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“ABBIAMO SALVINI E MELONI, NON PUOI SPERARE CHE DIVENTINO CHURCHILL E LA THATCHER”

INTERVISTA AL POLITILOGO CAMPI SULLE DIFFICOLTA’ DEL CENTRODESTRA A TROVARE CANDIDATI: “C’E’ UN PROBLEMA ENORME DI CLASSE DIRIGENTE”

“Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher”. Alessandro Campi insegna Storia delle dottrine politiche a Perugia, da sempre attento osservatore della destra.
Di fronte alla difficoltà della coalizione Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia a esprimere candidature di livello nelle grandi città ha pochi dubbi: “C’è un problema enorme di classe dirigente: erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi”.
Fatica il modello di reclutamento di nomi di sintesi pescati all’esterno: “I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire?”.
E allora “non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla”.
Il punto è che “se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica”.
Professor Campi, partiamo dalle candidature a Roma e a Milano. Il centrodestra è partito da Bertolaso e Albertini, due punte di diamante di quell’area politica, ma di vent’anni fa.
L’usato sicuro non funziona più nemmeno per l’acquisto di una vettura, figuriamoci nella politica divenuta ormai spettacolarizzata e prêt-à-porter. Oggi ti danno una vettura fiammante da pagare comodamente a rate e quando ti sei stancato puoi prenderne un’altra anch’essa nuova. E come i consumatori vogliono sempre nuovi modelli, così gli elettori vogliono anch’essi facce sempre nuove, salvo poi stancarsene rapidamente.
La difficoltà è evidente. I nomi rispolverati dai partiti, penso a Roma, sono quelli di Gasparri e Storace, anche questi espressione di una destra che guarda a quello che era piuttosto a quel che dovrebbe diventare
Alla fine qualcuno o qualcuna bisogna pur candidare. E se non si trova nessun esterno, non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla. Ma meglio loro, alla fine, che lo sconosciuto della porta accanto: incompetente e magari anche disonesto.
Che ne pensa dei cosiddetti civici? Racca a Milano, Michetti a Roma.
Mi sembra si stia definitivamente sgonfiando il mito della società civile come riserva dei migliori e dei più competenti che si mettono al servizio della cosa pubblica per senso del dovere. Una stagione finita che ha come ultimo esponente Beppe Sala a Milano. I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire? La verità è che quelli che possiedono una posizione socialmente solida e un loro prestigio intrinseco di sporcarsi con questa politica non hanno nessuna voglia. La borghesia media e grande che riteneva quasi un onore, oltre che un dovere sociale, essere coinvolta direttamente nella guida della civitas oggi se ne sta a casa o in ufficio: osserva, critica e si fa gli affari propri. L’impegno pubblico-partitico lo lascia ai parvenu o a quelli che non hanno niente da perdere.
Le faccio un’osservazione. Questo tipo di profilo civico è molto ricercato (anche se con insuccesso) da Pd e M5s, una coalizione in embrione, che ha bisogno ad oggi di piccoli papi stranieri per trovare una sintesi. Il centrodestra, pur con le stradi differenti prese con Draghi, non dovrebbe avere un bagaglio di storia e rapporti che dovrebbe rendere tutto più facile
In effetti anche il M5S e il Pd pare abbiano difficoltà a trovare figure di esterni che possano, nel loro caso, fare da collante di un’alleanza che stenta peraltro a nascere. A Napoli in realtà sembrerebbe fatto l’accordo sul nome dell’ex ministro Manfredi, ma ancora una volta alle condizioni non del Pd ma del M5s. Tra l’altro, diciamolo una volta per tutte: se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica.
Veniamo al punto: c’è un problema di classe dirigente?
Enorme. E parte dai livelli più bassi: la scuola nei suoi diversi gradi sino all’Università, che per definizione dovrebbe essere il luogo dove si formano i gruppi dirigenti di un Paese (e dove si inculca la consapevolezza di farne parte). Quanto alla politica, erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi. Oggi è rimasta, come palestra di formazione per i ruoli direttivi politico-amministrativi, l’alta burocrazia ministeriale. Ovvero la Banca d’Italia, che non a caso è la riserva alla quale negli ultimi vent’anni si è continuamente attinto per supplire il deficit di competenze della politica.
Vediamo anche i volti nuovi che hanno acquisito un certo peso negli ultimi tempi. Un esempio su tutti: Massimiliano Fedriga, quarantenne, apprezzamenti bipartisan, fresco presidente della conferenza delle Regioni. Ma anche lui è cresciuto con la generazione di Bossi.
Quelli bravi, per così dire, hanno sempre alle spalle una solida formazione politica in senso tradizionale. Gli altri vanno e vengono e spesso fanno solo danni.
In questo vede differenze tra Fratelli d’Italia e Lega?
Sono in modo diverso partiti all’antica: un capo, un gruppo dirigente, quadri e militanti, una discreta presenza sul territorio, una cultura politica di riferimento, linee di comando chiare. Anche il Pd ha quest’impostazione di massima: ma negli ultimi anni gli scontri interni tra cacicchi e capi-corrente lo hanno molto indebolito, come si vede nel rapporto tra centro e periferia. I suoi governatori sul territorio – Bonaccini, De Luca, Emiliano – vanno praticamente per conto proprio, rispondono solo a se stessi.
Però Salvini e Meloni hanno due storie toste da questo punto di vista. Il primo s’è preso il Carroccio e l’ha trasformato in un partito nazionale tirandolo su dal 3/4% sul quale viaggiava. La seconda ha rotto con il centrodestra in cui è cresciuta fondando un partito che all’inizio in molti ritenevano residuale. La loro storia e i loro successi non dovrebbero aver insegnato qualcosa?
Insegnano che il professionismo politico vince sul dilettantismo. Ma insegnano anche che oggi si sale facilmente nei consensi e altrettanto facilmente si scende. I trionfi elettori sono spesso effimeri o di breve durata, come ben sanno Renzi e appunto Salvini. La Meloni, a sua volta, è avvisata.
C’è poi anche Forza Italia, che forse è un caso ancora diverso. Però anche lì il nuovo che avanza si fatica a vederlo.
Forza Italia in questo momento è alle prese con lo spettro del dopo-Berlusconi. Lunga vita al Cavaliere, ovviamente, ma il partito-padronale è giunto alla fine della sua storia e chi si chiede giustamente se possa sopravvivere a chi l’ha fondato e mai ha voluto pensare ad un suo possibile successore. In Forza Italia c’è da aspettarsi un rompete le righe verso tutte le direzioni. A meno che non emerga un federatore sufficientemente forte e credibile in grado di salvare il salvabile di quell’esperienza. Se dovessi fare un nome, direi Mara Carfagna.
Se si parte dall’era Berlusconi e si passa a Salvini e Meloni, i partiti di centrodestra hanno sempre una forte connotazione leaderistica. È il capo che comanda, decide incarichi e agenda, ma è anche il capo che sposta voti e crea opinione. Un’altra destra in Italia non è possibile?
La mistica del capo è culturalmente e psicologicamente connaturata alla destra per ragioni storiche. Ma non ne farei un residuo del gerarchismo fascista duro a morire, come talvolta si pensa. Il leaderismo è la cifra di tutte le grandi democrazie contemporanee. Il problema è semmai come si esercita questo ruolo e come si arriva ai ruoli di vertice. Per chiamata dall’alto e per selezione dal basso? C’è poi un problema legato al linguaggio e ai programmi. Il rischio è di limitarsi alla propaganda e alla comunicazione tralasciando l’agenda politica in senso stretto, cioè le cose da fare e la cultura di governo. Sulla questione se un’altra destra è possibile, direi che conviene arrendersi all’evidenza: abbiamo a destra quel che l’Italia odierna riesce ad esprimere (ma lo stesso può dirsi della sinistra). Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher.
In qualche modo ci aveva provato Fini, andò male.
Malissimo, direi, anche a causa degli errori grossolani da lui stesso commessi: un eccesso d’indolenza e di politicismo, l’eccessiva personalizzazione dello scontro con Berlusconi, la brutta storia (comunque la si voglia giudicare) della casa di Montecarlo, ecc. Aggiungo che Fini non era un capo in grado di fare e disfare a proprio piacimento: all’interno di An la sua è sempre stata una leadership di compromesso. Era un classico primus inter pares, essendo questi ultimi i cosiddetti ‘colonnelli’ con cui egli ha sempre dovuto mediare e venire a patti. Quando ha provato a fare il leader sul serio, rompendo col Popolo delle Libertà e facendosi un suo partitino, non a caso lo hanno rimasto solo. Se ricorda il film, concluda lei la frase….
Questa tendenza di cui stiamo parlando è la stessa anche nel resto dell’Europa
La destra europea conservatrice – quel che ne restava – si è ovunque radicalizzata, nello stile e nel linguaggio, anche per contrastare la sfida ad essa portata dal nazionalismo populista. Guardiamo alla parabola dei repubblicani negli Stati Uniti, ai tories britannici, alla Francia dove la Le Pen si è sostanzialmente mangiata i gollisti, ecc.
Ci sono invece modelli a cui guardare?
La ricerca di modelli stranieri, oltre ad essere indice di provincialismo, non serve a nulla nella misura in cui non sono imitabili e replicabili. La politica nel mondo globalizzato è ancora nazionale quando alla sua ispirazione e ai fattori socio-culturali che la nutrono. In tempi recenti la destra italiana ha guardato al conservatorismo sociale di David Cameron e al nazional-conservatorismo di Sarkozy, ma guardi che brutta fine che hanno fatto entrambi. Ma anche con l’imitazione di Trump e del trumpismo non sembra andata benissimo.
Concludiamo tornando alle città. Al di là della questione in sé, anche la fatica a trovare disponibilità tra le personalità della società civile è indicativa di una poca attrattività al di fuori dello zoccolo duro o del perimetro del partito. C’entra qualcosa con quello che stiamo dicendo?
La poca attrattività della carica di primo cittadino, anche in grandi e prestigiose città come Roma, Milano, Napoli dipende da molti fattori. Innanzitutto, le casse dei municipi, piccoli e grandi, sono vuote da anni e adesso più di prima. Ti assumi grandi responsabilità per poi scoprire che non hai una lira da spendere, semmai bilanci in dissesto da ripianare. C’è poi quella che chiamerei la ‘sindrome Marino’ con cui fare i conti: chi ha un suo autonomo prestigio sociale o un suo rispettabile status professionale perché dovrebbe vedersi distrutta l’immagine e la carriera solo perché hai sbagliato la firma su un atto amministrativo o perché un giornale che non ti ama ha deciso di prenderti come bersaglio? Tra magistratura troppo facilmente inquirente, utenti social impazziti e stampa che alla cronaca preferisce lo scandalismo, oramai fanno politica a livello locale solo quelli che non avendo nulla da perdere hanno tutto da guadagnare, almeno in termini di pubblicità, anche se li si mette sotto inchiesta o li si copre d’insulti. Insomma, fare il sindaco è un mestiere che al momento non conviene.
(da Huffingtonpost)

This entry was posted on venerdì, Maggio 28th, 2021 at 22:23 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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