“A LAMPEDUSA NON CI SONO EROI, SOLO MOLTE PERSONE PER BENE”
I RICORDI E LE EMOZIONI DELL’ANTROPOLOGO MARCO AIME
Frontiera, approdo, fine e porta dell’Europa, linea di demarcazione tra vita e morte, Shangri-la della disperazione, ultima Thule della speranza.
E soprattutto terra nella quale vengono al pettine, e si sciolgono, i nodi più intricati della contemporaneità : la paura dell’altro, per cominciare. I tanti razzismi, i pregiudizi religiosi, la minaccia di masse di clandestini, che si addensano lungo i confini mettendo in pericolo la sicurezza delle nazioni
«Ma come mai al Nord moltissima gente protesta contro i continui sbarchi di migranti, e rifiuta di accogliere gente fuggita dalla guerra, e da chi sta sulla prima linea della più tragica emergenza internazionale, tutti i giorni e da quasi trent’anni, non si è mai udita una lamentela?»
È partito da questa domanda l’antropologo torinese Marco Aime. Per capire perchè ha trascorso quasi tre anni a Lampedusa. Ha parlato con la gente dell’isola, ha registrato le loro storie. Ha scavato ben oltre quella solidarietà tipica della gente di mare. E ha riunito il risultato nel saggio “L’isola del non arrivo. Voci da Lampedusa” (Bollati Boringhieri), un collage di memorie, ricordi, impressioni. Come un diario di bordo dal centro del Mediterraneo
«Escludendo che questa gente sia migliore di altra geneticamente, e non volendo proporre una lettura univoca e retorica dei “lampedusani tutti buoni”, l’unica strada per capire come mai quest’isola abbia dimostrato, in tutti questi anni, più propensione ad accogliere che a respingere, era ascoltare. La mia ricerca ha scelto perciò il linguaggio narrativo. Attraverso le diverse voci degli abitanti ho cercato di restituire la pluralità dell’isola».
Una terra lunga appena sei chilometri, abitata da 5.500 abitanti, soprattutto pescatori, di colpo balzata all’attenzione mondiale. A partire dalla tragedia della Tabaccara.
«Sì. Lo spartiacque è stato proprio il 3 ottobre 2013: la tragedia del barcone che, a poche centinaia di metri dalla spiaggia, si rovesciò lasciando in mare 368 morti accertati. Quel giorno è diventato un punto fisso nella memoria della gente dell’isola. Basta evocarlo, non serve aggiungere l’anno. Dire 3 ottobre è diventato come dire Natale, Pasqua, Capodanno: fa parte del calendario dell’isola e dell’esperienza di ognuno. Contemporaneamente, un fazzoletto di terra dimenticata, assente – come mi ha fatto notare il parroco – persino dalla cartina geografica del meteo in tv, diventò di colpo noto in tutto il mondo come la frontiera estrema dell’Europa. E da quel momento Lampedusa si ritrovò investita di una responsabilità fin troppo grande».
l via vai di politici. I funerali di Stato, con le polemiche di una cerimonia ad Agrigento, senza sopravvissuti. Le televisioni di tutto il mondo puntate sullo spettacolo dell’isola. Lei sostiene che proprio questi arrivi hanno finito per tratteggiare l’identità dell’isola
«Di sicuro l’identità di Lampedusa è legata fortemente alle migrazioni, che l’hanno fatta conoscere dappertutto. Persino il turismo ha avuto un boom, dopo questi fatti. Che piaccia o meno, l’immagine di Lampedusa non può essere disgiunta da quella di chi arriva dal mare. I migranti sono diventati uno specchio nel quale guardarsi e, anche se non per tutti, riconoscersi. Del resto, quando una piccola comunità , per un tempo tanto lungo, è sottoposta ad eventi simili, è inevitabile che si definisca su quella base. Credo anche che quando un giorno tutto ciò sarà finito, quando i riflettori saranno spenti, e gli operatori umanitari, gli osservatori, gli studiosi richiamati dal fenomeno dell’immigrazione andranno via, l’isola dovrà ricominciare a definirsi».
In realtà , tutta la storia di Lampedusa, a leggere il suo libro, è scandita dagli arrivi
«Da sempre. Fino al 1843 l’isola era stata proprietà privata dei principi Tomasi, gli antenati dell’autore del Gattopardo. Trattarono la vendita con gli inglesi, che ne avevano intuito la posizione strategica per i commerci, ma il re di Napoli si oppose e decise di acquistarla per farne una colonia agricola nel Regno delle due Sicilie. Emanò un editto e invitò allora gli abitanti della Sicilia e di Pantelleria a popolarla. Arrivarono un centinaio di persone, e così nacque la prima comunità di Lampedusa. Qui tutti vengono da fuori. Persino oggi: nessuno nasce sull’isola. Anche perchè non c’è neppure il reparto di maternità . Per partorire le donne devono trasferirsi in Sicilia».
Persino i santi qui sono stranieri, si sottolinea: san Calogero, ad esempio, era tunisino. E san Gerlando veniva da Besanà§on
«In un’epoca in cui l’idea, assurda, di purezza sembra tornare di moda in tutta Europa, mi sembra che un’identità forgiata sulla mescolanza sia una lezione di civiltà altissima. Tutti, del resto, veniamo da un viaggio. Spostarsi, migrare è la cifra della nostra storia. La ricerca di risorse per sopravvivere, il bisogno di nuovi spazi, la necessità di fuggire da qualcosa o da qualcuno, la curiosità hanno sempre indotto l’uomo a muoversi da un posto all’altro».
Il suo saggio suggerisce di ripensare ai migranti a partire dalla terminologia. Qui la gente arriva, approda, naufraga, sottolinea: non sbarca
«Emergenza, invasione. Tutti termini che inducono ansia. Poi se vai a vedere le cifre, quelle vere, si scopre che è solo una minoranza a raggiungere l’Italia dal Mediterraneo. La gente da qui passa. Arriva perchè è il primo approdo. Ma vorrebbe andar via, subito, altrove. Invece, se Lampedusa a sud è confine da superare per entrare, a nord lo è per uscire. Gli abitanti di qui lo sanno. Quei pochi giorni in cui gli immigrati dovrebbero trattenersi a volte diventano settimane, mesi. E i lampedusani si sono sempre prodigati per dar loro una mano».
Ha intervistato molti pescatori, i ragazzi della Guardia costiera, i volontari del collettivo Askavusa, l’instancabile dottor Bartolo col suo ambulatorio sul mare. E gente comune, pronta ad aprire le porte di casa; a cercare di capire da Internet da cosa fuggano queste persone. Di recente, sono stati i lampedusani stessi a denunciare le vergognose condizioni nelle quali sono costretti a vivere un centinaio di tunisini, a hotspot chiuso. Mai una protesta
«Non sto dicendo che Lampedusa sia il paradiso. Ma se opposizione c’è non è mai contro i migranti ma contro le istituzioni, quando sono incapaci di gestire i numeri e dare un’assistenza adeguata. Ci sono stati momenti di tensione: contro i media, ad esempio, per aver dato un’immagine dell’isola distorta, pericolosa per il turismo. O nel 2011, in occasione della cosiddetta “invasione dei tunisini”, ma sempre per motivi molto specifici: anche in quel caso la maggior parte dei pasti ai migranti fu fornita dalla gente. La verità è che se ti ritrovi lì, sul molo Favaloro; se vedi con i tuoi occhi chi è sfuggito alla morte, non esistono teorie, statistiche, clandestini. La priorità ti è chiara: salvare vite. Sa cosa mi hanno detto tutti i pescatori? “Prima di tutto io li salvo, poi a terra si vedrà ”. A Lampedusa non ci sono eroi. Ci sono solo molte persone per bene».
(da “L’Espresso”)
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