Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
“DA UN LATO VOGLIONO FAR APPARIRE UN PROBLEMA CHE NON ESISTE, DALL’ALTRO REPRIMERE IL DISSENSO”…. CRITICI ANCHE I PENALISTI
Si riaccende lo scontro tra magistrati e governo. Dopo la riforma della giustizia, è il decreto Sicurezza, approvato venerdì dal Cdm, ad aprire un nuovo fronte di tensioni. L’Associazione nazionale magistrati ha bocciato il provvedimento che ha preso il posto del ddl approvato alla Camera e in corso di esame al Senato.
“È inquietante il messaggio del decreto, sembra avere solo un duplice obiettivo: da una parte, creare nella collettività un problema che non esiste, perché non mi pare che ci sia alcun allarme sociale o alcuna questione emergenziale legata all’ordine pubblico; dall’altra, tentare di porre le basi per la repressione del dissenso”, ha dichiarato il segretario dell’Anm Rocco Maruotti durante la riunione del Comitato direttivo centrale dell’Associazione. “Credo porterà a non pochi problemi interpretativi e applicativi”, ha aggiunto il presidente Cesare Parodi– “È un documento che non ha mezze misure, interviene su alcuni settori di ordine pubblico, accontentando un po’ il desiderio di una parte della cittadinanza, ma è un provvedimento per certi aspetti molto restrittivo e punitivo, che quindi ovviamente susciterà sentimenti opposti”.
Nonostante le limature su alcune disposizioni del testo (dal carcere per le donne incinte al divieto di acquistare una sim per i migranti), il sindacato delle toghe ha criticato il decreto e il prossimo 15 aprile incontrerà il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a cui esporrà le sue preoccupazioni. Critiche al decreto arrivano anche dai penalisti, secondo cui “restano di fatto tutte le criticità del ‘pacchetto sicurezza’ relative alla inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, ai molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, alla introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, alla criminalizzazione della marginalità e del dissenso”.
(da agenzie)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DEL TG1, PRIMO REFERENTE DELLA DUCETTA IN RAI, E’ RIMASTO BASITO DAVANTI ALL’”EDITORIALE” DEL VESPONE A “CINQUE MINUTI”: “DAZI? PER IL CONSUMATORE ITALIANO NON CAMBIA NULLA; SE LA PIZZA A NEW YORK PASSERÀ DA 21 A 24 EURO NON SARÀ UN PROBLEMA”. MA HA TOCCATO IL FONDO QUANDO HA RIVELATO CHI È IL VERO COLPEVOLE DELLA GUERRA COMMERCIALE CHE STA MANDANDO A PICCO L’ECONOMIA MONDIALE: È TUTTA COLPA DELL’EUROPA CON “GLI STUPIDISSIMI DAZI SUL WHISKEY AMERICANO’’
Vabbe’, ha girato la boa degli 80 anni, ma qualcosa di grave sta stravolgendo i neuroni
di Bruno Vespa. Il giornalista abruzzese, pupillo per decenni del moderatismo democristiano del suo conterraneo Gianni Letta, che ormai ne parla malissimo con tutti, ha fatto sobbalzare perfino quell’abilissimo e scafatissimo navigatore del potere romano che è Gianmarco Chiocci.
Il direttore del Tg1, diventato negli ultimi tempi primo referente di Giorgia Meloni nel palazzo della Rai, scalzando l’imbelle Gianpaolo Rossi, rivelatosi inadeguato a gestire le jene alla Marano del baraccone della propaganda governativa, è restato basito assistendo a un vero e proprio editoriale. arricchito di punti di demenza, dedicato all’entrata in vigore delle tariffe americane nello spazio post-Tg1, “Cinque minuti”.
Mentre il suo telegiornale, davanti al tracollo delle Borse e agli allarmi delle imprese per il dazismo senza limitismo di Trump, si è limitato a scodellare un’intervista alla Ducetta, senza aggiungere alcun commento, il Vespone ha prima mandato in onda una mediatica dose di Xanax: “Per il consumatore italiano non cambia nulla; se la
pizza a New York passerà da 21 a 24 euro non sarà un problema”.
Fottendosene che i dazi colpiranno anche l’export della Vespa a due ruote coniugata Piaggio, il Vespa bipede ha toccato il fondo quando nel finale ha rivelato chi è il vero colpevole della guerra commerciale che sta mandando a picco l’economia mondiale: è tutta colpa dell’Europa con “gli stupidissimi dazi sul whiskey americano’’! E quello psico-demente con ciuffo trapiantato color arancione, ditemi voi?, che doveva fare davanti a tanto oltraggio alcolico? Poverino, è stato costretto a rispondere…
Comincia a diventare avvincente, con veri e propri casi di virtuosismo, lo spettacolo “Non è successo niente”, che vede i governanti italiani minimizzare gli effetti dei dazi di Trump sull’economia mondiale (quella americana compresa).
Magnifico, al Tg2, il fratello d’Italia Scurria (una new entry, si direbbe) che, con il volto terreo, dichiara che ‘’il governo è impegnato a evitare guerre commerciali’’, come se nessuno lo avesse avvertito che la guerra già divampa e le Borse hanno accolto i dazi con lo stesso ottimismo con il quale accolsero il Covid.
(da Dagoreport)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
STEVE RATTNER, EX CAPO DELLA BANCA “LAZARD”, BOCCIA TRUMP SU TUTTA LA LINEA: “NON HO MAI VISTO UN DISASTRO SIMILE NEI 50 ANNI CHE HO VISSUTO NEL CUORE DELLA FINANZA” …MENTRE LE BORSE BRUCIANO MIGLIAIA DI MILIARDI, DONALD TRUMP SI RILASSA GIOCANDO A GOLF A MIAMI
Stephen Schwarzman, capo del gigante finanziario Blackstone, è stato il più convinto sostenitore di Donald Trump nel mondo di Wall Street. Tra giovedì e venerdì, in quelli che sono stati due dei giorni più disastrosi della storia del capitalismo (distrutta ricchezza per 6.600 miliardi di dollari, tre volte il Pil dell’Italia), il gruppo del fedele scudiero del presidente ha perso addirittura il 15% del suo valore.
Trump ha fatto male i suoi calcoli e ora, spaventato, medita una mezza marcia indietro mascherata da vittoria? O, sentendosi ormai il «messia» che apre una nuova era, andrà avanti a oltranza? Prevedere le reazioni di un leader che si vanta di avere nell’imprevedibilità un suo punto di forza è arduo, ma ci sono buoni motivi per ritenere che seguirà la seconda strada: guerra commerciale col resto del mondo anche se i mercati, da lui in passato sempre rispettati, lo stanno bocciando.
Non sembra curarsene: era stato avvertito che, imponendo dazi, avrebbe seminato il panico tra investitori e imprese. Ma lo ha fatto lo stesso. E dopo i crolli ha rilanciato sulla sua rete social: «Sofferenze nel breve periodo, ma alla fine otterremo risultati storici per l’America e le sue imprese». E, poi, a caratteri cubitali: «Questa è una rivoluzione economica».
giornalisti che chiedono alla Casa Bianca se il presidente cambierà rotta si sentono rispondere che Trump tirerà dritto, qualunque sia l’umore dei mercati, perché sta semplicemente attuando la politica che aveva annunciato nei comizi prima del voto: sta, quindi eseguendo la volontà del popolo.
Steve Rattner, ex capo della banca Lazard e della task force che salvò l’industria Usa dell’auto durante la presidenza Obama, è lapidario: «Mai visto un disastro simile nei 50 anni che ho vissuto nel cuore della finanza. Ed è stato un disastro chiaramente
annunciato». Tutto ciò accade perché Trump non sta ragionando in termini economici ma in termini politici, seguendo una visione autoritaria, imperiale, alimentata da almeno tre ordini di distorsioni che, annidiate da anni nella sua psicologia, sono state trasmesse anche a buona parte dell’opinione pubblica americana.
Così, innanzitutto è arrivata la resa dei conti sulle falsità che il presidente ha impunemente diffuso per anni. Sono entrate nel sistema linfatico del Paese cambiando la stessa natura del dibattito politico. Quando, poi, dalle falsità politiche, Trump è passato a prendere decisioni economiche estreme sulla base di dati falsi, è arrivato il crollo.
E lui, circondato solo da fedelissimi accondiscendenti, visto che tutti i «conservatori responsabili» della prima era Trump sono stati epurati, ha seguito i suoi istinti più estremi. Trasferendo (terzo elemento), le sue ossessioni e i rancori per essersi sentito sottovalutato e ingiustamente osteggiato per anni, dalla sfera degli Usa a quella planetaria: il ruolo svolto dagli Stati Uniti nel Dopoguerra, sicuramente costoso per quanto riguarda la difesa militare dell’Occidente, ma anche vantaggioso in termini di leadership economica e di «regno» del dollaro, è diventato, nella sua narrativa avvelenata, la storia di un’America umiliata e sfruttata dagli altri Paesi, soprattutto quelli amici. Un’ingiustizia che i suoi predecessori hanno tollerato: solo lui ha avuto gli attributi per denunciarla e troncarla.
Davanti ai suoi insuccessi diplomatici (soprattutto Putin e Israele che continuano ad andare per la loro strada nei conflitti che Trump aveva promesso di far cessare immediatamente) e ai disastri economici, Trump cambierà rotta? Può darsi: davanti al disastro gli imprenditori cominceranno a farsi sentire, mentre repubblicani fin qui allineati e pressoché silenziosi, cominciano ad agitarsi.
Qualcuno chiede di limitare i poteri del presidente mentre il senatore del Texas Ted Cruz parla di «bagno di sangue» per il suo partito alle elezioni di mid term del prossimo anno se la guerra commerciale di dazi e contro dazi durerà per altri 90 giorni.
Ma quello che continuiamo a vedere è un Trump «imperiale» non solo negli atteggiamenti politici, ma anche nella sua volontà di trasformare il capitalismo, col dominio delle forze di mercato, sostituito da un controllo economico esercitato dal centro.
Un modello oligarchico nel quale ha mostrato fin qui di trovarsi bene anche Elon Musk mentre il suo «gemello» della Silicon Valley, Peter Thiel, vede avvicinarsi il traguardo che aveva indicato tre anni fa: spazzare via la «gerontocrazia delle banche centrali» e di un sistema finanziario tradizionale: per lui un ostacolo allo sviluppo della nuova era delle valute digitali.
Incurante del terremoto finanziario creato dai suoi dazi, il presidente americano ha deciso di dedicarsi al suo sport preferito: il golf. Giovedì scorso Donald Trump è atterrato a Miami, in Florida, dove ha partecipato a un torneo finanziato dai sauditi e poi si è trasferito nella vicina Mar-a-Lago, la sua magione a Palm Beach, dove ieri si è preso anche la soddisfazione di vincere il secondo turno della Senior Club Championship presso il suo Trump National Jupiter club. E non è finita qui.
Oggi il presidente sarà impegnato nel Championship Round. Questo è il terzo torneo cui Trump partecipa durante il suo secondo mandato e ha vinto i primi due trofei. Ma non è detto che i suoi elettori apprezzino
(da agenzie)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
L’EX PROCURATORE DI PAVIA ARCHIVIO’ LA PRIMA INDAGINE SU SEMPIO E MINIMIZZO’ IL REATO DELL’ASSESSORE LEGHISTa CON CUI SCAMBIAVA MESSAGGI
“Non ne so nulla”. È il commento all’AGI dell’ex procuratore di Pavia Mario Venditti in
relazione agli accertamenti nei suoi confronti che, secondo quanto rivelato da Il Giornale, starebbe svolgendo la Procura di Brescia (competente per i reati commessi da magistrati pavesi).
Il nuovo procuratore di Pavia Fabio Napoleone e i suoi pm starebbero infatti rileggendo in profondità buona parte degli atti compiuti prima del loro arrivo, quando a guidare l’ufficio c’era il procuratore Mario Venditti.
Il magistrato, che mentre indagava sul caso dell’assessore Adriatici era finito al centro delle polemiche per dei messaggi scambiati con il leghista e nel 2017 aveva deciso di archiviare la prima indagine su Andrea Sempio per il delitto di Chiara Poggi a Garlasco oggi è in pensione, ed è stato nominato presidente del Casinò di Campione d’Italia.
Ma per chi indaga oggi, proprio Venditti sarebbe stato al vertice di una dubbia gestione dei fondi a disposizione della Procura di Pavia, soprattutto per quanto riguardava le intercettazioni telefoniche, insieme a una squadra di collaboratori fidati. Un “sistema particolarmente radicato” che, stando ai sospetti degli inquirenti, per anni a Pavia avrebbe legato magistrati, politici, imprenditori e carabinieri.
Non solo caso Garlasco, insomma. Sempre secondo Il Giornale, l’inchiesta su Venditti sarebbe partita da un’altra indagine che nel novembre scorso aveva portato la Guardia di finanza ad arrestare due carabinieri che all’epoca della gestione Venditti ricoprivano ruoli di primo piano: il comandante del nucleo investigativo Maurizio Pappalardo e il maresciallo Antonio Scoppetta, in servizio proprio alla sezione di polizia giudiziaria della Procura.
(da agenzie)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
LA RIVALITA’ CON LAVROV E UN A MISSIONE SEGRETA: “ALLUNGARE LA TRATTATIVA CON TRUMP PER POI AVERE CARTA BIANCA CONTRO L’UCRAINA”
Quando Sergei Lavrov ha visto che al tavolo delle trattative con gli americani c’era una sedia anche per Kirill Dmitriev, l’ha tolta stizzito: “Se vuol partecipare, che sia Vladimir Vladimirovich (Putin, ndr) a dirmelo”, è stato il commento del ministro degli Esteri della Federazione Russa.
La scena è descritta dalla testata giornalistica indipendente Agentsvo, che cita una persona a conoscenza di quel che è avvenuto a Riad il 18 febbraio scorso tra i marmi verdi e ocra della sala del palazzo di Diriyah, culla della casa dei Saud e del wahabismo, sede del negoziato tra russi e americani.
Fanpage.it non ha potuto verificare i fatti. Alcuni video e foto documentano però che Dmitriev non viene presentato ai mediatori sauditi. Lavrov e l’assistente presidenziale per la politica estera, Yury Ushakov, se lo lasciano alle spalle. Nelle immagini ufficiali, solo loro due siedono di fronte al Segretario di Stato Usa Marco Rubio, al Consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz e all’inviato speciale del presidente Trump Steve Whitkoff. Nell’unico scatto che vede Dmitriev a colloquio con i tre statunitensi, Lavrov e Ushakov sono assenti.
Uno di troppo
La delegazione doveva effettivamente essere di due persone. Dmitriev è l’amministratore delegato del Fondo sovrano per gli investimenti diretti (Rdif), niente a che vedere con la diplomazia. Ma è amico di Putin. Gli ha chiesto di potersi
aggiungere. Il presidente gli ha detto sì e non ha avvertito Lavrov, secondo la fonte di Agentsvo. Comunque sia andata, questo modo di gestire la comunicazione con i collaboratori è tipico del leader del Cremlino. Che sa bene come il rapporto diretto col capo sia la vera fonte di ogni potere in Russia. E tiene i suoi boiari sulle spine, anche mettendoli l’uno contro l’altro. Unico arbitro di ogni disputa, ottiene così il massimo della dedizione e della fedeltà.
Sedie e poltrone
“Certo che Lavrov sarà arrabbiato, per l’intrusione di Dmitriev al top della politica estera”, commenta a Fanpage.it l’ex diplomatico russo Boris Bondarev. Roba da dimissioni? “Non a Mosca”, risponde Bondarev. E fa un esempio di pochi giorni fa, quando Putin ha detto che il suo portavoce Dmitri Peskov “nesiot purgu”, ovvero “spara cavolate”. Mica bello dirlo al tuo portavoce. Ma Peskov ha ingoiato senza fiatare. “A quei livelli del regime, tutti sono aggrappati alle loro poltrone e ai loro privilegi: Putin può dir loro qualsiasi cosa, e farne quel che vuole, nessuno si lamenterà”, spiega l’ex diplomatico. Che personalmente si è lamentato eccome. Dopo l’invasione dell’Ucraina si è dimesso dalla missione permanente russa presso l’ufficio Onu di Ginevra, scegliendo l’esilio.
La missione a Washington
Kirill Dmitriev è stato inviato a Washington per colloqui con Whitkoff. Ha incontrato anche Rubio. Prima visita ufficiale russa in America dall’inizio della guerra. “Dinamica positiva e passi avanti”, ha detto alla Tass, a Fox News e ad altri alla fine della sua due giorni. In realtà non si è arrivati a niente di concreto. Possibile ripresa dei voli tra gli Usa e la Federazione, pare. E nemmeno si è d’accordo sulla rotta. Sulla missione di Dmitriev, il ministero degli Esteri russo (Mid) non ha proferito parola. L’ineffabile Peskov si è limitato a dire che si continua comunicare con gli Usa “attraverso vari canali”. E questo è un problema: Putin di fatto ha incaricato due squadre rivali di negoziare con Washington.
Versioni contrastanti
Non stupisce che sui colloqui le versioni siano contrastanti. Dopo la telefonata tra Trump e Putin, la Casa Bianca ha dichiarato che la strada per la pace sarà aperta “dalla fine degli attacchi a centrali elettriche e infrastrutture”, mentre il Cremlino ha affermato che Putin sosteneva solo una pausa di 30 giorni limitata agli obiettivi energetici. Dopo l’incontro del 24 marzo a Riad, la Cbs aveva annunciato un’imminente dichiarazione congiunta. Poco dopo, la smentita di Peskov: “ colloqui solo tecnici”. Tuttavia, la Casa Bianca ha comunicato un accordo per una tregua parziale nel Mar Nero. In seguito, il Cremlino ha diffuso la sua versione, legando qualsiasi intesa all’avvio dell’alleggerimento delle sanzioni, incluso il ripristino
dell’accesso della banca statale Rosselkhozbank al sistema internazionale Swift.
Delegazioni parallele
“Non ci sono veri negoziati: solo incontri sporadici e bilaterali, senza un processo strutturato né un’agenda chiara”, sostiene Boris Bondarev. “Nessuno sa davvero di cosa si discute. Una trattativa seria richiede un capo negoziatore con potere decisionale. Due negoziatori su binari paralleli non funzionano: indicano solo la mancanza di una reale volontà di arrivare a qualcosa. È un modo per prendere tempo”, continua l’ex feluca di Putin. “Non è chiaro nemmeno se Dmitriev si sia coordinato con il ministero degli Esteri. Lavrov sa cosa dice Dmitriev? Altrimenti, emergeranno contraddizioni e gli americani non sapranno a chi dare credito”. L’obiettivo di Putin sembra proprio quello di trascinare questa strana trattativa il più a lungo possibile. Mosca tenta di raggiungere i suoi obiettivi grazie alle armi più che alle cancellerie. La scelta di Dmitriev per attuare questa tattica ha una logica. E non è solo quella di proporre a Trump un russo “americanizzato”, un ex investment banker di Goldman Sachs ed ex consulente della fucina di top manager McKinsey, uno che sa in parlare di business come vuole la visione politica “transazionale” del presidente Usa.
Fedele alla linea
Kirill Dmitriev, 50 anni, ha studiato a Stanford e a Harvard e ha lavorato in Occidente prima di far carriera in Russia. Ma vi ha lavorato poco e a livelli bassini, stando a quanto ricostruito sull’edizione russa del Moscow Times dall’esperta di compliance finanziaria Natalia Mikhina di “Trasparenza internazionale della Russia”. Descritto dai media di Stato come intellettuale preparato, manager efficace e grande negoziatore, deve probabilmente il suo successo alla moglie, amica di una delle figlie di Vladimir Putin. Mikhina lo ritiene papabile per il posto di ministro degli Esteri quando Putin deciderà di mandare in pensione Lavrov. Non è un liberale cosmopolita, ma un componente del regime di stretta osservanza. Non sgarra di una virgola rispetto alla narrativa anti-occidentale, sostiene Boris Bondarev. Che ha avuto a che fare con lui.
Il vaccino mai certificato
Durante la pandemia, Dmitriev era incaricato di gestire la certificazione presso l’Oms del vaccino Sputnik V, finanziato dal fondo da lui guidato. Per farlo, si servì di Bondarev e degli altri diplomatici della missione russa all’Onu di Ginevra. Mettendola in serio imbarazzo. Perché invece del dossier richiesto — previsto da regole approvate anche dalla Russia —inviò solo una lettera autocelebrativa, senza i necessari documenti tecnici. Di fronte alla richiesta di chiarimenti, rispose con accuse contro la russofobia dell’Occidente. Risultato: nessuna certificazione. “Non certo per
colpa dell’Oms”, dice Bondarev che ha raccontato la vicenda su Substack. “Ma per l’idea — oggi prevalente a Mosca — che l’Occidente prima o poi si deve piegare alla potenza della Russia”
Dmitriev non è immune all’endemica corruzione che affligge il suo Paese, affermano più investigazioni giornalistiche. Reuters e Vedomosti hanno raccontato come il fondo Rdif abbia acquistato un jet Gulfstream appartenente all’amico di Putin Gennady Timchenko, in pratica “riciclandolo”, dopo sanzioni personali imposte su di lui. Sobesednik ha scoperto che il Rdif collaborava con l’azienda della moglie di Dmitriev, Natalia Popova, legata strettamente a Katerina Tikhonova, figlia di Putin. Un’inchiesta di Vazhnye Istorii ha coinvolto Dmitriev in una fuga di documenti confidenziali con Kirill Shamalov, ex genero di Putin, riguardanti trattative riservate su “Rostelecom”. Un’inchiesta del progetto Arktida ha rivelato legami tra il fondo di Dmitriev e una società australiana che pagava tangenti per licenze e affari in Russia. Con il sostegno della famiglia di Svetlana Radchenko, vice-ministro delle risorse naturali. Pratiche che hanno causato gravi danni ambientali in Chukotka.
L’inchiesta di Navalny
Ma l’inchiesta più interessante resta quella del fondo-anticorruzione di Alexei Navalny. Che a Kirill Dmitriev ha fatto i conti in tasca. Solo il patrimonio immobiliare ammonta a 7,5 miliardi di rubli. Circa 110 milioni di euro. Non mancano le ville a Courchevel e a Cap d’Antibes sulla Costa Azzurra, ovvio. E poi, appartamenti a Dubai e nelle zone più prestigiose di Mosca. Lo stipendio di Dmitriev come capo del Rdif è di 55 milioni di rubli l’anno, quasi 600mila euro. Mica male. Ma non basta, per tutto questo. È anche per aver messo le mani negli affari dei potenti, oltre che per esser stato il maggior oppositore politico di Putin, che Navalny è morto — o è stato ucciso — nel carcere più duro e remoto della Siberia. Dmitriev è sotto sanzioni da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia. L’Unione Europea non ne ha imposte.
Missione segreta
Putin sta scegliendo per le posizioni e le missioni più cruciali solo le persone a lui più vicine, affidabili anche in incarichi anomali. Se adesso mette la politica estera in mano a Dmitriev non è per abilità che il capo del Rdif probabilmente non ha, ma perché è assolutamente leale e legato al regime. Anche per motivi inconfessabili. Boris Bondarev sostiene che la sua vera missione è far perder tempo alle controparti, “intrattenendole” su aspetti economici che poco hanno a che fare con un processo di pace per l’Ucraina. Fino a quando Donald Trump, “alle prese con i problemi interni legati alla guerra mondiale commerciale scatenata dalla Casa Bianca e al crollo delle borse, non si stufi del dossier Ucraina”. Lasciando la Russia libera di potersi muovere
come meglio crede contro Kyiv.
(da Fanpage)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
L’AUTOPSIA CONFERMA LE ACCUSE AI CARCERIERI DI NETANYAHU
La fame, unita a gravi condizioni sanitarie non curate, sarebbe stata la causa principale
della morte del diciassettenne palestinese Walid Khaled Abdullah Ahmad, detenuto per sei mesi senza accuse formali in un carcere israeliano. È quanto emerge da un rapporto medico redatto dal chirurgo israeliano Daniel Solomon, che ha assistito all’autopsia su richiesta della famiglia del giovane.
Ahmad, morto il mese scorso dopo essere collassato nella prigione di massima sicurezza di Megiddo, presentava segni evidenti di malnutrizione estrema, atrofia muscolare, infiammazione intestinale e scabbia.
Il referto non indica una causa univoca del decesso, ma descrive un quadro clinico gravemente compromesso, compatibile con settimane, se non mesi, di deprivazione alimentare e cure mediche inadeguate.
Secondo quanto riferito da altri detenuti, il ragazzo avrebbe sofferto di diarrea acuta, vomito e vertigini nei giorni precedenti alla morte, e tali sintomi sarebbero stati deliberatamente ignorati dalle autorità israeliane, le stesse che avrebbero avuto l’obbligo di curare il 17enne.
Le condizioni potrebbero essere state aggravate dal consumo di cibo e acqua contaminati, distribuiti e lasciati all’aperto durante il digiuno del Ramadan. Una diagnosi postuma ipotizza la presenza di colite non trattata, una patologia potenzialmente letale se associata a malnutrizione e disidratazione.
L’autopsia, effettuata il 27 marzo presso l’Istituto forense di Abu Kabir, non ha ancora prodotto un rapporto ufficiale da parte delle autorità israeliane, che si sono limitate a comunicare l’avvio di un’indagine interna. Nel frattempo, la famiglia Ahmad attende il rilascio del corpo per poter procedere con la sepoltura.
“Era un ragazzo sano, amava il calcio e frequentava il liceo”, ha raccontato il padre, Khalid Ahmad, che ha visto il figlio per l’ultima volta tramite videoconferenza durante una breve udienza in febbraio, notando un evidente deterioramento fisico. La famiglia, assistita dall’avvocata Nadia Daqqa, spera che il rapporto medico possa spingere Israele a restituire il corpo del ragazzo.
Organizzazioni per i diritti umani, come Physicians for Human Rights Israel, denunciano un peggioramento drastico delle condizioni nelle carceri israeliane dall’inizio della guerra a Gaza. Secondo l’Autorità Palestinese, sono almeno 72 i
detenuti palestinesi deceduti dietro le sbarre, di cui 61 dall’ottobre 2023. Ahmad è la vittima più giovane finora documentata. “La sua morte è una tragedia che riflette l’assenza di tutela minima per la vita umana nelle prigioni israeliane”, ha dichiarato il padre, chiedendo giustizia per il figlio e per le decine di detenuti che ancora oggi affrontano condizioni disumane.
(da Fanpage)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
IL GIRO D’AFFARI È SALITO DAI 2,5 MILIARDI DEL 2017 AGLI 8,8 DEL 2024. TROVARE UNA CASA IN AFFITTO A LUNGO TERMINE È IMPOSSIBILE: I PROPRIETARI PREFERISCONO SCUCIRE MOLTI PIÙ SOLDI AI TURISTI PIUTTOSTO CHE ACCONTENTARSI DELLE “BRICIOLE” OGNI MESE
Se si guarda la mappa d’Italia attraverso gli occhi di un turista, sembra un paziente col morbillo: un Paese disteso pieno di puntini rossi. A ogni puntino corrisponde un alloggio in affitto su Airbnb. Più passa il tempo più i puntini aumentano: alla fine del 2024 erano 754mila, un totale di 3 milioni e passa di posti letto.
Ma la fotografia serve a poco. Per capire un fenomeno (e regolamentarlo) bisogna fare due cose: contarlo, come farebbero i bambini, e filmarlo nel tempo. Così Full, future urban legacy lab, centro studi del Politecnico di Torino, estraendo i dati dal database AirDna e seguendo l’evoluzione degli affitti brevi dal 2017 al 2024, ha provato a rispondere a una domanda: chi gestisce davvero il mercato Airbnb?
Secondo Francesco Chiodelli, professore di Geografia economico-politica e tra i responsabili scientifici dell’indagine, sono quattro i trend da tenere d’occhio per
sciogliere il quesito: «L’impressionante crescita quantitativa degli affitti brevi in sette anni, l’exploit nelle città in cui il mercato è ancora giovane, l’aumento esplosivo della redditività e l’espansione dei gestori professionali che si accaparrano ormai un’enorme fetta di ricavi».
Dimenticata la pandemia, lo scorso anno si è chiuso con il record di alloggi attivi per turisti: il 52 per cento in più del 2017. Ora, da città come Venezia o Milano, arrivano segnali d’arresto che i proprietari imputano alla burocrazia, alla stretta sulla sicurezza degli appartamenti o alla necessità del check-in in presenza.
La mappa non è omogenea ma intanto nascono nuove capitali dei b&b: se Roma guida la classifica degli annunci (47.094), la crescita più vertiginosa è al Sud. A Bari sono aumentati del 250 per cento, a Napoli del 98 per cento, a Catania del 90.
«Dove il mercato è più maturo — dice Chiodelli — la crescita è più contenuta; dove il fenomeno Airbnb è arrivato da poco c’è un exploit anche dei ricavi per appartamento: a Bari sono cresciuti del 236 per cento, a Palermo del 235».
Anche il numero di notti prenotate online è salito: il 50 per cento in più. Per non parlare delle tariffe, cresciute di un altro 50 per cento: il prezzo medio per una notte da turisti è di 167 euro. Ecco perché il giro d’affari si è impennato passando dai 2,5 miliardi del 2017 agli 8,8 miliardi del 2024 (+242 per cento). «Questa drastica crescita delle prestazioni — continua Chiodelli — va in conflitto con le altre forme di affitto e porta conseguenze radicali sul mercato immobiliare tradizionale: un alloggio per turisti è infinitamente più appetibile di uno residenziale».
Allora, se le case per i residenti diminuiscono, se nelle città cambia il mercato degli affitti, se le tariffe salgono, chi ne beneficia? Bisogna tornare a contare. Nel 2024 gli host, cioè i proprietari e gestori di case, erano 350mila. Nella maggior parte dei casi si tratta ancora di lavoratori che affittano la seconda casa per integrare il reddito. Al contrario i cosiddetti large host, cioè le agenzie che hanno più di dieci immobili, sono poco più dell’1,3 per cento. «Questo dato però non deve ingannare», ricorda Chiodelli.
Anzitutto, il numero di gestori professionali è cresciuto in sette anni in maniera più sostenuta: +77%. E, per quanto pochi, hanno in mano un quarto degli alloggi: 42 a testa in media. Inoltre, se nel 2024 ogni appartamento affittato su Airbnb da un large host fruttava annualmente 17.900 euro, un piccolo proprietario ne guadagnava solo 8.500. La fetta più piccola della torta degli host è riuscita così ad accaparrarsi 3,3 miliardi di euro sugli 8,8 miliardi di ricavi complessivi, il 38 per cento del totale.
(da agenzie)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
AVVISATE CARLO NORDIO, AMANTE DELLO SPRITZ: DURANTE I VIAGGI NEGLI USA SI DEVE PORTARE LE SCORTE
Nella nuova America terremotata dai dazi anche l’Happy Hour piange. Le previsioni dei
barman sono infatti particolarmente fosche perché già prima di annunciare i nuovi tributi, Trump — che è astemio e indulge solo in Diet Coke — lo scorso 13 marzo aveva ipotizzato tasse addirittura al 200% sulle bevande alcoliche prodotte nei paesi dell’Unione europea se questa non avesse cancellato una tassa pianificata sul whisky americano.
La Ue aveva risposto ritardandola fino a metà aprile, ipotizzando l’avvio di negoziati specifici. Ma l’introduzione della gabella al 20 per cento rende ora quella trattativa più complicata. Il consiglio degli esperti è brutale: fate scorta perché pure i cocktail (il prezzo medio fluttua dai 18 ai 25 dollari) affronteranno un’impennata di prezzi.
Colpa — proprio come per l’iPhone — del costo delle materie prime. I più ordinati al bancone hanno infatti come base liquori prodotti in Europa. Alternative all’aumento spropositato, scrive il Washington Post sarà eliminarli o inventarne di nuovi con prodotti locali.
A rischio estinzione nei mitici bar americani ci sono dunque soprattutto due formule italianissime che negli anni recenti hanno avuto immenso successo da questa parte dell’Oceano: il veneto Spritz, realizzato al 95% con prodotti d’importazione (Aperol e prosecco, il restante 5 è acqua tonica) e il Negroni composto al 64 per cento da Campari e Vermouth, con un restante 36 di gin che arriva dalla meno tartassata Gran Bretagna.
(da agenzie)
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Aprile 6th, 2025 Riccardo Fucile
MA IL PEGGIO NON È ANCORA PASSATO: DOMANI RIAPRONO LE BORSE E I MERCATI VIVONO L’INCUBO DI UN NUOVO CROLLO… A WALL STREET LE AZIONI TESLA, DEL MILIARDARIO KETAMINICO MUSK, SONO CROLLATE ANCORA DEL 15%
Come un uragano, i dazi di Trump si sono abbattuti sulle Borse globali. I mercati hanno sofferto tutta la settimana, penalizzati dall’incertezza per il futuro dell’economia.
L’annuncio del presidente Usa di mercoledì sera ha inferto un colpo sordo al mondo finanziario, provocando un crollo dei listini simile a quello dell’11 settembre. In Europa tra giovedì e venerdì sono stati bruciati 1.241 miliardi di capitalizzazione, come se si fosse volatilizzato il valore di Meta, una delle magnifiche sette della tecnologia Usa e tra le maggiori quotate al mondo.
Ad aggravare la situazione si sono aggiunti i controdazi cinesi e lo spettro di una stagflazione preannunciato dal presidente della Fed, Jerome Powell. E ora i mercati vivono l’incubo di un nuovo crollo. Domani riaprono le Borse e gli operatori guardano al vertice dei ministri del Commercio della Ue e alla possibile rappresaglia alla vigilia della partenza dei dazi bilaterali (mercoledì).
Nel frattempo si contano le perdite. Milano è stata la più penalizzata del Vecchio continente, con un calo di oltre il 10%. “Piazza Affari ha perso più delle altre Borse europee anche perché il peso delle banche rappresenta oltre un terzo della composizione dell’indice Ftse Mib, e per lo stesso motivo aveva guadagnato molto nei mesi precedenti”, spiega Orlando Barucci, presidente di Vitale & co. […]
L’Italia ha pagato anche il conto di un’economia basata sull’export, dove gli Usa sono un alleato storico e un importante mercato di sbocco. Un terremoto acuito dal calo del dollaro, voluto da Trump per mitigare il deficit. “Un dollaro debole penalizza una grande fetta dell’industria italiana – aggiunge Barucci – non solo chi esporta ma anche chi produce e fattura in valuta Usa, che vedrà i ricavi e i margini tradotti in euro diminuire”.
Wall Street non è stata da meno. La Borsa di New York ha perso in due sedute quasi cinque mila miliardi di dollari, trascinata al ribasso dai titoli delle aziende tecnologiche, comprese quelle i cui manager avevano presenziato all’insediamento di Trump: dall’introduzione dei dazi, Amazon ha perso il 13%, Meta il 14%, Alphabet
(Google) il 7% e Apple il 16%.
Tesla, la casa automobilistica fondata dal braccio destro del presidente Usa, Elon Musk, è crollata del 15%. La volatilità dei mercati avrebbe poi indotto anche alcune società, come Klarna e StubHub, a rimandare la loro quotazione, in attesa di tempi migliori.
Petrolio e oro, entrambi in calo
La tempesta non ha risparmiato neanche il petrolio, influenzato pure dall’aumento di produzione annunciato da alcuni Paesi dell’Opec+. L’oro, storico bene rifugio, ha perso terreno, pur rimanendo vicino ai massimi di sempre.
(da agenzie)
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