Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
L’INPS SI APPRESTA A CANCELLARE 15,4 MILIARDI CONDONATI DAL “SALDO&STRALCIO”… NEL TRIENNIO SI SALE A 18 MILIARDI: CREDITI “DOVUTI” MA CANCELLATI DAI CONDONI
Lo Stato dovrà farsi carico, nei prossimi anni, di un buco da 6,6 miliardi di euro per garantire le prestazioni previdenziali legate ai contributi non versati dalle aziende e successivamente stralciati. A lanciare l’allarme è il Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ) dell’Inps, che ha evidenziato come i crediti contributivi cancellati tramite tre provvedimenti tra il 2018 e il 2022 rappresentino un peso rilevante per il sistema pensionistico.
I contributi in questione, relativi al periodo fino al 2015, sono stati formalmente eliminati ma continuano a valere ai fini pensionistici per i lavoratori coinvolti, grazie al principio dell’automaticità delle prestazioni. In altre parole, anche se le aziende non hanno versato i contributi, e questi
sono stati successivamente rottamati, i dipendenti hanno comunque diritto al riconoscimento pieno del montante previdenziale.
«È necessario – sottolinea il Civ – coprire gli oneri aggiuntivi che l’Istituto dovrà sostenere nei prossimi anni per effetto di questo stralcio, dovendo comunque garantire le prestazioni ai lavoratori». Il Civ invita inoltre a tener conto di questo impatto nel determinare i futuri trasferimenti statali all’Inps.
Il tema è finito anche al centro del dibattito politico. «Il Governo fa i condoni per i furbetti e gli italiani onesti pagano», attacca il senatore dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Tino Magni. «Gli stralci delle cartelle introdotti dal governo dei condoni pesano sulle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici per oltre 15 miliardi. Solo lo stralcio delle cartelle fino a mille euro della prima manovra del duo Giorgetti-Meloni costa quasi dieci miliardi, mentre altri sei arrivano dallo stralcio dei contributi fino al 2015».
Magni punta il dito contro quella che definisce una «raffica di condoni» voluta dal centrodestra: «Dai contanti alle tasse concordate, dal salvacalcio agli scudi penali, dallo stralcio delle cartelle agli scontrini, passando per la sanatoria su Inps e Inail. Il messaggio è chiaro: se non hai pagato non ti preoccupare, ci pensa lo Stato. Ma chi paga davvero sono i contribuenti onesti».
Sul tema interviene anche la Cgil, che parla di «una cifra enorme» a danno del sistema pubblico. «I provvedimenti di condono e stralcio delle cartelle contributive adottati fino al 2015 e ora recepiti nel riaccertamento dei residui Inps determinano la cancellazione di 16,4 miliardi di euro, con un impatto negativo di 13,7 miliardi sul Rendiconto generale 2024 dell’Istituto. Una cifra enorme che fotografa, ancora una volta, l’effetto distorsivo di politiche che premiano l’evasione e danneggiano il sistema pubblico e la collettività», denunciano i segretari confederali Lara Ghiglione e Christian Ferrari.
«Pur essendo contabilmente coperti dal Fondo di svalutazione crediti – aggiungono – questi importi corrispondono a risorse che sarebbero dovute entrare nella disponibilità della previdenza pubblica e che invece vengono definitivamente cancellate. È inaccettabile continuare a giustificare la rinuncia a miliardi di euro in nome di sanatorie generalizzate, che
penalizzano chi ha sempre versato regolarmente contributi e imposte».
Per i due dirigenti sindacali è ora di cambiare rotta: «Bisogna cambiare direzione, rimettendo al centro chi lavora e il valore del lavoro. È questa l’urgenza che indichiamo con forza anche attraverso la campagna referendaria: il voto per i 5 SÌ rappresenta un’idea di Paese profondamente diversa, un’alternativa fondata su legalità, equità e giustizia sociale, a tutela dei diritti e della dignità del lavoro».
(da La Stampa)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
IN EUROPA RYANAIR AVVERTE CHE, SE I VELIVOLI ORDINATI DA BOEING DOVESSERO DIVENTARE PIÙ CARI A CAUSA DEI DAZI, LA COMPAGNIA LOW-COST RIMANDERA’ L’ACQUISTO PREVISTO DEI “737 MAX”
La Cina aumenta l’intensità della guerra commerciale con gli Stati Uniti e ordina alle
compagnie aeree nazionali di non accettare ulteriori consegne di aerei realizzati da Boeing, il colosso aerospaziale Usa.
Mentre in Europa il ceo di Ryanair, la principale low cost, avverte che se i velivoli ordinati — sempre da Boeing — dovessero diventare più cari a causa dei dazi a quel punto potrebbe ritirare i 737 Max più in là nel tempo. Una doppia notizia negativa per Boeing che cerca da tempo di riprendersi dopo gli anni difficili tra incidenti, progetti di sviluppo rallentati e la concorrenza schiacciante dell’europea Airbus.
Secondo l’agenzia Bloomberg, che ha sentito fonti informate sulla questione, Pechino ha comunicato ai vettori cinesi — a partire da Air China, China Eastern e China Southern — di sospendere il ritiro dei Boeing ordinati, ma anche di non effettuare più alcun acquisto di attrezzature e pezzi di ricambio per aerei da aziende statunitensi. Tutto questo nell’ambito della guerra commerciale in corso con gli Stati Uniti: il presidente Donald Trump ha imposto dazi fino al 145% sui beni cinesi. E il gigante asiatico ha risposto con dazi del 125% sui beni americani.
Resterebbero decine di altri velivoli Boeing fermi nei parcheggi dei centri di assemblaggio. Il governo cinese — prosegue Bloomberg — starebbe valutando modi per fornire assistenza alle compagnie aeree che noleggiano aerei Boeing e che si trovano ad affrontare costi maggiori.
Perdere il mercato cinese, anche se temporaneamente, potrebbe complicare il percorso di risalita di Boeing. Secondo le stime soltanto la Cina rappresenterà il 20% della domanda globale di aeromobili nei prossimi vent’anni.
Con Airbus in rapida espansione e la comparsa — sui collegamenti nazionali e intra-asiatici — del Comac C919 (il velivolo di fabbricazione cinese che sfida l’A320 e il B737), il colosso statunitense rischia di perdere definitivamente quella fascia di clienti
In Europa, parlando con il Financial Times, il ceo di Ryanair Michael O’Leary, avverte che potrebbe ritardare la consegna degli aerei sempre di Boeing se questi dovessero diventare più costosi a causa dei dazi.
Si annuncia così il rischio di uno scontro — anche legale — tra produttori e compagnie su chi dovrà sostenere i costi derivanti dalla guerra commerciale. O’Leary, noto per ottenere da Boeing sconti sostanziosi, anche del 65-70% sui prezzi di listino, si aggiunge a quanto detto nei giorni scorsi da Ed Bastian, ceo di Delta Air Lines Ed Bastian: «Non abbiamo intenzione di pagare i dazi sui nuovi aerei Airbus — ha dichiarato — e rinvieremo le consegne degli aerei su cui gravano ulteriori aggravi di costi».
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
LA DUCETTA È IN CONTATTO “COSTANTE” CON URSULA VON DER LEYEN PER COORDINARE LA STRATEGIA IN VISTA DEL VIAGGIO DI GIOVEDÌ A WASHINGTON. E USA TONI DRAMMATICI: “FAREMO DEL NOSTRO MEGLIO, SONO CONSAPEVOLE DI QUELLO CHE RAPPRESENTO”… ANCHE NOI SAPPIAMO COSA RAPPRESENTI
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen si sono sentite ieri. E lo faranno ancora prima che la premier, domani pomeriggio, s’imbarchi alla volta di Washington per incontrare Donald Trump giovedì.
Trasferta complicata, ad alto tasso d’imprevedibilità, visti gli umori del tycoon che guida gli Usa e che ai piani alti del governo, a taccuini chiusi, ammettono candidamente di temere.
La presidente della commissione europea ieri ha fatto sapere, tramite la portavoce, che i contatti con Meloni sono «regolari», che von der Leyen
«accoglie con favore ogni azione degli stati membri», che «coordina da vicino», pur ribadendo che «la competenza a negoziare» sui dazi è in capo a Bruxelles.
Meloni e “VdL” hanno discusso di tariffe, ovvio. L’obiettivo è azzerarle, come noto, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma non solo.
Secondo fonti governative, la premier ha esposto alla tedesca i suoi dubbi sui rapporti con la Cina, che la commissione sta coltivando, sui rischi di una sovraproduzione da Pechino che potrebbe impattare in negativo sul mercato italiano e dell’Unione.
Su questo con von der Leyen non può esserci un’intesa ad ampio raggio: sì, la commissione ha lanciato una task force per controllare le importazioni da Est, ma von der Leyen non può ignorare le pressioni opposte che arrivano da Spagna e Francia, interessate al dialogo con il Dragone.
Il governo italiano non ha gradito anche il modo con cui l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Kaja Kallas, ha annunciato ieri un pacchetto di nuove sanzioni alla Russia, su gas e petrolio. Non per il merito, ma perché «per l’ennesima volta» la politica estone avrebbe messo gli stati membri, tra cui Roma, davanti al fatto compiuto, senza concertare tempi e modi dell’operazione.
Aspettando di capire quale sarà l’esito della trasferta americana, Meloni a von der Leyen può comunque offrire una sponda da mediatrice. Favorendo, secondo fonti italiane, anche un incontro fra Trump e la presidente della commissione.
Nello studio ovale la premier non conta di avere «trattamenti particolari » ma «sicuramente, per quello che le sarà possibile, può fare da facilitatore » nella trattativa Usa-Ue sulle tariffe commerciali, per dirla con il ministro meloniano agli Affari europei, Tommaso Foti.
(da La Repubblica)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
TRA DUE CRIMINALI NON C’E’ DA STUPIRSI
Gli Stati Uniti hanno comunicato agli alleati del G7 che non appoggeranno una
dichiarazione di condanna dell’attacco della Russia a Sumy. Lo riporta Bloomberg secondo cui il rifiuto sarebbe allo scopo di mantenere i negoziati con Mosca in carreggiata.
Secondo fonti dell’agenzia americana l’amministrazione del presidente Donald Trump avrebbe comunicato agli alleati di non poter firmare la dichiarazione di condanna dell’attacco, poiche’ sta “lavorando per preservare lo spazio per negoziare la pace”.
Il Canada, che detiene la presidenza del G7 quest’anno, ha comunicato agli alleati che senza l’approvazione degli Stati Uniti sarebbe impossibile procedere con la dichiarazione, secondo le stesse fonti.
L’ambasciata statunitense a Londra ha rifiutato di commentare. La Casa Bianca, il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e il governo canadese non hanno risposto immediatamente alle richieste di commento di Bloomberg News.
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
LA MAGGIORANZA DEGLI ELETTORI DI PD, LEGA, AVS E M5S SONO CONTRARI AL RIARMO: IL 48% DEGLI INTERVISTATI PREFERISCE LA CREAZIONE DI UN ESERCITO UNICO EUROPEO (POVERE ANIME BELLE: COME SI ARRIVA ALLA DIFESA UE SE NON UNIFORMANDO MEZZI, FORNITURE, ADDESTRAMENTO E COMANDO E PARTENDO DA UN INIZIALE RIARMO?)
La proposta di rafforzare le capacità militari dell’Unione Europea non sembra trovare consenso tra gli italiani: il 62% si dichiara contrario, mentre il 30% è favorevole e l’8% non esprime un’opinione. E’ quanto emerge da un sondaggio condotto da YouTrend per SkyTg24.
Tra gli elettori di Fratelli d’Italia e Forza Italia la percentuale di favorevoli (49% FdI, 56% FI) è in realtà maggiore dei contrari (45% FdI, 41% FI), mentre l’opposto accade per gli elettori di Pd, Lega, Avs e M5S. Interrogati
su come sarebbe meglio investire i fondi del piano Ue, il 48% degli intervistati preferisce la creazione di un esercito unico europeo, mentre il 24% opterebbe per il potenziamento delle forze armate dei singoli Stati membri (il 28% non sa).
Se il Governo decidesse di aumentare le spese militari, inoltre, gli italiani individuano come priorità l’assunzione di nuovo personale arruolato (24%), seguita dall’acquisto di nuovi armamenti come missili, aerei e navi (20%), dalla costruzione o ammodernamento di nuove basi militari (13%) e dall’aumento degli stipendi del personale militare (8%).
Tuttavia, il 35% degli intervistati dichiara di non avere un’opinione precisa in merito. Infine, l’ipotesi di reintrodurre la leva militare obbligatoria per i neomaggiorenni divide l’opinione pubblica: il 53% si dichiara contrario, mentre il 41% è favorevole e il 6% non esprime un’opinione. Solo tra gli elettori di FdI i favorevoli (55%) superano i contrari (44%).
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
CARNEY HA PRIMA AUMENTATO IL PORTAFOGLIO CANADESE DI OBBLIGAZIONI DEL GOVERNO USA FINO A 350 MILIARDI DI DOLLARI, POI HA COINVOLTO GLI ALLEATI (CHE CON OTTAWA POSSIEDONO PARTE DEGLI 8.530 MILIARDI DI DEBITO STATUNITENSE CHE E’ IN MANI STRANIERE)… SE TRUMP NON SI FOSSE DATO UNA CALMATA, IL CANADA NON SI SAREBBE LIMITATO AI CONTRO-DAZI MA AVREBBE SFODERATO UN’ARMA BEN PIÙ DOLOROSA: LA SVENDITA DI QUEI TITOLI
Dietro l’improvviso dietrofront di Donald Trump sui dazi ci sarebbe lo zampino del
neopremier canadese Mark Carney, il Grande Scacchista della finanza internazionale. Sarebbe stato l’ex governatore di ben due Banche centrali — di Canada e d’Inghilterra — che quest’anno presiede pure il G7, a coordinare l’emorragia dei titoli del Tesoro Usa che ha convinto il tycoon a decretare una «tregua» nella sua guerra commerciale.
Carney, successore del liberale Trudeau, s’è mosso fin dalle prime avvisaglie della furia di Trump, che minacciava di trasformare il Canada nel 51esimo stato Usa. Dapprima ha aumentato il portafoglio canadese di obbligazioni del governo Usa fino a 350 miliardi di dollari, quindi ha coinvolto nella manovra gli alleati che con Ottawa possiedono parte degli 8.530 miliardi di debito statunitense in mani straniere: a Berlino, Parigi, Amsterdam e pure a Tokyo (il Giappone da solo detiene oltre mille miliardi di Bot a stelle e strisce) lo hanno ascoltato con attenzione.
Se Trump non si fosse dato una calmata, il Canada non si sarebbe limitato a reagire con contro-dazi. Avrebbe sfoderato un’arma ben più dolorosa: la svendita di quei titoli. Altri finanziatori dell’abnorme debito pubblico americano da oltre 34.000 miliardi di dollari lo hanno seguito, inviando un segnale piuttosto convincente ai mercati. Prestiti più costosi sarebbero diventati ingestibili per la Casa Bianca e avrebbero indebolito il dollaro.
Il patto silenzioso fra Canada, Giappone, Unione europea (e forse perfino la Cina) è un grande successo per Carney, che ora si gioca in patria la premiership alle elezioni del 28 aprile. La sua fama di economista navigato sembra aver convinto anche i canadesi: il Partito liberale, che a dicembre con Trudeau era crollato a 20 punti percentuali sotto il Partito conservatore, con Carney è tornato al comando dei sondaggi, con 4-5 punti di vantaggio. Sarà una sfida al photo finish.
(da “Corriere della Sera”)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
COSÌ, IL BLOCCO DECISO IERI DA PECHINO DELL’EXPORT DI SETTE DEI DICIASSETTE ELEMENTI CRUCIALI PER L’INDUSTRIA TECH E DELLA DIFESA, RISCHIA DI INCEPPARE IL MONDO… SE LO STOP PROSEGUIRÀ, NEL GIRO DI DUE O TRE MESI LE INDUSTRIE AMERICANE AVRANNO GUAI SERI (NON CI SONO ALTERNATIVE)
Non sono terre (sono in verità metalli) e non sono neppure così rare. Ma sono comunque fondamentali in decine di settori industriali, spesso a elevato tasso di innovazione. La decisione della Cina, annunciata il 4 aprile e ora operativa, di imporre restrizioni all’esportazione delle terre rare rischia di provocare un altro choc nelle catene di approvvigionamento globali.
Pechino richiede licenze speciali per l’export di sette terre rare pesanti, una sottofamiglia che comprende quelle con numero atomico più alto. Si tratta di samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio. Il rilascio dei lasciapassare va a rilento e il risultato, di fatto, è il blocco delle spedizioni.
La dipendenza dell’Occidente da questi minerali viene esposta in maniera brutale. A essere impattati sono settori chiave come l’automotive, l’industria della difesa e le tecnologie per la transizione green.
Quanto possono resistere senza questi metalli? «Le terre rare sono usate in tantissimi ambiti: elettronica di consumo, fibre ottiche, laser, sensori, display, catalizzatori, magneti permanenti, superconduttori, componenti di veicoli ibridi. Ne rimane fuori poco del mondo tecnologico di oggi.
Per questo un blocco totale delle esportazioni sarebbe un’arma nucleare dal punto di vista economico, un’arma di ultima istanza» dice Giuliano Noci, professore ordinario al Politecnico di Milano e prorettore del Polo territoriale cinese dal 2011.
Le terre rare sono il vero cuore invisibile della tecnologia moderna e la loro lavorazione è particolarmente complessa. «La loro estrazione è estremamente inquinante: per ogni tonnellata di terre rare si producono circa 2.000 tonnellate di scorie tossiche», spiega Noci.
Questo è uno dei segreti dietro al dominio cinese nel settore, frutto di decenni di politica industriale strategica, di investimenti mirati e di vantaggi competitivi legati alla volontà di sopportare i pesanti costi ambientali.
Le cifre del 2024 sono eloquenti: la Cina controlla circa il 70% dell’estrazione mineraria globale (con una produzione stimata di 270.000 tonnellate su un totale mondiale di 390.000). Gli Stati Uniti, secondi produttori, estraggono 45.000 tonnellate, seguiti da Australia e Birmania. Ma il vero collo di bottiglia, e fonte del potere cinese, è la fase di lavorazione e raffinazione.
Pechino controlla quasi il 90% della capacità globale
Questo dominio è praticamente totale (99,9%) per le terre rare pesanti, come disprosio e terbio: anche i minerali estratti altrove vengono spesso spediti in Cina per la raffinazione finale. Lo stop all’export si concentra come detto proprio su quelle pesanti, utilizzate nei cosiddetti magneti permanenti.
«Le terre rare hanno proprietà magnetiche uniche e imbattibili — spiega Nicola Armaroli, chimico e dirigente di ricerca presso il Cnr —. Non è possibile sostituirle facilmente, ad esempio, nell’automotive, dove sono impiegate nei veicoli elettrici che utilizzano motori a magneti permanenti, che non sono tutti ma circa il 70-80% del totale».
Altri settori a rischio? «Tutti quelli più avanzati e a maggior valore aggiunto: tecnologie pulite come turbine eoliche, ma anche aerospazio e difesa per sistemi radar, sonar e missili guidati — spiega Giuliano Noci —. Noi siamo totalmente dipendenti dalla Cina perché mentre l’Occidente cercava petrolio, loro 20 anni fa stringevano accordi per i giacimenti di terre rare. Hanno visto più lontano».
Quanto possono reggere gli Stati Uniti e la stessa Europa se messe di fronte a un embargo pressoché totale? Difficile valutare, anche per gli addetti ai lavori, il totale delle scorte occidentali, perché molte aziende non le dichiarano. Diverse imprese americane ed europee, per ottimizzare i costi, comunque operano con magazzini minimi.
Il Vecchio Continente sconta decisioni del passato. «Storicamente le terre rare sono state scoperte in Europa — aggiunge Armaroli —. In Scandinavia in particolare, basti pensare a nomi come scandio o terbio, itterbio, ittrio ed erbio, tutti legati alla miniera di Ytterby in Svezia. Tutti separati in Europa perché la chimica si faceva qui.
Poi, cent’anni fa, abbiamo deciso che l’estrazione mineraria andava fatta altrove, nelle colonie». In Scandinavia e anche in Serbia esistono riserve già individuate, ma trasformarle in miniere attive è un processo lungo, decennale, e richiede ripensamenti dolorosi.
«Per l’Occidente sarà una dura presa di realtà: se vogliamo questo livello di progresso tecnologico, dobbiamo accettare di inquinare anche noi per produrre queste materie» chiosa Giuliano Noci. E il riciclo? Anche qui Armaroli ci riporta coi piedi per terra: «È molto difficile recuperare i pochi milligrammi di terre rare usati nei dispositivi elettronici, a differenza, ad esempio, dei chilogrammi di litio in una batteria. Avviare una filiera di riciclo è complesso, richiede grandi investimenti e tempi lunghi».
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE D’ATENEO: “LA VERITA’ CI GUIDA NEL DIFFICILE CAMMINO CHE CI ATTENDE”
«Il nostro motto – Veritas, ovvero la verità – ci guida nel difficile cammino che ci
attende. Cercare la verità è un viaggio senza fine. Ci richiede di essere aperti a nuove informazioni e prospettive diverse, di sottoporre le nostre convinzioni a un continuo esame e di essere pronti a cambiare idea. Ci spinge ad affrontare il difficile compito di riconoscere i nostri difetti, così da poter realizzare appieno le promesse dell’Università, soprattutto quando tali promesse sono minacciate». Questo è un passaggio della lettera pubblicata sul sito dell’università con cui il presidente Alan M. Garber spiega che non modificherà i propri programmi o le politiche di ammissione per rispondere alle richieste dell’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump. Anche se così potrebbe perdere fondi federali per 2,2 miliardi di dollari.
Tra le richieste dell’amministrazione Trump, considerate inaccettabili per l’ateneo statunitense, c’è quella di modificare radicalmente le politiche di assunzione, rivedere i programmi accademici di diverse facoltà con l’assunzione di consulenti esterni approvati dal governo e denunciare immediatamente alle autorità federali gli studenti stranieri che commettono violazioni. Il presidente Garber nella lettera indirizzata alla comunità di Harvard ha definito le richieste «senza precedenti» aggiungendo che la sua università «non rinuncerà alla sua indipendenza né ai suoi diritti costituzionali».
Una svolta decisa dopo che nei scorsi mesi Harvard aveva assecondato alcune richieste dell’amministrazione Trump volte a «combattere l’antisemitismo nelle università» dopo le proteste nei campus contro l’invasione di Israele della Striscia di Gaza. Sebbene alcune delle richieste delineate dal governo siano volte a combattere l’antisemitismo, la maggior parte parla di una regolamentazione governativa diretta delle «condizioni intellettuali» ad Harvard. «Vi incoraggio a leggere la lettera per comprendere meglio le richieste senza precedenti avanzate dal governo federale per controllare la comunità di Harvard – scrive il presidente -. Tra queste l’obbligo di “verificare” i punti di vista del nostro corpo studentesco, docente e personale, e di “ridurre il potere” di alcuni studenti, docenti e amministratori presi di mira per le loro opinioni. Abbiamo informato l’amministrazione, tramite il nostro consulente legale, che non accetteremo la loro proposta di accordo».
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2025 Riccardo Fucile
DUE ANNI DI GUERRA IN SUDAN, LA DENUNCIA DI MEDICI SENZA FRONTIERE
Il Sudan entra nel suo terzo anno di guerra. Un conflitto brutale, combattuto tra le Forze di Supporto Rapido (RSF) e le Forze Armate Sudanesi (SAF), che sta schiacciando la popolazione civile. Vittime di violenze sistematiche, bombardamenti incessanti, milioni di persone sono state costrette alla fuga, senza accesso a cibo, acqua potabile o cure mediche essenziali. Il punto con Medici Senza Frontiere.
Mentre il mondo guarda altrove, il Sudan entra nel suo terzo anno di guerra. Combattuto tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), il conflitto ha devastato il tessuto sociale del Paese, lasciando dietro di sé milioni di vittime invisibili, soprattutto tra i civili. In questi due anni, infatti, entrambe le fazioni hanno condotto attacchi indiscriminati su aree densamente popolate, seminando tra la popolazione e terrore. Le RSF e i loro alleati sono stati accusati di crimini atroci: stupri sistematici, esecuzioni sommarie, rapimenti e occupazione di strutture sanitarie. Entrambe le parti hanno bloccato i convogli umanitari, assediato città e distrutto infrastrutture civili essenziali come ospedali e impianti idrici.
Le conseguenze sono state disastrose: il 60% della popolazione – oltre 20 milioni di persone – necessita oggi di assistenza umanitaria. In diverse
regioni del Sudan, la carestia è una realtà certificata, rendendo il Paese l’unico luogo al mondo dove tale stato d’emergenza è ufficialmente riconosciuto in più aree contemporaneamente.
Chi non ha mai abbandonato il Sudan è Medici Senza Frontiere (MSF), presente in 10 delle 18 regioni con oltre 33 strutture sanitarie operative. Allo scoccare del terzo anno di guerra l’ONG lancia un nuovo, disperato appello: garantire la protezione dei civili e delle équipe mediche, facilitare l’accesso degli aiuti umanitari e porre fine alle restrizioni che ostacolano la distribuzione di farmaci, forniture e personale sanitario.
“Dopo tre anni – spiega a Fanpage.it Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi MSF in Sudan – la guerra continua a presentarsi ogni giorno con la stessa intensità e violenza. Ovviamente tutti i conflitti sono brutali, ma quello in Sudan si è distinto per una caratteristica particolarmente drammatica: il continuo spostamento delle linee del fronte, che hanno toccato soprattutto le aree urbane a partire dalla capitale, Khartoum”.
Si tratta, aggiunge Oppizzi, di un unicum nella lunga e travagliata storia sudanese, attraversata da innumerevoli guerre come quella del Darfur agli inizi degli anni Duemila, o prima ancora nel sud del Sudan. “Ma non si era mai combattuto a Khartoum. Mai, in cento anni. E questo ha segnato una svolta drammatica. L’inizio del conflitto nella capitale ha avuto un impatto immediato e devastante su milioni di persone. Prima della guerra, Khartoum contava oltre sette milioni di abitanti. Possiamo solo immaginare cosa significhi, da un giorno all’altro, vedere esplodere un conflitto nella propria città: ospedali pieni di feriti sin dalle prime ore, quartieri residenziali trasformati in zone di combattimento, e poi un’enorme ondata di sfollati. La gente è scappata di casa lasciandosi tutto alle spalle, nel giro di poche ore. È una tragedia umanitaria enorme, che continua purtroppo senza tregua”.
Un quinto della popolazione sfollata: come tutti gli abitanti della Lombardia in fuga
I numeri sono davvero sconvolgenti. In Sudan, una persona su cinque ha dovuto lasciare la propria casa: stiamo parlando di oltre 10 milioni di persone, “più dell’intera popolazione della Lombardia”, afferma Oppizzi. “La maggior parte di loro, circa 8 milioni, sono sfollati interni. E spesso
non si tratta di un singolo spostamento: molte persone sono state costrette a fuggire più volte. Il conflitto, infatti, è rimasto molto dinamico, ha continuato ad avanzare e colpire nuove aree. Penso a chi è scappato da Khartoum per rifugiarsi più a sud, sperando in un po’ di sicurezza… e poi mesi dopo si è ritrovato di nuovo sotto attacco. Abbiamo incontrato pazienti nei nostri centri medici, in zone molto lontane dalla capitale, che ci raccontano storie tremende: famiglie intere fuggite da un giorno all’altro, che nel giro di un anno si sono dovute spostare più volte. È un dramma umano devastante”.
E non va meglio per chi è riuscito a fuggire oltre confine. Oltre 800mila rifugiati sudanesi sono entrati in Ciad, dove vivono in campi improvvisati, completamente dipendenti dall’assistenza umanitaria. Situazione analoga in Sud Sudan. Ma questi due stati faticano già da soli a provvedere ai bisogni della propria popolazione. Si può solo immaginare quanto sia difficile accogliere centinaia di migliaia di persone in fuga, con risorse quasi inesistenti.
L’assedio e la scarsità di aiuti umanitari
In questo quadro gli aiuti umanitari si stanno rivelando assolutamente insufficienti a causa dei blocchi totali imposti sia dalle Sudanese Armed Forces che dalle Rapid Support Forces. “La violenza è costante e spietata – aggiunge il funzionario di MSF -. Solo questo weekend, ad esempio, nel campo di Zanzam le RSF hanno attaccato un centro sanitario, uccidendo membri dello staff e costringendo migliaia di persone a fuggire di nuovo. A febbraio, un mercato di Khartoum è stato bombardato: l’ospedale che supportiamo ha ricevuto più di 150 feriti e decine di morti. Per chi vive lì, uscire di casa per andare al mercato può significare non tornare più”.
Sembra di leggere, nelle parole di Oppizzi, le cronache che ogni giorno arrivano dalla Striscia di Gaza. “Paragonare crisi diverse non ci piace, perché ogni paziente, ogni individuo che assistiamo, conta. Ma sì, quello che sta accadendo in Sudan è qualcosa che lascia davvero senza parole. Le Nazioni Unite parlano di oltre 20 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria. Un dato su tutti: una persona su cinque è sfollata. È una crisi di dimensioni enormi. Oggi, non c’è Paese al mondo con una popolazione più esposta al rischio del Sudan”.
L’epidemia di morbillo, il colera e la malnutrizione
Agli effetti diretti del conflitto si devono aggiungere quelli indiretti: “Ci sono milioni di persone che vivono in aree non ancora colpite dai combattimenti, ma che comunque soffrono. Dopo due anni di guerra, le strutture sanitarie non ricevono più forniture dal Ministero della Salute, il personale medico non è pagato da mesi. Questo significa, ad esempio, niente vaccini. Oggi stiamo fronteggiando un’epidemia di morbillo nel West Darfur: ogni settimana raddoppiamo i letti del nostro centro di isolamento pediatrico. E stiamo lanciando una campagna di vaccinazione per 200mila bambini sotto i 15 anni. Il morbillo ha una mortalità dell’1%, quindi parliamo di salvare almeno 2mila vite”.
E come se non bastasse c’è stato anche il colera. “Negli scorsi mesi abbiamo risposto a un’epidemia importante. Il colera è endemico in alcune aree del Sudan, ma con questi numeri di sfollati e condizioni igienico-sanitarie disastrose, è facile capire come il terreno sia diventato fertilissimo per la diffusione della malattia. È una situazione catastrofica, e ciò che rende tutto più drammatico è la risposta internazionale: totalmente insufficiente. Ovunque guardiamo, vediamo bisogni urgenti e insoddisfatti”.
Infine la malnutrizione: “È una delle emergenze più gravi. E purtroppo peggiorerà nei prossimi mesi. La malnutrizione ha una stagionalità precisa: peggiora durante la stagione delle piogge, quando le scorte alimentari finiscono e il raccolto non è ancora arrivato. Il conflitto ha colpito duramente gli stati di Sennar e Gezira, che sono il granaio del Sudan. Le linee del fronte interrompono gli scambi commerciali, aumentano i prezzi, riducono la disponibilità di cibo. In alcune aree, come il campo di Zamzam nel Darfur settentrionale o Khartoum, abbiamo visto livelli di malnutrizione agghiaccianti. Alcune zone sono sotto assedio: niente cibo, niente aiuti. E con l’arrivo della malaria – che si aggrava nei bambini malnutriti – la situazione rischia di diventare ancora più letale. È fondamentale che la risposta alla malnutrizione sia al centro di ogni intervento da qui in avanti”.
I tagli dei governi e l’eroismo degli operatori sudanes
In un’intervista rilasciata da Vittorio Oppizzi a Fanpage.it qualche mese fa
il funzionario di MSF aveva denunciato la scarsa efficienza delle Nazioni Unite nel fronteggiare la crisi sudanese. Ebbene, la situazione è persino peggiorata dopo i tagli di Trump a USAID. “I fondi per gli aiuti umanitari sono sempre meno. La riduzione è iniziata con l’amministrazione Trump, ma non è stata l’unica. Altri governi hanno seguito la stessa linea. Il Sudan non riceveva abbastanza attenzione nemmeno prima dei tagli della Casa Bianca. Ora, alcune ONG sono state costrette a interrompere le loro attività. E proprio per questo è ancora più importante l’indipendenza di azione di organizzazioni come Medici Senza Frontiere. Grazie al sostegno di milioni di donatori privati, possiamo continuare a operare, senza dover dipendere totalmente dai fondi pubblici. Per noi il Sudan resta una priorità”.
Un ruolo decisivo, però, è dato dall’impegno quotidiano sul campo di migliaia di operatori umanitari, a partire dai locali. “Oggi lavorano con noi oltre 1800 sudanesi – spiega Oppizzi -. Sono medici, infermieri, autisti, meccanici, guardiani. Non solo sono vittime della crisi, ma hanno scelto di esporsi ulteriormente, lavorando con noi per aiutare gli altri. Alcune strutture sanitarie sono state attaccate. Nonostante i rischi, loro continuano. È un vero atto di solidarietà verso il proprio popolo, ed è grazie a loro che la nostra azione umanitaria in Sudan continua”.
(da Fanpage)
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