A DESTRA S’AVANZA UNA SCHIERA DI LEADER TIFOSI DI NETANYAHU
IL SOSTEGNO E’ DETTATO DA PURA OPPORTUNITA’, COME QUELLO DI CANCELLARE UN PASSATO IMBARAZZANTE
L’ultima serie è stata Marine Le Pen. Invitata dalla rete televisiva Israel 24, la storica leader del Rassemblement National ha tenuto ad affermare il suo sostegno senza riserve all’azione bellica che il governo di Tel Aviv va conducendo nella Striscia di Gaza, giustificandola in nome della necessità della lotta al terrorismo di Hamas. Gli stessi argomenti che, prima di lei, tutti gli esponenti dei partiti nazional-populisti e/o sovranisti europei hanno sostenuto sin
dall’inizio della rappresaglia scatenata dall’esercito israeliano dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, senza modificare di una virgola il loro atteggiamento di fronte alla piega sempre più sanguinosa assunta dal conflitto.
L’evento mediatico non ha mancato di sollevare una vivace polemica da parte dei giornali della sinistra francese, che hanno interpretato le dichiarazioni della candidata tuttora in testa nei sondaggi in vista della prossima elezione presidenziale (malgrado la recente condanna in primo grado all’ineleggibilità) come la prova di un’identità di fondo fra le sue convinzioni e i suoi programmi e quelli di Netanyahu. E rilanciato l’immagine dell’esistenza di un’estrema destra ramificata anche oltre i confini europei, che al di là di secondarie divergenze tattiche e accorgimenti opportunistici condividerebbe una piattaforma valoriale fatta di culto della forza, autoritarismo, disprezzo dei diritti umani, nazionalismo aggressivo e razzismo. Una rappresentazione che ha il pregio, utilissimo in politica, di disegnare i contorni compatti e lineari del Nemico e indicare i punti in cui è più facile attaccarlo.
Chi conosce le vicende di questa frastagliata area politico-ideologica per averle seguite e studiate in tempi in cui i loro attuali successi apparivano impensabili fatica tuttavia a sottoscrivere una visione così semplicistica.
Le molte oscillazioni che in passato hanno caratterizzato le prese di posizione di queste formazioni politiche sui conflitti mediorientali suggeriscono una lettura diversa dei loro comportamenti attuali. Si pensi alla Lega di Bossi, che per molti anni ha inserito i palestinesi fra i popoli senza patria di cui occorreva sostenere i diritti e le rivendicazioni – invitandone addirittura una rappresentativa a un campionato mondiale di calcio delle “nazioni proibite” che avrebbe dovuto fare da contraltare ai fasti “statalisti” di Italia 90 –, salvo
invertire precipitosamente la rotta dopo l’11 settembre 2001. O a un altro Le Pen, Jean-Marie, capace di sostenere a spada tratta il governo di Menachem Begin ai tempi dei massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila e poi di opporsi con eguale vigore alle crociate occidentali contro l’Iraq. O, ancora, al Msi di Almirante, che pur tenendo una linea costantemente occidentalista e filo-israeliana, recepiva nei dibattiti congressuali mozioni di minoranza che auspicavano stretti rapporti di cooperazione fra l’Italia e il mondo arabo e vedeva gran parte dei suoi militanti più giovani apertamente schierati dalla parte palestinese.
In realtà, l’atteggiamento di queste destre dinanzi al conflitto israelo-palestinese, perlomeno da quando alcune di esse sono uscite dall’originaria condizione di marginalità, è sempre stato contraddistinto da considerazioni di pura opportunità, espresse lungo tre diverse e convergenti direttrici.
Su un primo versante ha pesato fortemente la necessità di scrollarsi di dosso l’accusa, spesso loro rivolta dagli avversari, di coltivare nostalgie per regimi, come quelli fascisti, che hanno adottato politiche antiebraiche. Per dissipare queste ombre, la reazione dei presunti eredi di Salò, di Vichy o del Terzo Reich è sempre stata quella di schierarsi a tutti i costi con lo Stato ebraico, fin dai tempi della “guerra dei sei giorni” del 1967, quando in Italia il senatore missino Alessandro Lessona, già sottosegretario alle colonie del governo Mussolini, propose all’ambasciata israeliana la formazione di una brigata di volontari del suo partito a sostegno dello Stato ebraico. Un esempio caratteristico, ma tutt’altro che unico, in questo senso è stato fornito da Alleanza nazionale e dal percorso del suo leader, dalle tesi congressuali di Fiuggi fino alle note polemiche successive alla visita di Fini allo Yad Vashem. È tuttora questo il principale motivo per cui tutti gli esponenti dei partiti sovranisti
chiudono gli occhi su tutto ciò che di orribile sta accadendo a Gaza. Per certi versi, lo si può ritenere un effetto perverso dell’uso strumentale del mito dell’eterno ritorno dell’“Ur-fascismo” coniato da Umberto Eco che è tornato di moda negli ambienti progressisti dopo la nascita del governo Meloni.
Un secondo aspetto della questione è legato non solo alla necessità di non ingrossare l’ondata di discredito che sta investendo un governo che, come quello di Netanyahu, è descritto (ed è) di destra, e in certe sue componenti di destra estrema, indebolendo l’immagine complessiva dell’area alla quale nella maggioranza dei casi ci si vanta di appartenere, ma anche e soprattutto alla possibilità di ribaltare sugli avversari un’accusa di cui a lungo si è dovuto sopportare il fardello. Così, rinunciando a distinguere fra avversione agli ebrei e opposizione alle politiche di un governo che intensifica la colonizzazione della Cisgiordania e tollera le violenze e i soprusi dei coloni – quando non le sostiene apertamente –, si fa passare per atto antisemita ogni manifestazione di appoggio alle rivendicazioni palestinesi. E, partendo dalle sue frange più radicali, si finisce con l’estendere questa imputazione all’intera sinistra, anche per trovare un terreno d’intesa con settori della destra più moderata e centristi, dove il favore per Israele è profondamente diffuso.
Un terzo e fondamentale fattore della solidarietà delle destre populiste e sovraniste con l’attuale governo israeliano è l’utilizzo delle accuse di terrorismo ad Hamas – e del sostegno a chi mira a sradicarla, anche con i bombardamenti indiscriminati contro la popolazione civile – nel contesto più ampio della polemica contro la penetrazione islamica in Occidente e la conseguente crescita delle società multiculturali, da sempre cavallo di battaglia di queste formazioni. L’attacco alle Torri gemelle ha costituito in questo senso, come accennavamo, un punto di svolta, rafforzato da tutte le
conseguenze delle operazioni militare condotte in Afghanistan e in Iraq. La proliferazione degli attentati sul suolo europeo e la costituzione dell’Isis hanno favorito la crescita, nell’opinione pubblica, della percezione dell’Islam come di una duplice minaccia: alla sicurezza personale e all’identità culturale, e hanno rafforzato la presa delle argomentazioni che vedono nell’immigrazione di massa il cavallo di Troia di forze ostili alla civiltà occidentale e allo stile di vita che ne caratterizza le società. Ne è uscita perciò rafforzata l’immagine di un Israele coraggioso baluardo guerriero contro l’incipiente barbarie araba: un’immagine che ha uno stretto rapporto con le nostalgie colonialiste e che è stata coltivata in una parte degli ambienti dell’estrema destra, soprattutto nel caso francese, fin dai tempi del conflitto per il Canale di Suez, nell’autunno del 1956.
Per l’effetto combinato di tutti questi motivi, le destre conservatrici, populiste o sovraniste sono oggi costrette, quasi da un riflesso condizionato, a schierarsi senza remore dalla parte del governo Netanyahu qualunque siano le sue scelte a limitarsi a blandi auspici di cessazione della carneficina in atto e a opporsi all’ipotesi di un riconoscimento, peraltro meramente simbolico, di uno Stato palestinese. Non si tratta di un matrimonio d’amore, ma di un connubio fondato su sostanziosi interessi; tuttavia l’esperienza insegna che è proprio in casi di questo genere che l’unione è più solida.
Marco Tarchi
(da ilfattoquotidiano.it)
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