ALBERTAZZI, DOTTOR JEKYLL E MR HYDE: DA SALO’ A PANNELLA, PER FINIRE CON GRILLO E RENZI
UNO SPIRITO LIBERO, MAGNETICO, INQUIETO, CREATIVO, CAMALEONTICO
Per tutta la vita, Giorgio Albertazzi — scomparso oggi all’età di novantadue anni — ha dovuto fare i conti con quella fama di essere un po’ come il protagonista di uno dei romanzi più amati e conosciuti di Stevenson – Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde – tra l’altro, uno dei primi spettacoli da lui interpretati e trasmessi negli anni Sessanta dall’allora neonata Rai.
Del resto, quella pozione creata dallo scienziato dello scrittore scozzese, capace di separare le due nature dell’animo umano, è quella che da sempre dovrebbe bere un bravo attore prima di interpretare un ruolo, sia esso di teatro come di cinema.
Ci sarà , così, da un lato l’uomo e dall’altro l’attore e il nascere di una personalità scissa in due metà speculari e che, alternativamente, prendono possesso del suo corpo riuscendone a trasfigurarne anche l’aspetto.
Albertazzi ha applicato da sempre questa regola alla sua vita, nel pubblico e, a volte, anche nel privato.
Rispettabile e pulito, educato a principi morali, bastava poco —se così si può dire — per vederlo calcare i palcoscenici italiani e non solo (resta indimenticabile, tra le tante, il suo Amleto all’Old Vic Theatre di Londra diretto da Zeffirelli) interpretando personaggi malvagi e ben lontani dal rispetto delle regole civili e da quell’immagine di ‘bravo ragazzo’ che si era costruita nel tempo (“sarà sempre per me un bravo ragazzo”, ci disse Gigi Proietti lo scorso anno alla conferenza stampa del Globe Theatre di Roma, nel presentare un suo spettacolo).
Questa sorta di ‘contraddizione professionale’, giusta e frequente, l’applicò a volte anche nella sua vita, quella stessa che amava come la sua professione, esercitata fino alla fine sempre con grande passione e spirito d’inventiva e d’avventura.
Inquieto, creativo, camaleontico e difficilmente catalogabile in un genere preciso, Albertazzi si portò dietro il ‘marchio’ di essere stato legato al fascismo in gioventù, cosa da lui mai rinnegata.
Andò a Salò come tanti ragazzi dell’epoca, si arruolò nell’esercito grigioverde della Repubblica Sociale convinto che lì si combattesse per l’Italia, “ma non fui mai di destra”, come dichiarò più volte.
Scelse la parte dei perdenti e lo fece più per un istinto anarchico che non per convinzione, ma per tutta la vita, quell’episodio rimase sempre un triste dramma personale.
Dopo Salò e dopo due anni passati in un carcere militare, capì di non essere fascista, tanto da dire un secco ‘no’ ad Almirante (che quando divenne un attore famoso lo ammirava molto) che lo voleva nell’ MSI.
Anni dopo, il suo avvicinamento ai Radicali e a Pannella, da poco scomparso, con cui manifestò per l’aborto, il divorzio e per Welby, ma l’eutanasia non riuscì mai a metterla in pratica con Anna Proclemer, la sua prima, amatissima, moglie.
Anni dopo, frequentò anche Berlusconi (“ma non diventammo amici”) e subito dopo Valter Weltroni, che ufficializzò le sue seconde nozze con Maria Pia Tolomei e che fu tra i suoi più grandi sostenitori per nominarlo direttore del Teatro Argentina di Roma. Nel frattempo, la giunta del centro destra della Regione Calabria, gli conferì la carica di direttore artistico del ‘Magna Grecia Teatro Festival’, e lui accettò di buon grado. Ancora politica, ancora un cambiamento: nel 2013 votò Grillo senza mai nasconderlo: “Gli voglio bene a prescindere, ma non so se lo voterei ancora. Ha perso quello smalto iniziale”, disse ai microfoni di Radio Due.
“La politica è così, quando entri là dentro è come buttarsi in una vasca, inevitabilmente ti bagni. Lui portava lo spirito radicale, non nel senso pannelliano del termine, mi è piaciuta molto la sua operazione. Ma alla fine si è bagnato anche lui”.
Non a caso, poi, votò per Renzi (“è la prima volta che voto e che vinco”) e il premier, proprio questa mattina, all’inaugurazione della Biennale di Venezia, lo ha ricordato come “un grande artista italiano, classico e controcorrente”.
Proprio nella città lagunare, Shakespeare decise di ambientare una delle sue più celebri commedie (Il mercante di Venezia) e Shylock, il personaggio protagonista, è stato più volte interpretato da Albertazzi a teatro.
Come lui, era testardo ed entusiasta della vita, era magnetico, irresistibile e perfettamente padrone di ogni avventura e sventura.
Amava molto anche l’Imperatore Adriano e lo spettacolo tratto dal libro della Yourcenar e diretto dall’amico Maurizio Scaparro (suo testimone di nozze) fu il suo cavallo di battaglia per più di venti anni (“sento, come lui, la fine della bellezza che si consuma”).
Intellettuale impegnato da un lato, tifoso incallito della Fiorentina dall’altro, assiduo frequentatore dei migliori salotti italiani come di quelli televisivi ultra pop, spesso trash, della D’Urso e di Costanzo, fino al cinema di Aldo, Giovenni e Giacomo (lo citano in un loro film, ‘Chiedimi se sono felice’) per poi tornare a L’Aquila, distrutta dal terremoto del 2009, per recitare, magnificamente, la Divina Commedia tra le macerie.
Era un convinto sostenitore dell’impegno in tutti i suoi aspetti, ma anche della leggerezza, ovvero “la caratteristica alla base della letteratura per il nuovo millennio, che quando la scopri ti sembra che tutto il resto diventi di pietra”, come scrisse Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane (che Albertazzi portò a teatro), “quella libertà del pensiero da stereotipi e convenzioni, il flusso cogitante senza ingombri e costrizioni”.
Amava ripetere spesso una frase non sua (“Per diventare giovani, veramente giovani, ci vogliono molti anni”) e non a caso, negli ultimi tempi, nel 2007, sposò, come già ricordato, una donna di trentasei anni più giovane, Maria Pia Tolomei (parente dell’omonima ava descritta da Dante nel quinto canto del Purgatorio), tenendo ben presente un’altra frase da lui spesso ripetuta: “si ringiovanisce sempre, si invecchia di colpo”.
Le donne fecero sempre parte della sua vita, ma anche gli uomini: non nascose mai la sua avventura omosessuale con Luchino Visconti (“una volta ci scambiammo un lungo bacio, un’altra mi disse esplicitamente: “E se io ti chiedessi qualcosa di più di un’amicizia?”, raccontò a L’Espresso) a cui rimproverò sempre di non avergli dato la parte ne Lo straniero di Camus (data poi a Mastroianni) e in Senso (a Farley Granger). Al sesso, preferiva l’eros, tenendo ben presente che le donne hanno l’intelligenza del corpo, “una dote assente negli uomini”.
La morte fa parte della vita, disse più volte e amava scherzare facendo notare che in realtà , molti andavano ad applaudirlo teatro solo perchè quella poteva essere l’ultima volta che lo avrebbero visto vivo.
Non ci saranno funerali per celebrarlo, ma solo un incontro/funzione con i suoi amici più cari.
Niente ‘addio’, dunque, perchè lui in Dio non credeva, ma non lo negava, perchè “negarlo, è sbagliato, ma affermare che esiste, è gratuito”.
Ci mancherà .
(da “Huffingtonpost”)
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