Questo è falso. Io ho visitato quelle strutture più più volte. Intanto la struttura portuale non è attrezzata, ma è semplicemente un luogo per la prima identificazione. Non è previsto come luogo dove si possa alloggiare. E anche il centro di Gjader è vero che ha una parte allestita a Cpr ma è una parte minima. I Cpr hanno delle necessità e delle caratteristiche molte diverse da quelle degli alloggi normali, perché sono vere e proprie prigioni sostanzialmente. Quindi anche per adeguare il centro di Gjader e trasformarlo completamente in un Cpr, occorrerebbe intervenire con
ulteriori dispendio di risorse e di energia.
Parliamo di altri costi in più?
Esattamente. Oltre a questo, dal punto di vista del Partito democratico è proprio sbagliato il modello.
Il ministro però, sostiene che per quel che riguarda gli sbarchi l’effetto di deterrenza verrà mantenuto.
Anche questa è una sciocchezza perché già la tesi della deterrenza era un modo per giustificare il fatto che non riuscissero a far funzionare i centri. Non si capisce che deterrenza ci sarà, per chi parte, nel sapere che chi sta già in Italia può finire in Albania. In questo caso qui in Albania ci finirebbe solo chi deve stare in Italia e deve essere rimpatriato dall’Italia al Paese d’origine. Per chi parte non cambia assolutamente nulla e non c’è alcun effetto deterrenza. Poi in tutto questo c’è un’enorme ipocrisia di fondo, cioè il fatto che sembra che aumentando quando i Cpr si facciano si facciano più rimpatri, ma i rimpatri non si fanno non perché non ci sono i Cpr. Non si fanno perché non ci sono gli accordi di rimpatri con i Paesi di origine: per rimandare uno in un Paese, c’è bisogno dell’accordo col Paese d’origine e su questo non c’è riuscito mai nessun governo. I numeri dei rimpatri sono bassissimi con tutti i governi perché è difficilissimo fare gli accordi con i Paesi d’origine. Se si vuole aumentare il numero dei rimpatri ci si concentri su fare gli accordi non su aumentare il Cpr.
In concreto, secondo lei, quanto sarà incisiva la conversione dei centri in Albania sui numeri dei rimpatri?
Non cambierà assolutamente nulla. L’unica cosa che cambierà è che spenderemo molte più risorse che a farli dall’Italia.
Quindi qual è la strategia del governo?
Ho la sensazione che di fronte al fatto che la procedura di frontiera non ha funzionato e che quindi quei centri sono vuoti ormai da quasi un anno da quando sono stati inaugurati, loro hanno l’esigenza politica di mascherare il fallimento e quindi di metterci qualcuno in qualche modo. Quand’anche riuscissero a fare questa operazione e ripeto, mi pare molto complicato perché le norme non lo consentono, dovrebbe essere d’accordo anche l’Albania e ricordo che Edi Rama è in campagna elettorale in questo momento.
Quindi, in sostanza, i centri resterebbero vuoti ancora per altro tempo?
Sicuramente perché per cambiare il protocollo deve cambiare in Italia, deve cambiare in Albania, deve cambiare la legge applicativa. Oppure si agisce fuori dalla legalità, come come di fatto è già accaduto, ma ci si scontra con le sconfitte in giudizio. Siamo di fronte a un tentativo di continuare a raccontare per modello un fallimento. Capisco anche l’imbarazzo e la difficoltà visto quanto Meloni ci aveva puntato, però il problema è che tutto questo ad oggi produce una violazione dei diritti umani
certificata dalle sentenze da un lato e dall’altro sperpero immane di risorse pubbliche. Non possiamo continuare a pagare un miliardo per la propaganda di Giorgia Meloni.
(da Fanpage)

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ESSERE IL BURATTINAIO DEL SOVRANISMO GLOBALE HA DELLE CONSEGUENZE: LE VENDITE EUROPEE DI AUTO TESLA CROLLANO DEL 49% A GENNAIO E FEBBRAIO

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

NEL MERCATO UE LE MACCHINE DI ELON MUSK HANNO UNA QUOTA DI MERCATO RIDICOLA, DELL’1,1% (NE SONO STATE VENDUTE SOLO 19MILA IN TUTTO IL CONTINENTE) … I RIVALI CINESI DI BYD SUPERANO PER LA PRIMA VOLTA LA SOGLIA DEI 100 MILIARDI DI DOLLARI DI RICAVI (TESLA SI FERMA A 97,7)

Le vendite europee di auto elettriche Tesla sono calate del 49% in gennaio e febbraio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ha affermato oggi l’Associazione dei costruttori europei di automobili (Acea).
I modelli obsoleti sono uno dei fattori alla base del crollo finora registrato quest’anno, ma i clienti di veicoli elettrici potrebbero anche rifiutarsi di acquistare Tesla per protestare contro il miliardario proprietario dell’azienda Elon Musk, diventato un sostenitore chiave del presidente americano Donald Trump.
Musk ha guidato una divisiva campagna di riduzione dei costi a capo del Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge) di recente creazione. Diverse concessionarie Tesla negli Stati Uniti sono state vandalizzate nelle ultime settimane e il prezzo delle azioni della società è crollato nell’ultimo mese.
Le nuove immatricolazioni Tesla nell’Ue sono scese a 19.046 nei primi due mesi dell’anno, dando alla società una quota di mercato di appena l’1,1%, ha affermato l’Acea. Solo a febbraio, le immatricolazioni Tesla sono diminuite del 47%, a 11.743.
Il calo è avvenuto nonostante le vendite complessive di veicoli elettrici siano aumentate del 28,4% nei primi due mesi di quest’anno a 255.489, per una quota di mercato Ue del 15,2%. Ma per il direttore generale dell’Acea, Sigrid de Vries, “le ultime cifre sulle immatricolazioni di nuove auto confermano che la domanda di mercato per veicoli elettrici a batteria rimane al di sotto del livello necessario per il passaggio alla mobilità a zero emissioni”
L’assalto della Cina all’industria automobilistica mondiale è rapido e furioso, ma il più grande sfidante al dominio globale di Tesla nelle e-car è a tutti gli effetti Byd, a dispetto dei dazi.
Il gruppo di Shenzhen, sostenuto da Warren Buffett, ha lanciato il guanto di sfida al patron dell’auto elettrica americana Elon Musk, superando nel 2024 la rivale a stelle e strisce per ricavi, fino ad abbattere per la prima volta la soglia psicologica dei 100 miliardi di dollari: 777,1 miliardi di yuan (circa 107,2 miliardi di dollari), più dei 97,7 miliardi annunciati da Tesla.
I ricavi di Byd, ha spiegato una nota alla Borsa di Hong Kong, hanno registrato un balzo del 29% annuo, oltre i 766 miliardi stimati dagli analisti. L’utile netto, invece, ha avuto un rialzo addirittura del 34%, fino a 40,3 miliardi, su nuovi record.
Il prezzo delle azioni ha toccato il picco storico lo scorso 20 marzo (a 424,20 dollari di Hk) sulla spinta della nuova tecnologia di batterie presentata come in grado di consentire a un veicolo di percorrere fino a 470 chilometri dopo una ricarica di appena cinque minuti.
Un sistema di batterie e di ricarica da 1.000 kW, superiori ai Supercharger di Tesla, che attualmente si ferma a 500 kW. Le azioni Byd a Hong Kong hanno chiuso la seduta con un +3% sulle aspettative dei buoni dati di bilancio: dall’inizio dell’anno però hanno guadagnato più del 50%, in netto contrasto con il calo del 34% di Tesla.
Tuttavia, la capitalizzazione della società cinese rimane inferiore a un quinto della rivale americana, il cui valore è crollato da da 1.700 miliardi a meno di 800 miliardi. Le vendite annuali di Byd hanno beneficiato della crescente domanda di modelli ibridi plug-in nel mercato cinese, dove ha spazzato via i rivali tra taglio dei costi di produzione e richieste periodiche ai fornitori di limare listini di vendita.
Il risultato è che il gruppo mantiene margini a doppia cifra, utili per attenuare i dazi in Europa o in altre parti del mondo. Perché l’espansione all’estero è la priorità per il gruppo fondato da Wang Chuanfu, ora nel ruolo di presidente. Solo in Europa, dopo quelli in Turchia e Ungheria, è in arrivo un terzo impianto, probabilmente in Germania.
L’azienda cinese, le cui vendite all’estero sono salite lo scorso anno a più di 400.000 veicoli, ha recentemente raccolto quasi 6 miliardi di dollari per finanziare i piani di espansione. Byd ha rappresentato circa il 16% delle auto esportate dal Dragone a gennaio e febbraio. E l’ultima innovazione dell’azienda, la ricarica ultraveloce, è considerata dagli analisti lo strumento per catturare ulteriori quote di mercato dai rivali.
I numeri solidi potranno contare anche sulla nuova serie di tecnologie per veicoli elettrici per rendere la sua gamma di modelli più attraente, tra cui un cosiddetto sistema di guida avanzato God’s Eye e l’integrazione dei software con i modelli di intelligenza artificiale di DeepSeek, la startup mandarina che ha sorpreso i colossi Usa con i suoi prodotti low cost, ma ad alte prestazioni.
Per altro verso, sul fronte Tesla i problemi sembrano moltiplicarsi, anche se oggi il titolo a Wall Street è arrivato a rimbalzare oltre il 10%. Mentre le vendite di auto e il prezzo delle azioni crollano in risposta alle posizioni politiche di Musk, l’azienda sta puntando molto sull’intelligenza artificiale, ma gli investitori hanno iniziato a chiedersi dove finiscano davvero i soldi. Come ha riportato il Financial Times, una discrepanza di 1,4 miliardi di dollari tra le spese dichiarate e il valore effettivo degli asset acquistati ha sollevato dubbi sui controlli interni.
(da agenzie)

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MEGLIO SCROCCONI CHE COGLIONI: NELLA STORIACCIA DEI PIANI DI GUERRA AMERICANI SPIATTELLATI VIA CHAT, A EMERGERE È IL DISGUSTO PER L’EUROPA DI QUEL BUZZURRO RIPULITO DI JD VANCE

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

IL VICEPRESIDENTE È CONTRARIO ALL’OPERAZIONE CONTRO GLI HOUTHI PERCHÉ RISCHIEREBBE DI AIUTARE IL VECCHIO CONTINENTE: “ODIO SALVARE DI NUOVO L’EUROPA”… E PETE HEGSETH, PASSATO DAGLI STUDI DI FOX AL PENTAGONO SENZA ALCUN MERITO, CI METTE IL CARICO: “CONDIVIDO TOTALMENTE IL TUO DISGUSTO PER GLI SCROCCONI EUROPEI”

Il resoconto è anche illuminante per il modo in cui i membri del governo americano parlano dell’Europa. Vance si dice contrario all’operazione contro gli Houthi, che hanno lanciato attacchi contro Israele e le rotte commerciali dopo la guerra a Gaza, perché solo il 3% del commercio Usa passa dal Canale di Suez, mentre vi passa il 40% di quello europeo e c’è «un rischio reale» che gli americani non capiscano
«perché è necessario» intervenire.
Il vicepresidente, che pubblicamente non contraddice mai Trump, aggiunge: «Non sono certo che il presidente sia consapevole di quanto sia incoerente questo con il suo messaggio sull’Europa» e suggerisce di aspettare un mese, dato anche il rischio che un attacco faccia aumentare il prezzo del petrolio.
Hegseth replica che aspettare aumenta i rischi che qualcuno riveli i piani o che Israele compia un attacco in modi diversi da quelle voluti dagli americani. Waltz spiega che, date le limitate risorse degli europei, solo gli Usa possono riaprire le rotte commerciali, ma «il presidente ha detto di determinare come far pagare gli europei». Vance cede: «Se pensi che dovremmo, facciamolo. Odio salvare di nuovo l’Europa…».
E Hegseth: «Condivido totalmente il tuo disgusto per gli scrocconi europei. È PATETICO. Ma siamo i soli sul pianeta che possono farlo». E Miller conclude: «Il presidente è stato chiaro: luce verde. Ma spieghiamo all’Egitto e all’Europa cosa ci aspettiamo in cambio… dev’esserci un guadagno economico se gli Usa ripristinano con successo la libertà di navigazione ad alto costo».
(da Il Corriere della Sera)

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“IL PAPA SAPEVA DI POTER MORIRE, I SUOI COLLABORATORI AVEVANO LE LACRIME AGLI OCCHI”: SERGIO ALFIERI, COORDINATORE DELL’EQUIPE MEDICA CHE HA CURATO BERGOGLIO ALL’OSPEDALE GEMELLI, RACCONTA I 38 GIORNI IN CUI IL PONTEFICE È STATO RICOVERATO

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

“DOVEVAMO SCEGLIERE SE LASCIARLO ANDARE OPPURE TENTARE CON TUTTE LE TERAPIE POSSIBILI. LUI HA DETTO ‘PROVATE TUTTO, NON MOLLIAMO’. PAPA FRANCESCO È STATO SEMPRE VIGILE” … LE DUE CRISI RESPIRATORIIN CUI SI PENSAVA AL PEGGIO, L’IRONIA DI BERGOGLIO (CHE HA OFFERTO LA PIZZA AI SANITARI): AL MEDICO CHE LO CHIAMAVA “SANTO PADRE” RISPONDEVA “SANTO FIGLIO”

«È brutto». È il pomeriggio del 28 febbraio. Papa Francesco è ricoverato al Gemelli da 14 giorni. All’improvviso le sue condizioni si aggravano, ha un broncospasmo, fame d’aria. Chiede aiuto.
Professor Alfieri, è stato quello il momento peggiore?
«Sì, il peggiore. Per la prima volta ho visto le lacrime agli occhi ad alcune persone che stavano intorno a lui. Persone che, ho compreso in questo periodo di ricovero, gli vogliono sinceramente bene, come a un padre. Eravamo tutti consapevoli che la situazione si era ulteriormente aggravata e c’era il rischio che protesse non farcela».
E che cosa avete fatto?
«Dovevamo scegliere se fermarci e lasciarlo andare oppure forzare e tentare con tutti i farmaci e le terapie possibili, correndo l’altissimo rischio di danneggiare altri organi. E alla fine abbiamo preso questa strada».
Chi ha deciso?
«Decide sempre il Santo Padre. Lui ha delegato ogni tipo di scelta sanitaria a Massimiliano Strappetti, il suo assistente sanitario personale che conosce perfettamente le volontà del Pontefice».
E lui che cosa vi ha detto?
«Provate tutto, non molliamo. È quello che pensavamo anche tutti noi. E nessuno ha mollato».
Il giorno dopo il ritorno a Santa Marta del Papa, il professor Sergio Alfieri è di nuovo al lavoro al Gemelli. Coordinatore dell’équipe medica che ha curato il Pontefice, in questi 38 giorni di degenza gli è stato sempre accanto occupandosi anche delle comunicazioni tra l’interno e l’esterno. «Un lavoro di squadra con molti miei colleghi, questo ci tengo a dirlo e sottolinearlo»
Papa Francesco ha capito che rischiava di morire?
«Sì, anche perché è stato sempre vigile. Anche quando le sue condizioni si sono aggravate era pienamente cosciente. Quella sera è stata terribile, sapeva, come noi, che poteva non superare la notte. Abbiamo visto l’uomo che soffriva. Lui però sin dal primo giorno ci ha chiesto di dirgli la verità e ha voluto che raccontassimo la verità sulle sue condizioni».
Per questo i bollettini erano così dettagliati?
«Noi comunicavamo ai segretari la parte medica e loro aggiungevano le altre informazioni che poi il Papa approvava, nulla è mai stato modificato oppure omesso. Lui ha persone che ormai sono come familiari, stanno con lui sempre».
C’è stata però un’altra crisi.
«Stavamo uscendo dal periodo più duro, mentre mangiava papa Francesco ha avuto un rigurgito e ha inalato. È stato il secondo momento davvero critico perché in questi casi — se non prontamente soccorsi — si rischia la morte improvvisa oltre a complicazioni ai polmoni che erano già gli organi più compromessi. È stato terribile, abbiamo pensato davvero di non farcela».
Lui lo sapeva?
«Sì, ce lo ha detto. Si è sempre reso conto di tutto ma credo che la sua consapevolezza sia stato anche il motivo che invece lo ha tenuto in vita».
Che vuol dire?
«In passato, quando abbiamo parlato gli ho chiesto come fa a tenere questo ritmo e lui mi ha sempre risposto: “Ho metodo e regola”. Al di là di un cuore molto forte, ha risorse incredibili. Penso che a questo abbia contribuito anche il fatto che tutto il mondo pregava per lui».
Torniamo al 14 febbraio. Come si è convinto a ricoverarsi?
«Stava male da giorni, però resisteva perché probabilmente voleva rispettare gli impegni del Giubileo. Quando ha cominciato a respirare sempre più faticosamente ha capito che non poteva più aspettare. È arrivato al Gemelli tanto sofferente, ma forse anche un po’ contrariato. In poche ore però ha riacquistato il buon umore».
E una mattina lei l’ha salutato con un buongiorno Santo Padre, lui le ha risposto buongiorno Santo Figlio.
«È successo ed era il suo umorismo, ma soprattutto la dimostrazione del suo animo umano. Lo dice spesso: “Sono ancora vivo” e subito aggiunge: “Non si dimentichi di vivere e mantenere il buon umore”. Lui ha il fisico affaticato, ma la testa è quella di un cinquantenne.
Che cosa è successo?
«Appena ha cominciato a sentirsi meglio ha chiesto di andare in giro per il reparto. Gli abbiamo chiesto se voleva che chiudessimo le stanze dei degenti ma lui al contrario ha cercato lo sguardo degli altri pazienti. Si è mosso con la carrozzina, un giorno è uscito dalla stanza cinque volte, forse anche di più. E poi c’è stata la sera
della pizza».
In che senso?
«Ha dato i soldi a uno dei collaboratori e ha offerto la pizza a chi lo aveva assistito quel giorno. È stato un miglioramento continuo e ho capito che aveva deciso di tornare a Santa Marta quando, una mattina, mi ha detto: “Sono ancora vivo, quando torniamo a casa?”. Il giorno dopo si è affacciato alla finestra, ha cercato il microfono e si è rivolto alla signora con i fiori gialli».
Il Papa sapeva che molti credevano fosse morto?
«Sì, è sempre stato informato di quello che accadeva e ha sempre reagito con la solita ironia».
C’è una sensazione che ricorda in particolare?
«Quando — nel periodo più difficile — mi stringeva la mano per qualche minuto come a cercare conforto».
Voi avete prescritto due mesi di convalescenza «protetta», vuol dire che il pericolo non è passato?
«Sicuramente in questa fase ha delle prescrizioni che dovrebbe osservare, come evitare contatti con gruppi di persone o con i bambini che possono essere veicolo di nuove infezioni. Quando è andato via ci siamo parlati e promessi di non sprecare la fatica fatta. Però lui è il Papa, non siamo noi a poter dettare i comportamenti».

(da Il Corriere della Sera)

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IL CASO YEMEN SCUOTE GLI USA: “SICUREZZA A RISCHIO, ORA QUALCUNO DEVE PAGARE”

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

LA FIGURA DI MERDA DI TRUMP: “NON NE SO NIENTE”

La condivisione in una chat con un giornalista di dettagli sugli attacchi agli Houthi sconvolge l’establishment. Democratici all’attacco: «Ora un’indagine completa»
Dear Sweet Baby Jesus. «Santi numi». La reazione incredula di un ex alto funzionario della Casa Bianca alla Cnn rende l’idea dello shock dell’establishment Usa alla notizia che piani militari del Pentagono sono stati allegramente condivisi in una chat dov’era stato erroneamente inserito pure un giornalista, il direttore
dell’Atlantic Jeffrey Goldberg. Una leggerezza costata «solo» una figuraccia internazionale alla Casa Bianca, ma che avrebbe potuto ingenerare rischi reali per le truppe americane, concordano analisti ed ex funzionari di governo. Perfino la Fox – vicinissima all’Amministrazione Trump – non può fare a meno di dare copertura all’inquietante vicenda. Condividendo in una conversazione su Signal i dettagli operativi dell’attacco a venire contro gli Houthi in Yemen, J.D. Vance, Mike Waltz, Pete Hegseth e gli altri pezzi grossi dell’Amministrazione «hanno infranto qualsiasi procedura umanamente sulla protezione di materiale operativo prima di un attacco militare: è un totale collasso di sicurezza», commenta incredulo ancora alla Cnn un ex dirigente dell’intelligence Usa.
Il risveglio dei Democratici: «Ora fare chiarezza»
Leon Panetta, ex capo del Pentagono e direttore della Cia, ci mette la faccia e passa alle conclusioni: «Ora qualcuno deve essere licenziato». La pensano allo stesso modo nel Partito Democratico, uscito malridotto dalle elezioni di novembre scorso e che ora prova a rialzare la testa. «Questo tipo di violazioni della sicurezza è il mondo in cui la gente viene ammazzata, in cui i nostri nemici si avvantaggiano e la nostra sicurezza nazionale viene messa in pericolo. Questa gente non è chiaramente all’altezza del lavoro. Serve un’inchiesta completa su come ciò sia potuto accadere e sui danni creati», attacca a testa bassa il leader della minoranza al Senato, Chuck Schumer. Incredula pure Hillary Clinton, che fu fatta a pezzi da Trump e dai suoi anni fa proprio per una presunta fuga di notizie riservate dalla sua e-mail di segretaria di Stato.
La reazione di Trump e i conti interni
Dalla Casa Bianca, per il momento, si fa buon viso a cattivo gioco. «Non ne so nulla, comunque l’Atlantic non mi piace per nulla, è una rivista fuori mercato», replica alla domanda di un cronista Donald Trump, che dice di apprendere del caso in quel preciso momento. Il che può lasciar intendere che i conti «interni» verranno regolati. Può il leader repubblicano tollerare una figuraccia interna e internazionale del genere? E come prenderà la palese dissociazione da una scelta di politica estera Usa fatta in quella chat dal vice J.D. Vance, che ai colleghi dice a più riprese di non condividere affatto la scelta di bombardare gli Houthi («nessuno ha idea di chi siano»; «odio fare un favore all’Europa»)? Si vedrà nei prossimi giorni. Per ora a far scudo al capo della Casa Bianca interviene la portavoce Karoline Leavitt. «Come ha detto il presidente Trump, gli attacchi contro gli Houthi sono stati molto efficaci e di successo. Il presidente continua ad avere la massima fiducia nel suo team per la sicurezza nazionale, incluso il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz», fa sapere in serata Leavitt. Difficile finisca qui.
(da agenzie)

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I LAVORATORI ITALIANI SONO SEMPRE PIU’ POVERI: DAL 2008 IL POTERE D’ACQUISTO E’ SCESO DEL 9%

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

IL NOSTRO E’ IL PAESE CHE FA PEGGIO TRA QUELLI DEL G20

L’Italia è il Paese del G20 dove i salari hanno subito la più forte perdita di potere d’acquisto dal 2008 a oggi: -8,7%. Negli stessi anni, il potere d’acquisto dei francesi è aumentato del 5%. Quello dei tedeschi del 15%. A sottolineare la situazione impietosa delle retribuzioni italiane è il rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), che confronta il nostro Paese con il resto del mondo – esclusa la Cina – e il G20. Dai grafici è evidente che il potere d’acquisto degli italiani tra il 2006 e il 2024 non è mai cresciuto più di quello nelle aree comparate. Molto spesso non è cresciuto affatto, anzi è diminuito. L’unica eccezione è costituita dal 2021, del tutto insufficiente a colmare un divario abissale. Così come non lo è l’aumento del potere d’acquisto visto negli ultimi tre anni (2021-2024) che rispetto al periodo precedente fa segnare un timidi +2,3%.
Perché i salari italiani non cresconoù
La spiegazione del rapporto è chiara: il salari italiani non tengono il passo dell’inflazione. E difficilmente lo faranno se non verranno modificati diversi elementi strutturali correlati tra loro: la dimensione ridotta delle imprese, la bassa propensione all’innovazione e agli investimenti, la bassa produttività, la mancata formazione dei lavoratori. C’è però un barlume di speranza: negli ultimi tre anni, la produttività è cresciuta più delle retribuzioni, per la prima volta da 22 anni. Significa che c’è uno spiraglio economico grazie al quale per investire, aumentare gli stipendi e dare respiro agli italiani schiacciati dal crescente costo della vita.
I problemi dei contratti collettivi di lavoro
Tuttavia, analizzano gli esperti dell’Oil, quando gli aumenti sono avvenuti tramite il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, che nel nostro Paese coprono il 90% dei lavoratori dipendenti, non sono stati sufficienti. Ciò avviene anche perché l’indice dei prezzi utilizzato nel rinnovo dei contratti – l’Ipca – non tiene conto dei beni energetici. Ovvero quelli che negli ultimi anni hanno determinato buona parte degli aumenti dei prezzi. Il rapporto evidenzia come la risposta dei Paesi in cui è previsto un salario minimo legale – come Spagna, Francia e Germania – è stata spesso migliore di quella italiana.
I divari per le donne, gli stranieri e i giovani
Infine, il documento mette in luce come in Italia continuino a persistere differenze salariali tra lavoratori di diversi generi, età e nazionalità. Il divario penalizza in particolare i lavoratori stranieri, le donne e i giovani. Nello specifico, il salario mediano degli stranieri è inferiore del 26% rispetto a quello degli italiani che svolgono le stesse mansioni. Le donne percepiscono retribuzioni più basse, spesso costrette al part-time. Anche i giovani, soprattutto i più qualificati, guadagnano meno rispetto ai loro coetanei in altri Paesi avanzati.
(da agenzie)

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IMMIGRAZIONE ADDIO, LA PRIMA PREOCCUPAZIONE DEGLI ITALIANI (E DEGLI EUROPEI) ORA E’ IL COSTO DELLA VITA

Marzo 25th, 2025 Riccardo Fucile

EUROBAROMETRO FOTOGRAFA IL CAMBIO DI PRIORITA’ DEI CITTADINI

Il mondo cambia, le narrazioni pure, e così le percezioni dei cittadini. C’è stata
un’epoca, non lontana, in cui la più grande preoccupazione degli elettori italiani ed europei pareva essere quella dell’immigrazione. L’afflusso record di richiedenti asilo dalla Siria in guerra civile da un lato (Est) e gli sbarchi di disperati del continente africano verso Lampedusa dall’altro (Sud), cavalcati da più di un “imprenditore politico”, avevano imposto nello scorso decennio con forza il tema all’opinione pubblica. Non che la sfida sia scomparsa dall’orizzonte, o che leader di molti Paesi non ci puntino ancora, ma all’alba del 2025 i cittadini sembrano avere altro per la testa: in Europa, e ancor più in Italia. Secondo i dati del nuovo Eurobarometro pubblicati questa mattina, appena il 13% degli italiani cita il dossier «migrazione e asilo» in testa all’agenda delle priorità di cui vorrebbe che l’Ue si occupasse. Fanalino di coda: l’ultimo tra tutti. Il messaggio per Giorgia Meloni, impegnata a tenere a galla il progetto Albania ma pure attenta a scrutare il sentiment degli elettori, non potrebbe essere più chiaro.
La preoccupazione di gran lunga prevalente nella testa degli italiani è quella del costo della vita. È la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi l’Ue – tecnicamente nei termini del sondaggio, il Parlamento europeo – secondo il 43% degli italiani. La seconda – non si scappa – è il sostegno all’economia e la creazione di posti di lavoro (37%). E appena dopo, insieme alla questione difesa, viene la richiesta di occupasi di lotta alla povertà (26%). Un appello chiarissimo, insomma.
Il pessimismo sul futuro degli europei
Nel fare spallucce al tema dell’immigrazione l’Italia si pone «all’avanguardia» in Ue, dove la media di chi la cita tra i dossier rilevanti per l’agenda pubblica (del Parlamento europeo, se non altro) è un po’ più alta, al 22%. Ma l’inversione di tendenza sulle priorità è un fatto anche a livello continentale.
Nell’Eurobarometro diffuso oggi – realizzato a gennaio su un campione di oltre 26mila cittadini europei – l’inflazione e il costo della vita sono citate come preoccupazione n° 1 in maniera netta anche in media Ue (43%). Seguono la lotta alla povertà e la difesa e sicurezza dell’Ue (il sondaggio è stato realizzato prima che deflagrasse la preoccupazione per il disimpegno militare Usa e dei conseguenti piani di riarmo Ue). A confermare il pattern di preoccupazione principale sul fronte economico, e anche un certo mood “fatalista”, sono anche le risposte fornite dagli europei alla domanda chiave sul futuro. «Pensi che il tuo standard di vita migliorerà o peggiorerà nei prossimi cinque anni?». Peggiorerà, risponde adombrato un europeo su tre (33%). Resterà invariato, pensa poco più della metà (51%). Così che a vedere luce nel futuro – standard migliori di oggi – è appena il 14% degli intervistati. Interessante notare, a questo proposito, che gli italiani – spesso dipinti come tali – non emergono affatto come i più pessimisti. Per oltre tre quarti di loro (76%) le cose continueranno semplicemente ad andare così come già vanno. «Solo» l’11% la vede grigia. Chi invece ha pessime sensazioni sul futuro sono ora i cittadini dei due colossi
dell’Ue: Francia e Germania. Nel Paese di Macron vede un peggioramento in arrivo oltre la metà degli intervistati, in quello (quasi) di Merz appena meno.
L’Unione fa la forza
Di fronte alle preoccupazioni di questa nuova complicata era globale, comunque, una forte maggioranza di cittadini vuole vedere un’Ue più forte e incisiva. È questo l’altro dato di rilievo messo in luce dall’Eurobarometro d’inizio 2025. Due terzi degli europei (66%) vogliono che l’Ue s’assuma un ruolo maggiore nel «proteggerli dalle minacce», e la percentuale aumenta tra i giovani. Il 76% si rende conto che per poterlo fare l’Ue ha bisogno di maggiori risorse, e vorrebbe dunque che gli Stati gliene accordassero di più. Il 74% pensa che il proprio Paese abbia beneficiato dal fatto di essere un membro dell’Ue – e i «registi» dell’Eurobarometro fanno notare come questa sia la percentuale più alta mai registrata da quando (1983) viene posta ai cittadini tale domanda. Infine, ed è la percentuale più «bulgara» di tutto il sondaggio, l’89% crede che gli Stati membri debbano agire in modo più unito e compatto per far fronte alle sfide globali. Tanti piccoli messaggi nella bottiglie per i leader europei che si trovano a navigare la fase forse più difficile e incerta da quando esiste l’Ue, tra dazi, disimpegno militare Usa e guerre alle porte.

(da agenzie)

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