Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
ZELENSKY: “SOLO UN BASTARDO SI COMPORTA COSI’”… MA ANCORA PIU’ BASTARDI QUEI POLITICI ITALIANI SERVI DI PUTIN
Decine di morti e feriti dopo l’attacco sulla città nel Nord-Est dell’Ucraina. Il bilancio provvisorio è di 20 morti e 83 feriti. Tra questi 7 bambini, secondo il ministero dell’Interno di Kiev
Sarebbero almeno 20 le persone uccise in un attacco missilistico russo su Sumy, nella ucraina nordorientale. Il bilancio che si aggrava di ora in ora arriva dal sindaco della città, Artem Kobzar, che sin dalle prime ore di oggi 13 aprile aveva parlato di «molti morti» contro la popolazione civile. Secondo il capo del Centro per la lotta alla disinformazione del Consiglio nazionale di difesa e sicurezza ucraino, Andriy Kovalenko, ha sottolineato che i russi hanno deliberatamente lanciato l’attacco la domenica delle Palme per provocare numerose vittime.
È furiosa la reazione di Volodymyr Zelensky, che parla di un attacco mirato solo a colpire «una normale strada cittadina, la vita di tutti i giorni: case, istituti scolastici, auto in strada… E questo avviene in un giorno in cui le persone vanno in chiesa: la Domenica delle Palme, la festa dell’ingresso del Signore a Gerusalemme». Il presidente ucraino poi aggiunge: «Solo un bastardo potrebbe comportarsi così».
(da agenzie)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
SE SI SEGUISSE LA LOGICA OGGI UN PIENO COSTEREBBE 18 EURO IN MENO
Scende, ma non così velocemente come quello del petrolio. Il prezzo della benzina e
del gasolio alla pompa fatica a sgonfiarsi. Dal 10 marzo all’11 aprile 2025 il costo della verde è diminuito in self di 0,047 euro al litro, passando da 1,797 a 1,750 euro al litro.
Nello stesso periodo, il prezzo del gasolio è diminuito in self di 0,054 euro al litro, passando da 1,701 a 1,647 euro al litro. Una dinamica che non rispecchia l’andamento dell’oro nero al barile. «Il prezzo crolla sui mercati internazionali, ma In Italia i listini alla pompa rimangono elevati e non seguono l’andamento delle quotazioni petrolifere», dice il Codacons.
Rispetto ai picchi registrati nel 2025, il petrolio risulta oggi deprezzato del 23%, col Wti che passa da 78 dollari di gennaio a circa 60 dollari attuali, mentre il Brent è sceso da 82 dollari ai 63.
Nello stesso periodo, tuttavia, il prezzo della benzina alla pompa è passato da una media al self di 1,823 euro al litro agli attuali 1,764 euro, con una riduzione del 4%. Il gasolio è passato da una meda di 1,726 euro al litro di metà gennaio agli odierni 1,647 euro, in calo del 4,5%.
“Una sproporzione che dimostra ancora una volta le anomalie del settore petrolifero”, denuncia il Codacons. Se il ribasso del petrolio si trasferisse in modo diretto sui listini ai distributori, oggi un litro di benzina costerebbe poco più di 1,4 euro, con un risparmio di circa 36 centesimi al litro, pari a meno 18 euro a pieno. Il diesel costerebbe circa 1,33 euro al litro, con un risparmio da 16,6 euro a pieno.
(da La Repubblica)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
FU L’IRRUZIONE DEI TRENI A SINCRONIZZARE GLI OROLOGI DELLA PENISOLA… TRAGEDIA E VARIETA’ FERROVIARIE
Quando il primo treno della storia nazionale partì da Napoli per arrivare a Portici, il 3 ottobre del 1839, il ritardo non esisteva ancora nella mentalità dell’Italia preunitaria. In alcune città l’orologio del campanile era regolato sul mezzogiorno solare, in altre sul tramonto. A Verona il tempo era in anticipo di tredici minuti rispetto a Torino, a Firenze in ritardo di quindici. La vita aveva un ritmo diverso a Roma e a Palermo, a Napoli e Bologna, a Genova e Milano. Fu l’irruzione dei treni a sincronizzare gli orologi della Penisola e a darle lo stesso orario dalla punta della Sicilia alla cima delle Alpi. Il treno fu un’altra unità d’Italia, un altro Risorgimento.
Non pensava certamente a questo, Matteo Salvini, quando al congresso della già secessionista Lega, sabato, ha ricevuto la notizia che l’ennesimo ritardo sull’alta velocità aveva assunto un risvolto specialmente bizzarro: sui treni fermi, stavolta, c’erano anche i giornalisti inviati per raccontare la sua conferma a leader del partito. Avrà pensato che era troppo. Basta treni, meglio tornare a fermare barconi dal ministero degli Interni. Di qui la richiesta ufficiale di tornare al Viminale? Sicuramente tutto immaginava due anni e mezzo fa, quando scelse il ministero delle infrastrutture e dei trasporti, tranne che avrebbe dovuto vedersela con gente ferma ore nelle stazioni, nei vagoni, in strada, gente che strepita, s’infuria, non ne può più di aspettare e se la prende con te. Salvini aveva in testa la grande opera del ponte sullo Stretto di Messina, per rilanciare la propria immagine logorata dall’estate dei “pieni poteri”. Invece gli è toccato vedersela con il ritardo, suprema invenzione ferroviaria. In stretto legame, però, con la politica moderna. Da Lenin in poi – che arrivò in treno all’appuntamentcon la rivoluzione in Russia – ogni leader deve avere la qualità essenziale di azzeccare i tempi, in un tempo che corre sempre più velocemente.
La puntualità unisce sottilmente il treno alla politica: ma, in alcune circostanze, questo legame sotterraneo emerge inequivocabilmente. Era il direttissimo DD17 il convoglio sul quale – in vagone letto – arrivò Benito Mussolini a Roma il 30 ottobre 1922, per ricevere dal Re l’incarico di formare il governo, al termine di giorni di altissima tensione politica, sociale e ferroviaria. La minaccia della Marcia su Roma fascista aveva spinto lo stato, nella persona del generale Pugliese, a prendere contromisure di guerra. Tagliò i binari a Civitavecchia, rovesciò quattro carri ferroviari sui binari di Orte, interruppe le linee ad Avezzano, a Segni. Ventiduemila fascisti non riuscirono ad arrivare nella Capitale per occupare i centri strategici dello stato, com’era nei piani. Ma Vittorio Emanuele III non volle andare oltre nella sfida a Mussolini, e lo chiamò al Quirinale per dargli l’incarico, sicuro che avrebbe ammansito il fascismo col tempo.
Era il direttissimo DD17 il convoglio sul quale Mussolini arrivò a Roma il 30 ottobre 1922, per ricevere dal Re l’incarico di formare il governo
A gennaio in Parlamento, quando il ritardo aveva messo assai in imbarazzo il governo, il ministro Salvini disse che c’era di mezzo una strategia della tensione, una catena di attentati, un “quadro di incendi dolosi, esplosioni, guasti, rotture”, crimini in parte rivendicati su “blog gestiti da frange anarco-insurrezionaliste”. La pista del sabotaggio politico, Salvini ne era consapevole, ha la forza di un’immensa tradizione dalla sua parte, rinnovata negli ultimi tempi dal movimento No-Tav. L’ultimo episodio di una certa consistenza è datato capodanno del 2017. Protagonista un gruppo anarchico che brucia i fili della cabina elettrica alla stazione di Rovezzano, periferia di Firenze, e manda in subbuglio la linea. Già tre anni prima era successo un episodio analogo, a Bologna: le frange più estreme del movimento contro la Torino-Lione avevano dato fuoco alla centralina dell’alta velocità, colpendola con una bomba incendiaria. Grandissimi disagi. Moltissimi passeggeri stremati. Massima pubblicità alla lotta dura e pura. Ha detto Maurizio Lupi che “l’attentato alla mobilità non va mai sottovalutato, e non è un caso che i treni siano sempre diventati il bersaglio di chi voleva sovvertire la nostra comunità”.
Nella storia della Prima Repubblica il treno è stato in effetti uno spaventoso veicolo di sangue, il mezzo della puntualità del male. Il primo e più dimenticato episodio battezza gli anni Settanta, il 22 luglio 1970, quando era da poco esplosa
la rivolta di Reggio Calabria per reclamare il titolo di capoluogo della Regione, assegnato invece a Catanzaro. Il treno Palermo-Torino, “la Freccia del Sud”, deraglia a circa 750 metri dalla Stazione di Gioia Tauro. Il macchinista sente un boato, prima che il convoglio perda aderenza e finisca fuori dai binari. Muoiono sei persone, 70 feriti. Ufficialmente si parla di incidente, ma in molti nutrono dubbi. Il Corriere della Sera intervista un esperto di disastri ferroviari. Afferma che la dinamica dell’incidente non lo convince affatto, che la versione ufficiale non regge. Il direttore Giovanni Spadolini non lo pubblica, non vuole alimentare l’ansia tra i lettori. Vent’anni dopo si scoprirà che l’attentato venne preparato da esponenti del movimento “Boia chi molla”, la destra che aveva egemonizzato la rivolta di Reggio, insieme alla cosca della ‘ndrangheta Di Stefano.
Nella storia della Prima Repubblica il treno è stato uno spaventoso veicolo di sangue, il mezzo della puntualità del male
Poi ci fu Bologna 1980: la mattina del 2 agosto un ragazzo e una ragazza molto giovani entrano nella sala d’aspetto della seconda classe, affollatissima, con una borsa-valigia di pelle con piedini di metallo. La poggiano sul tavolinetto portabagagli a cinquanta centimetri dal suolo. Dentro la borsa-valigia ci sono circa 25 chili di esplosivo. I due si allontano alle 10, 25 minuti dopo la bomba esplode. Uccide 86 persone, ne ferisce più di 300. Anni dopo, l’ex presidente Cossiga affermerà: “La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’”. Gli obiettano: “Va bene che grazie al Lodo Moro i palestinesi erano autorizzati a fare quello che volevano in Italia, purché non colpissero il nostro Paese, ma è possibile che si spingessero a trasportare l’esplosivo sui treni?”. “Divenni presidente del Consiglio poco dopo”, rispose Cossiga, “e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così”. Vero? Falso? Le sentenze giudiziarie hanno affermato un’altra verità, altrettanto discussa. Quella della strage neofascista.
Infine il 1984. Sul rapido 904 che da Napoli arriva a Milano sale Carmine Lombardo, detto ‘o nano, con due borse che colloca sulla reticella della vettura. Treno pieno. E’ la vigilia di Natale. Il ragazzo scende a Firenze. Il convoglio imbocca la galleria di 19 chilometri che inizia poco dopo, ma prima che sbuchi fuori l’esplosivo viene azionato a distanza. Muoiono 15 persone, 230 i feriti. Si scoprì in seguito che si era trattato di un attentato mafioso.
Nulla di tutto ciò è paragonabile alle cronache ferroviarie di oggi: la polemica sul vino di Bruno Vespa venduto sul Frecciarossa (“una cosa che succede dalla fine dello scorso decennio”, ha spiegato Vespa), oppure il treno su cui viaggia in
forte ritardo il ministro Lollobrigida che effettua una fermata straordinaria per consentirgli di arrivare in tempo a un impegno istituzionale. Roba da varietà, più che da tragedia. Senza sottovalutare il varietà, naturalmente. Perché i treni sono anche una stupefacente musa ispiratrice della musica leggera italiana. “La locomotiva” di Francesco Guccini è la canzone più famosa. Ma prima c’era stata “Binario” di Claudio Villa e poi ci sarà “Ripensando alla Freccia del sud” di Umberto Tozzi. Il treno affascina, seduce, incanta. E’ il simbolo del viaggio, della velocità, dell’avventura. Sigmund Freud si spinse addirittura a dire: dell’Eros. Perché? In primis perché era Freud e, dal suo punto di vista, tutto era sessualità. Poi per le vibrazioni prodotte. “Il carattere piacevole delle sensazioni di movimento” inducono ad “associare in tal modo il viaggio in treno con la sessualità” scriveva, spiegando che “le scosse esercitano un effetto così affascinante sui bambini che tutti i ragazzi, a un certo punto della loro vita, hanno desiderato diventare macchinisti”.
Dagli attentati alle cronache ferroviarie odierne: la polemica sul vino di Bruno Vespa e il treno che si ferma per far scendere Lollobrigida
Non era questo il caso di Cavour, anche se conobbe i treni da giovane, in Inghilterra, e li amò subito sconsideratamente. Il suo primo investimento nelle strade ferrate, come si chiamavano allora, fallì, ma non si fermò. Continuò a entrare in affari per costruire altre linee ferroviarie. “Ma quale rischio?” rispondeva a chi credeva che prima o poi sarebbe andato in bancarotta. “C’è uno da perdere e dieci da guadagnare”. Secondo il Conte, le ferrovie avevano un risvolto politico rivoluzionario. Tutte le merci in un futuro sarebbero passate sui binari e le relazioni tra stati sarebbero state condizionate. Ma, a proposito di puntualità, il treno era per Cavour un veicolo fenomenale per arrivare in tempo all’Unità d’Italia. Il suo articolo più celebre lo dice chiaramente. Titolo: “Des chemins de fer en Italie”, le strade ferrate in Italia. “Non c’è più nessuno con un po’ di buon senso – si legge – che non capisca l’importanza delle ferrovie”. I treni annullavano le distanze, facevano circolare le idee che avrebbero dato alle masse coscienza della propria nazionalità. “Il tempo delle cospirazioni è passato”, scriveva. “L’emancipazione dei popoli non può essere effetto né d’un complotto né di una sorpresa; essa è diventata la conseguenza necessaria dei progressi della civiltà cristiana, dello sviluppo dei lumi”.
Ancor prima che la Lega la volesse dividere, i treni hanno puntualmente continuato a unire l’Italia, trasportando la gente dal sud al nord per lavorare, negli anni che prepararono il benessere. Viaggi massacranti dalla Sicilia, dalla
Calabria, dalla Basilicata, dalla Puglia, dalla Campania, fino a Torino, a Milano. Si arrivava alla stazione con ore di anticipo, con le valigie di cartone. I bimbi li tiravano dentro dai finestrini. I vagoni tanto pieni che si aveva paura anche di alzarsi a fare pipì, per non perdere il posto. I ritardi erano all’ordine del giorno, figurarsi, e hanno continuato ad esserci anche dopo. Al punto che dal setaccio delle cronache spunta la notiziola che all’inizio degli anni duemila era emerso un angelo custode dei pendolari, Mister Ritarditalia. Chi era? Un quarantaseienne di Firenze, di nome Francesco Palmerio, pendolare che lavorava come programmatore di software. Aveva inventato un sistema per informare i passeggeri dei ritardi. Bastava inviargli un sms con il numero del treno e il sistema rispondeva con gli orari effettivi, grazie a una rete di persone che condivideva le informazioni di viaggio con lui. Favolose bizzarrie dell’epoca pre internet.
Viaggi massacranti dalla Sicilia fino a Torino, a Milano. Le valigie di cartone, i vagoni pieni, i bimbi tirati dentro dai finestrini
Oggi i ritardi sono compagni di viaggio abituali dei viaggiatori e ciò dimostra – amano dire, con una battuta, a destra – che il governo Meloni è tutto fuorché fascista, dal momento che “quando c’era Lui” i treni arrivavano in orario. Come ci riuscì, il regime, a ottenere questo risultato, lo racconta Stefano Maggi nel suo libro “Le ferrovie” (Mulino): ovvero, sradicando il personale più politicizzato che aveva condotto le battaglie sindacali, i ferrovieri socialisti, comunisti e anarchici, in tutto 53 mila licenziati. Più la creazione di un corpo di milizia ferroviaria pronto a sedare ogni disordine. Il tutto unito a una campagna di propaganda martellante, guidata da Galeazzo Ciano, la cui efficacia ancora si riscontra, se la puntualità dei treni fascisti rimane un punto di riferimento della discussione pubblica.
Matteo Salvini, invece, ogni giorno prende posto dietro la sua scrivania al ministero e riceve un funzionario che gli dice: “Ministro, oggi ci sono 50 minuti di ritardo sull’alta velocità tra Roma e Firenze”. E lui deve correre ai ripari. L’indomani il ritardo è tra Milano e Torino, e lui deve metterci una pezza. Per non dire di quello che succede da Napoli in giù. E sempre lui è chiamato a risponderne. Mentre si vorrebbe occupare esclusivamente d’importare in Italia l’agenda trumpiana, possibilmente senza dazi e dalla plancia di comando del Viminale. Recuperare centralità. Sognare in grande. Palazzo Chigi, anche. Basta macchinisti, vuole tornare a essere il terrore dei trafficanti di essere umani. Non ne può più dei passeggeri infuriati, rivendica il ritorno allo stop degli immigrati
Ma gli alleati, al momento, fanno finta di non sentirlo. Piantedosi, poi, non ne vuole sapere di lasciargli il posto. Così gli tocca ancora la maledizione dei ritardi. Sempre più con il rimpianto di quando aveva l’Italia ai suoi piedi, prima che nella fatale estate del Papeete riuscisse a perdere il treno che lo portava a Palazzo Chigi. Solamente la fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare un contrappasso così crudele. Sbattere ogni giorno il muso – lui che continua a rincorrere il treno che gli è sfuggito via – sui Frecciarossa che non arrivano mai. Mentre nelle stazioni di tutta la Repubblica i passeggeri si recano sempre più come avessero scritto sopra l’avvertenza: lasciate ogni speranza, o voi che entrate.
(da Il Foglio)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
L’ABBRACCIO TRA RE CARLO E CARLO PETRINI, IL FONDATORE DI SLOW FOOD, PIONIERI DELL’AMBIENTALISMO E DEL CIBO SANO AL GIUSTO PREZZO
Hanno circolato molto poco, anzi troppo poco, le immagini di Carlo d’Inghilterra che
butta le braccia al collo di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food. Abbraccio per niente protocollare tra due vecchi amici e (detto di un re fa sorridere) compagni di lotta. Pionieri dell’ambientalismo, dell’agricoltura sostenibile, del cibo sano e a giusto prezzo, il loro abbraccio è quello di due attivisti che hanno condiviso molte battaglie, con un fitto scambio di pensieri, scritti, idee, proposte politiche. Da Terra Madre alle migliaia di orti in Africa.
E il fatto che di queste e altre cose si sia parlato, almeno in Italia, infinitamente meno che delle più trascurabili beghe di partito e di corrente, contribuisce a spiegare perché, della politica, si abbia una così scadente opinione.
Per entrambi i Carli si spera non sia spendibile l’epiteto cretino di radical chic, come si usa fare quando non si sa cosa pensare e cosa dire delle persone che spendono se stesse, senza tornaconto, in battaglie culturali e civili così rilevanti. Uno dei due di cognome fa Windsor e per mestiere fa il re della Gran Bretagna, l’altro è figlio di una ortolana e un ferroviere, ha fondato un movimento mondiale e una università.
Non so dire nel Paese di Carlo Windsor, ma in quello di Carlo Petrini, per decenni, l’attenzione al cibo è stata considerata un lusso da buongustai, una branca del superfluo, quando è una questione primaria. Che viene prima di ogni altra cosa.
La filiera del cibo riguarda l’uso dei suoli, lo sfruttamento della manodopera, il peso della grande distribuzione, la salute pubblica, l’educazione di massa e cento altre questioni. Occuparsene vuol dire fare politica a tutto campo. Petrini è un leader politico mondiale, e il fatto che nella politica italiana lo sappiano in due o tre non è una buona notizia.
(da La Repubblica)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
PARLA DON MATTIA FERRARI: “PROVARONO A ENTRARMI IN CASA, NON SONO INTIMIDITO E VOGLIO LA VERITA’”
Don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans, è tra gli spiati dello scandalo Paragon, che vede tra le vittime oltre ai fondatori dell’associazione italiana, Luca Casarini e Beppe Caccia, anche il nostro direttore Francesco Cancellato e il portavoce del movimento Refugees in Libya, David Yambio. Al parlamento europeo era in programma l’audizione di Don Mattia Ferrari nella commissione LIBE, quella dedicata alle libertà civili, ma è stato rinviata a causa dell’ostracismo dei gruppi sovranisti delle destre europee. Con Don Mattia abbiamo ricostruito le attività di spionaggio ai suoi danni, che sono passate anche per un tentativo di infiltrazione nell’abitazione di sua residenza, avvenuto nel dicembre del 2023. Due mesi dopo, 8 febbraio 2024, arrivò il primo messaggio di Meta, attraverso Facebook, che lo avvisava di una attività di hacking sostenuta dal governo. Per ammissione del sottosegretario agli interni, Alfredo Mantovano, gli attivisti di Mediterranea Saving Humans, sono stati spiati dai nostri servizi segreti, mentre è ancora avvolta nel mistero l’attività di spionaggio ai danni del direttore di Fanpage.it, Francesco Cancellato.
Don Mattia tu hai ripercorso delle tappe dell’ultimo anno, mettendo in fila
diversi episodi che conducono allo spionaggio nei tuoi confronti. Quali sono?
A dicembre del 2023, dopo Natale, ci fu un tentativo di effrazione nell’abitazione della mia residenza legale. Un uomo, coperto con un passamontagna e dei guanti, riuscì a raggirare il sistema di sorveglianza e provò ad entrare in casa. Mentre era intento in quest’opera fu spaventato da qualcosa e decise di andare via. Solo in quel momento, a tentativo ormai fallito, passando dal giardino fece scattare l’allarme che fotografò poi il tentativo di effrazione. Successivamente, l’8 febbraio del 2024, io e Luca Casarini riceviamo il primo messaggio da Meta, attraverso Facebook, che ci avvisava di questo sofisticato attacco sostenuto da hacker con spyware. Il messaggio preciso diceva: “avviso di attacco hacker sofisticato appoggiato dal governo”. Queste erano le parole. Poi nell’estate del 2024 io ho cambiato il telefono. Successivamente ci sono state le notifiche a David Yambio (portavoce di Refugees in Libya ndr) il 13 novembre 2024, poi a Luca Casarini, Beppe Caccia e Francesco Cancellato, il 31 gennaio del 2025.
Perché ti hanno spiato secondo te?
L’attenzione va sempre posta su un fatto, noi svolgiamo un lavoro molto delicato di solidarietà e fraternità con le persone che si trovano in Libia e Tunisia, in condizioni estremamente vulnerabili, persone che si trovano nelle mani della mafia libica. Noi siamo al servizio del loro grido, che è un grido di fraternità, che prova a risuonare, e quindi è molto preoccupante che veniamo spiati nello svolgimento di questa nostra attività.
C’è un collegamento tra il caso Almasri e la vicenda dello spionaggio ai tuoi danni?
Non sappiamo se c’è un collegamento diretto, ma un collegamento indiretto questo per lo meno sicuramente c’è. Noi lavoriamo con le vittime di Almasri, con persone che sono prigioniere di Almasri o di altri capi della mafia libica. raccogliamo denunce e testimonianze contro la mafia libica, questo è un elemento di cui bisogna tenere conto. Altro appunto non lo sappiamo, però noi siamo molto preoccupati per il crescente potere della mafia libica.
Sulla tua vicenda è intervenuta anche la Conferenza Episcopale Italiana che ha chiesto di arrivare alla verità
Si c’è stata la presa di posizione del vice presidente per il Sud, monsignor Francesco Savino, la richiesta è esattamente quella, noi chiediamo verità perché la verità è il presupposto per operare una riconciliazione. Noi non siamo interessati ad uno scontro, ma siamo interessati alla riconciliazione, a noi sta
molto a cuore il dialogo e la collaborazione con le istituzioni, ed il presupposto per la riconciliazione è la verità. E quindi siamo tutti quanti a chiedere verità e chiedere giustizia e riconciliazione.
Dovevi essere ascoltato dalla commissione LIBE del parlamento europeo, per le libertà civili, invece cosa è successo?
E’ successo che l’audizione è stata rimandata, speriamo che possa tenersi presto. A noi sta molto a cuore proprio perché ci sta a cuore il dialogo e la collaborazione con le istituzioni. Abbiamo presentato degli esposti su quanto avvenuto, quindi ci teniamo al dialogo ed alla collaborazione con la magistratura, e ci interessa il dialogo e la collaborazione con tutte quante le istituzioni. E’ stata la commissione LIBE a convocarci, non ci siamo autoconvocati, a noi questa cosa ha fatto molto piacere, perché vogliamo dialogare e collaborare con le istituzioni fornendo quegli elementi che è importante che le istituzioni sappiano e che assumano, proprio perché si possa insieme arrivare a chiarire la verità. I nostri avversari sono le ingiustizie, le forme di dominio e sopraffazione, le mafie, la Corte penale internazionale è un esempio molto bello. Si era arrivati alla incriminazione e inizialmente alla cattura di un famigerato capo della mafia libica come Almasri, che era stato catturato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. E’ anche uno dei capi del sistema dei trafficanti. Purtroppo chiaramente quel risultato è saltato.
Tra gli spiati c’è anche il nostro direttore, che paese è quello dove si spiano preti e giornalisti?
Questa è la domanda che ci dobbiamo porre ed è il motivo per cui si deve arrivare alla verità. L’opera dei giornalisti è sacrosanta, è sacrosanta per la democrazia, noi lo sappiamo bene nel nostro campo, senza giornalisti coraggiosi che hanno fatto inchieste coraggiose, noi anche sul tema della mafia libica, moltissime cose non le sapremmo. Quindi è fondamentale che ci sia rispetto e tutela dell’attività dei giornalisti e questo comincia dallo scoprire la verità su quello che è successo al direttore Francesco Cancellato come nel caso nostro.
Tu sei un giovane prete, ti sei trovato al centro di una attività di spionaggio internazionale, ti ha intimorito questa vicenda?
Intimorito direi proprio di no. Anche perché questa è solo l’ennesima pagina di una serie di attacchi che sono stati fatti contro di noi. Oggi siamo in un momento in cui c’è un avanzamento terribile nella società, non solo in Italia ma in gran parte del mondo, di questa cultura dell’individualismo, il nuovo motto è praticamente “me ne frego”, il menefreghismo. A questo “me ne frego” noi
sempre di più tutti quanti insieme dobbiamo contrapporre “i care” di Don Milani, che in questo tempo diventa “we care”. Mediterranea e tante altre realtà della società civile in Italia, in Europa e nel mondo, fanno esattamente questo: “we care”. Chi pratica il “we care” non deve essere criminalizzato o spiato, anzi deve essere ascoltato, e le istituzioni devono collaborare, perché insieme allora sì che potremmo costruire la società della solidarietà e della fraternità.
(da Fanpage)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
UN “FAVORE” ALLE AZIENDE TECH COME APPLE E NVIDIA CHE PRODUCONO IN CINA E AL DI FUORI DEGLI USA
Gli Stati Uniti non applicheranno i dazi previsti per le importazioni ad alcuni prodotti:
gli smartphone, i computer, ma anche altri componenti elettronici tra cui i microchip e processori, necessari per costruire moltissimi prodotti tecnologici.
Si tratta di beni che gli Stati Uniti non producono internamente – e anzi, spesso le aziende producono proprio in Cina, colpita con tariffe al 145%.
Per spostarne la produzione, a differenza di quanto affermato dall’amministrazione Trump negli scorsi giorni, servirebbero anni e costi altissimi. Dunque, per evitare che grandi multinazionali americane come Apple o Nvidia debbano affrontare spese enormi per importare i loro prodotti – cosa che farebbe schizzare verso l’alto i prezzi – l’amministrazione Trump ha deciso di fare un altro passo indietro sui dazi.
A riportare la notizia è stata la testata Bloomberg, che ha citato l’agenzia federale US Customs and border protection, che gestisce la dogana. L’esenzione riguarderebbe tutti i Paesi, quindi anche la Cina, che al momento deve affrontare dei rincari del 145% per importare negli Stati Uniti. L’esclusione è un’ottima notizia anche per Taiwan, dove ha sede Tsmc, la più grande azienda produttrice di semiconduttori (che sono indispensabili per la produzione dei chip e quindi di quasi tutti i prodotti elettronici tecnologici).
Ieri, Donald Trump aveva detto che ai dazi del 10% avrebbero potuto essere “un paio di esenzioni per ovvie ragioni”, ma non aveva specificato di cosa stesse parlando. Ora l’agenzia federale ha confermato che tra queste ci sono i computer, gli smartphone, i semiconduttori e così via. Ma attenzione: potrebbe anche essere una sospensione solo temporanea.
Come sottolineato da Bloomberg, infatti, l’ordine iniziale di Trump prevede che gli eventuali dazi extra ‘specifici’, che colpiscono singoli settori, non si debbano sommare a quelli ‘generali’, che colpiscono interi Paesi. Finora, sui prodotti tecnologici non c’erano dazi specifici, ma solo quelli generali. Il fatto che ora si sia deciso di escludere questi prodotti dai dazi generali – e che l’amministrazione
Trump non abbia ancora commentato – fa pensare che l’amministrazione potrebbe annunciare delle nuove tariffe specifiche. In ogni caso, sembra probabile che gli eventuali dazi specifici sui prodotti tech saranno più bassi di quelli attualmente in vigore, almeno per quanto riguarda la Cina.
Tra i prodotti più diffusi negli Stati Uniti che potrebbero beneficiare dall’esenzione ci sono quelli di Apple. Anche se i dazi al momento restano identici su prodotti come gli auricolari airpods, sono esclusi gli iPhone, gli iPad, gli Apple watch e altri ancora. Negli ultimi giorni c’erano state numerose analisi su quanto sarebbe salito il prezzo di questi prodotti per conseguenza dei dazi, e negli Stati Uniti molte persone si erano affrettati a comprarli per anticipare i rincari. Naturalmente, lo stesso ragionamento si applica anche a tutte le altre aziende che producono cellulari, tablet, computer e così via.
(da agenzie)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
LA STORIA DI MARJORIE TAYLOR GREENE, COSPIRAZIONISTA ELETTA AL CONGRESSO CHE, PRIMA DI ENTRARE IN POLITICA, AVEVA UN PATRIMONIO DI 700 MILA DOLLARI: NEL GIRO DI POCHI MESI È ARRIVATA AD AVERE 22 MILIONI DI DOLLARI. È FINITA NEL MIRINO DEI DEMOCRATI DOPO LE ACCUSE DI INSIDER TRADING RIVOLTE A “THE DONALD”
Un’incredibile storia di scalata patrimoniale arriva da Oltreoceano. E, nel mirino, finiscono i dazi imposti dal presidente Usa Donald Trump. E il sospetto di insider trading attorno a questa operazione è un’accusa arrivata da più parti.
Nel mirino, ora, è finita Marjorie Taylor Greene: prima di entrare in politica, dichiarava di avere un patrimonio personale di 700 mila dollari, frutto dei risparmi di una vita e della sua attività di coach partime in una palestra. Poi aveva aperto una società di fitness, lasciata nel 2017.
Nel 2021 Marjorie Taylor Greene, cospirazionista e rappresentante dell’estrema destra dei Repubblicani, è stata eletta per la prima volta al Congresso come rappresentante della Georgia. Fino a pochi mesi fa, secondo OpenSecrets, noprofit di Washington che traccia il patrimonio dei politici e dei partiti, Greene aveva tra i 490 mila e 1,2 milioni di dollari. Adesso la sua ricchezza personale è arrivata a quasi 22 milioni di dollari.
L’ascesa finanziaria
La fulminea ascesa finanziaria di Greene è finita sotto la lente degli utenti sui social, che si chiedono come abbia fatto tutti questi soldi lei che ha più volte accusato l’ex presidente Joe Biden di essersi arricchito con la sua attività politica. Ma anche il Congresso vorrebbe vederci chiaro.
I Democratici hanno accusato di insider trading il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva invitato su Truth a comprare titoli, quando Wall Street era in ribasso, per poi far schizzare le quotazioni verso l’alto dopo aver annunciato, poche ore dopo, la pausa di novanta giorni dei dazi. Anche le persone a lui vicine sono finite nel mirino.
Greene è una di loro: la rappresentante della Georgia, per rispondere alle accuse montanti, ha dichiarato di aver fatto investimenti in borsa il 3 e il 4 aprile, quando c’e’ stato il crollo azionario legato all’introduzione dei dazi. La trumpiana ha detto di aver acquistato in particolare titoli Apple e Amazon, i tecnologici che – dopo la pausa dei dazi – hanno registrato mercoledi’ un aumento rispettivamente del 12 e del 15 per cento.
(da agenzie)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
GLI ITALIANI HANNO INIZIATO A CAPIRE IL TRUCCHETTO DEGLI IM-PRENDITORI, CHE APPROFITTANO DI DECENNI DI POLITICHE DI “FLESSIBILITÀ” … GLI STIPENDI NON CRESCONO DA VENT’ANNI… IL LIBRO “GLI ITALIANI NON HANNO PIÙ VOGLIA DI LAVORARE (E HANNO RAGIONE)”, DI CHARLOTTE MATTEINI
introduzione a “Gli Italiani non hanno più voglia di lavorare (e hanno ragione)”, di
Charlotte Matteini, ed. Cairo
Da anni leggiamo sui giornali che in Italia nessuno sembra aver più voglia di lavorare, specialmente i giovani. È un refrain talmente diffuso da essere diventato ormai una sorta di filone narrativo a cui media, politica e associazioni datoriali si aggrappano disperatamente per evitare di guardare in faccia la realtà del mondo del lavoro italiano, che è andato a deteriorarsi nel corso degli ultimi vent’anni a causa, soprattutto, di due principali fattori: politiche del lavoro errate e una radicata mentalità che continua a considerare i lavoratori come un mero costo da comprimere il più possibile.
La situazione è oggettivamente disastrosa, senza usare troppi giri di parole, ma sembra non ci sia una vera consapevolezza di quanto sia pervasivo il fenomeno dello sfruttamento nel mondo del lavoro in Italia. Non solo lavoro nero e lavoro sommerso: gli abusi dovuti alla precarizzazione del lavoro in Italia sono di fatto sistematici e sistemici in ogni settore, nessuno escluso.
Con “Gli italiani non hanno voglia di lavorare. E hanno ragione” vorrei provare a tracciare un quadro del cosiddetto «stato dell’arte» per mostrare quali siano le condizioni di abuso più ricorrenti e come la cosiddetta «flexicurity» abbia portato, negli ultimi trent’anni, non certo a un miglioramento delle condizioni per i lavoratori italiani, ma anzi all’esatto opposto: perdita di diritti, di salari e di dignità professionale.
Il tutto in netto contrasto con quanto invece osserviamo nei Paesi UE con economia comparabile alla nostra.
Ho affrontato il tema con Domenico Tambasco, avvocato giuslavorista attivo nella difesa dei diritti dei lavoratori e specializzato nella prevenzione e nel contrasto delle condotte violente e moleste sul luogo di lavoro
La situazione odierna è sostanzialmente frutto di un percorso iniziato ormai vari decenni fa, e che nessuno sembra aver intenzione di arrestare
Nonostante le evidenze e l’oggettiva necessità di invertire la rotta, pare che per i governi che si stanno susseguendo il tema lavoro non sia esattamente una priorità: tutte le misure introdotte negli ultimi anni altro non sono che soluzioni-tampone, di fatto ben poco utili al miglioramento delle condizioni dei lavoratori di questo Paese.
«Con lo Statuto dei lavoratori e tutta una serie di norme a tutela del rapporto di lavoro, negli anni Settanta si era creata una legislazione quasi speciale nell’ordinamento italiano, volta a proteggere i lavoratori e a equilibrare gli innaturali e congeniti squilibri del rapporto di lavoro; in questi rapporti, infatti, c’è una parte “ontologicamente” forte, ossia il datore di lavoro, che detiene gli strumenti e i mezzi di produzione, e dall’altra parte c’è il lavoratore, che di fatto, come dice la parola stessa, è subordinato al volere e al potere del suo datore» prosegue l’avvocato Tambasco.
Le vittorie raggiunte grazie alle lotte dei lavoratori negli anni Settanta sono di fatto state smontate, pezzo per pezzo, da una serie di politiche introdotte a partire dalla fine degli anni Novanta: un esempio su tutti è il Pacchetto Treu, un insieme di norme introdotte dal governo Prodi nel 1997 allo scopo di «promuovere l’occupazione».
È la famigerata flexicurity, una politica attiva del lavoro che si basa su una strategia precisa: aumentare flessibilità e sicurezza sul mercato del lavoro grazie ad accordi contrattuali flessibili che rendono più semplice il licenziamento e l’assunzione, e politiche di welfare in grado di garantire un sostegno al reddito durante le transizioni occupazionali.
Qualcosa però sembra essere andato storto. E non esattamente in maniera imprevista.
«In Italia il dogma della flexicurity è stato inoculato con dosi da cavallo fino ad arrivare al Jobs Act: ossia, maggiore flessibilità nei licenziamenti, precarizzazione dei rapporti di lavoro con preferenza per i posti a termine piuttosto che quelli a tempo indeterminato, e addirittura la flessibilizzazione della gestione dei rapporti di lavoro, con la possibilità anche di demansionare i lavoratori.
Fino al 2015-2016 si riteneva che la flessibilità avrebbe aumentato i posti di lavoro; diciamo che questa cosiddetta politica si è rivelata un boomerang, o meglio, si è rivelata per quello che era: disastrosa.
Perché i dati parlano chiaro: sì, è vero che forse sono aumentati o comunque sono stati recuperati posti di lavoro, ma questo ha portato una conseguenza
abbastanza prevedibile: si trattava di una politica che avrebbe di fatto portato a un crollo delle retribuzioni.
Che è esattamente il panorama che noi osserviamo oggi, perché a fronte di una disoccupazione non allarmante (questo lo possiamo dire), le retribuzioni e quindi anche il potere d’acquisto sono tra i più bassi d’Europa» continua l’avvocato Tambasco.
Oggi, nel terzo decennio del terzo millennio, i risultati di questa fallimentare strategia sono sotto gli occhi di tutti, ma nonostante ciò sembra che nessuno voglia davvero puntare lo sguardo sull’elefante nella stanza: retribuzioni basse e per nulla proporzionate al carico di lavoro e al caro vita sempre più crescente, depotenziamento della contrattazione sindacale, compressione dei diritti dei lavoratori, una produttività che cala a picco (complice un sistema imprenditoriale che non si innova […] e cerca disperatamente di competere abbassando sempre di più i salari e comprimendo i diritti) stanno di fatto portando l’Italia verso il baratro della stagnazione economica.
«In uno studio condotto l’anno scorso dall’università Bocconi emergeva che, a fronte di un’occupazione in crescita, in Italia si hanno delle retribuzioni stagnanti, addirittura in crollo.
E questo fenomeno è determinato proprio da politiche del lavoro che hanno indebolito il potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati, mentre hanno rafforzato il potere dei datori di lavoro, che evidentemente agiscono secondo il loro interesse.»
Secondo Tambasco, lasciando da parte per un momento la tendenza legislativa, bisogna riconoscere che la tendenza giurisprudenziale ha invece mantenuto un cammino oscillante: «La giurisprudenza è stata ipergarantista nei confronti dei lavoratori fino alla fine dei primi anni Duemila, poi ha un po’ allargato le maglie seguendo la tendenza legislativa.
Ultimamente, però, è tornata a essere molto più garantista sul piano del riconoscimento delle tutele dei lavoratori.
Faccio un esempio, tornando alla questione delle retribuzioni, che in alcuni casi sono bassissime (e addirittura i minimi contrattuali previsti dai contratti nazionali sono quasi al di sotto della soglia di povertà): negli ultimi anni è stata la giurisprudenza a intervenire a tutela dei lavoratori per porre un argine rispetto a quella che è una sorta di giungla dal punto di vista delle retribuzioni.
Con le sentenze del 2023 e del 2024 ha dichiarato addirittura la nullità parziale di diversi contratti collettivi che disponevano minimi contrattuali in contrasto
con l’articolo 36 della Costituzione. In buona sostanza, abbiamo assistito a un intervento proattivo della giurisprudenza laddove il legislatore non solo non si occupa di salario minimo, ma addirittura apre le porte a una legislazione che va a diminuire ulteriormente il potere contrattuale» prosegue il giuslavorista.
Nonostante a livello di politiche del lavoro il quadro sia piuttosto infausto, negli ultimi anni la giurisprudenza ha quindi giocato, e sta ancora giocando, un ruolo fondamentale rispetto alla tutela dei lavoratori. E questa azione non investe solamente la questione retributiva.
Vent’anni fa, per esempio, se non c’era una certezza rispetto alla volontà persecutoria del datore di lavoro, le condizioni come il superlavoro o la mancata conciliazione tra vita privata e professionale non venivano considerate mobbing, o comunque era necessario farle rientrare all’interno della categoria del mobbing, che però a sua volta era molto ristretta.
Oggi non si parla invece solo di mobbing: si parla di stress lavorativo così da dare un perimetro di tutela molto ampio per migliorare le condizioni dei lavoratori» sottolinea Tambasco.
Tra i maggiori detonatori del cambiamento, non solo dal punto di vista salariale ma anche e soprattutto rispetto alla qualità dell’organizzazione delle attività lavorative, sicuramente possiamo citare la pandemia, che ha avuto un forte impatto soprattutto sui lavoratori, non più disposti ad accettare compromessi al ribasso:
«L’emergenza Covid ha sensibilizzato un po’ tutti i lavoratori sulla necessità che il posto di lavoro garantisca una qualità della vita lavorativa.
Infatti, ora più che mai i lavoratori fanno sempre maggiore attenzione alle condizioni, agli orari, alla qualità del lavoro. Nessuno è più disposto a quelle grandi maratone che si facevano una volta: ecco perché la stessa giurisprudenza ultimamente sta dando particolare rilievo a questi aspetti» continua l’avvocato.
Sul piano normativo, invece, l’aspetto che Più mi preoccupa è l’intervento sulle retribuzioni. In quest’ottica, l’intervento che ritengo più importante è quello del salario minimo, ovvero di un legislatore che stabilisca un minimum, che poi ovviamente potrà essere derogato in melius dalla contrattazione collettiva: questo è tra l’altro un meccanismo presente in molti altri Paesi europei, e ha avuto una funzione virtuosa perché ha supportato la contrattazione collettiva, permettendo di riconoscere dei minimi contrattuali davvero superiori al minimo di legge, e quindi decorosi.
Non è vero che il salario minimo svuota il potere della contrattazione o che
sarebbe una sottrazione di potere alle organizzazioni sindacali; anzi, in realtà andrebbe ad affiancarle, a integrarle, a supportarle. Sarebbe d’aiuto.
Infine, l’incentivazione del whistleblowing, magari diffondendolo anche nelle imprese più picco-le: potrebbe essere di supporto per aumentare il numero di denunce e segnalazioni» conclude l’avvocato
Come risulta evidente da questa breve panoramica, il cavallo di Troia per la compressione dei diritti dei lavoratori è stata quella serie di politiche che si sono susseguite dalla fine degli anni Novanta a oggi: esse hanno trovato terreno fertile anche grazie a un substrato culturale che ha permesso la proliferazione di tutti quei danni collaterali che hanno gravemente minato le basi del mondo del lavoro italiano, spogliando i lavoratori di molte tutele, con un impatto devastante sulla dinamica di mancata crescita delle retribuzioni.
Dalla Panoramica legislativa e giurisprudenziale ora passiamo al fulcro di questo libro: la fotografia dinamica dell’involuzione del mondo del lavoro italiano, dei sistematici abusi che caratterizzano numerosi settori, e dell’enorme ruolo che la stampa ha avuto nel peggioramento delle condizioni dei lavoratori, contribuendo a costruire una narrazione fondata sulla negazione della realtà
(da agenzie)
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Aprile 13th, 2025 Riccardo Fucile
FINK, FINO A IERI FILO-GOVERNATIVO, CRITICA LE MOSSE DEL CALIGOLA DI MAR-A-LAGO E IL SUO POPULISMO DA STRAPAZZO: “CON I DAZI SIAMO ANDATI AL DI LÀ DI QUALSIASI COSA AVREI MAI POTUTO IMMAGINARE NEI MIEI 49 ANNI IN FINANZA. QUESTA NON È ‘WALL STREET’ CONTRO ‘MAIN STREET’, PERCHÉ IL CALO DEI MERCATI COLPISCE I RISPARMI DI MILIONI DI PERSONE ORDINARIE
Gli Stati Uniti sono “molto vicini se non addirittura già in recessione”. Lo ha detto l’a.d di BlackRock Larry Fink, sottolineando di essere rimasto sorpreso dai dazi di Donald Trump, che sono “andati al di là di qualsiasi cosa avrei mai potuto immaginare nei miei 49 anni in finanza”.
“Questa non è Wall Street contro Main Street”, ha spiegato Fink perché il calo dei mercati azionari “colpisce i risparmi di milioni di persone ordinarie”. “L’incertezza e l’ansia sul futuro andamento dei mercati dominano le conversazioni fra i clienti. Abbiamo già assistito a periodi come questo, caratterizzati da grandi cambiamenti strutturali, come la crisi finanziaria, il Covid e la corda dell’inflazione nel 2022”, ha aggiunto Fink.
BlackRock ha chiuso i primi tre mesi dell’anno con un utile in calo del 4% a 1,51 miliardi di dollari. Il calo è legato alle spese per le acquisizioni dello scorso anno. I ricavi sono saliti del 12% a 5,3 miliardi.
I titoli di Stato americani, i Treasury, sotto pressione da 10 giorni, stanno chiudendo la peggiore settimana dal 2019, quando la Fed decise di intervenire in aiuto del sistema finanziario.
I rendimenti sui titoli Usa a 10 anni sono saliti al 4,5%, ai massimi da febbraio, e rialzi significativi si osservano anche per gli altri titoli di stato. Secondo alcuni
analisti, ora sono considerati asset rischiosi negli scambi e gli investitori li trattano come fossero titoli azionari.
(da agenzie)
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