ANNI ‘70: IL GIOVANE LA RUSSA E IL CORTEO IN CUI MORÌ L’AGENTE MARINO TRA MANDANTI, PAROLAI E DELATORI
NELLE ANALISI ODIERNE DI MOLTI MEDIA SI TENDE SOLO A EVIDENZIARE CHE, IN PASSATO, LA RUSSA NON EBBE SEMPRE LO STESSO SENSO DELLA LEGALITA’ CHE GIOVEDI’ PRETENDEVA DALLO STUDENTE… IL SUO RUOLO NELLA MANIFESTAZIONE DEL 12 APRILE 1973 E LA TESTIMONIANZA DI STAITI: LA RUSSA VIVEVA DELLA LUCE RIFLESSA DEL PADRE… LA FEDERAZIONE DI MILANO FU CONSIDERATA UN COVO DI DELATORI E MOLTI GIOVANI ABBANDONARONO L’MSI
Oggi molti quotidiani ricordano quella data “storica” per l’estrema destra italiana: il 12 aprile 1973.
La rammentano in seguito alla esibizione da macchietta del ministro Ignazio La Russa ad “Anno Zero”, durante la quale ha verbalmente aggredito e insultato uno studente, reo di aver partecipato al corteo romano sfociato nei noti disordini.
Se fosse stata necessario mandare via etere una caricatura disgustosa di un “fascista da operetta”, meglio non si sarebbe potuto trovare sulla piazza.
Da quella esibizione muscolare e senza cervello, ovvio che molti quotidiani e osservatori politici ne abbiano fatto derivare un amarcord sui trascorsi “di piazza” di La Russa nei difficili anni ’70, per poter sottolineare che il ruolo di difensore della legalità contro i disordini di piazza poco di addice all’attuale ministro della Difesa e altrettanto quello di chi si schiera con le forze dell’ordine.
Che accade il 23 aprile 1973?
A Milano si svolge una manifestazione (non autorizzata) del Msi.
Il corteo, guidato dai dirigenti nazionali Servello e Petronio, si scontra con la polizia.
Nel corso degli scontri, violentissimi, vengono lanciate alcune bombe a mano contro le forze dell’ordine, provocando la morte dell’agente di polizia Antonio Marino.
“Fu proprio lui a volere più d’ogni altro la manifestazione del 12 aprile 1973 in cui fu ammazzato l’agente Antonio Marino”, ricorda oggi al “Fatto Quotidiano” Tomaso Staiti di Cuddia, camerata ed ex parlamentare del Msi.
Allora Ignazio La Russa era un giovane dirigente missino, segretario regionale del Fronte della gioventù .
“A Milano il Msi da tempo non riusciva a fare una manifestazione all’aperto, con corteo”, racconta Staiti, “così La Russa s’impuntò: il 12 aprile dovevamo riuscirci. A tutti i costi. Man mano che la data s’avvicinava, diventava chiaro a tutti che sarebbe stato un massacro. Alla fine il corteo fu vietato dalla questura. Ma Ignazio continuò a insistere: dovevamo scendere in piazza. E così fu”.
Quel pomeriggio gli scontri con la polizia furono durissimi.
Era arrivato a Milano da Reggio Calabria anche Ciccio Franco, il capo dei “boia chi molla”.
Durante la manifestazione (“Contro la violenza rossa”, diceva il manifesto che la convocava), furono lanciate perfino due bombe a mano Srcm.
Una distrusse un’edicola in largo Tricolore.
L’altra, in via Bellotti, uccise il poliziotto Antonio Marino, 22 anni, a cui fu tirata in pieno petto.
Di quel giorno, resta una foto che ritrae La Russa, capelli lunghi, occhi luciferini, assieme a Ciccio Franco, al senatore missino Franco Servello e a tutti i capi del Msi milanese.
“Ma non aspettatevi di trovarlo direttamente coinvolto in azioni violente”, racconta al “Fatto Quotidiano” un altro camerata che chiede di non fare il suo nome.
“Ignazio restava nell’ombra, le cose le faceva fare agli altri. Era già un politico. E poi diciamolo: non è mai stato un cuor di leone”.
Dopo quel pomeriggio di sangue, Giorgio Almirante, che non amava quel ragazzotto con i capelli troppo lunghi e gli occhi spiritati, sciolse la federazione milanese del Msi e il Fronte della gioventù.
Ma La Russa ricostruì, anzi aumentò, il suo influsso sul partito a Milano, di cui divenne pian piano il padrone.
“A parole era tutt’altro che un moderato: era un fascista con la bava alla bocca”, racconta Staiti. “Quando divenni deputato del Msi, tentò di emarginarmi. Alle riunioni della segreteria provinciale non m’invitava. Io partecipavo ugualmente e lui cominciava così: ‘Saluto i camerati e anche Staiti che non è stato invitato’. Alla quarta volta mi alzai e gli allungai quattro ceffoni: ‘Io l’invito me lo sono preso, e tu ti tieni le sberle’”.
In quei turbolenti anni Settanta, Ignazio s’impossessò di Radio University, un’emittente di destra che trasmetteva da Milano.
“Il potere che Ignazio aveva nel Msi non gli derivava però dalla militanza, ma dalla famiglia”, continua Staiti.
Il padre, Antonino La Russa, ex federale fascista di Paternò e poi senatore missino, era arrivato a Milano dalla Sicilia con una dote di rapporti pesanti.
Con Michelangelo Virgillito innanzitutto, suo compaesano, cognato e grande corsaro di Borsa.
E con Raffaele Ursini, l’uomo che ereditò da Virgillito il gruppo Liquigas.
“Il vecchio patriarca Antonino era invisibile, ma potentissimo nel partito: era lui a trovare i soldi per finanziarlo”.
È anche l’uomo che pilota le eredità . Convogliando rapporti, soldi, affari e azioni verso un giovane di bottega, arrivato anch’egli da Paternò, che diventa, non senza qualche conflitto, l’erede del potere dei La Russa-Virgillito-Ursini: è Salvatore Ligresti.
Don Totò è cresciuto insieme con Ignazio, tra busti del duce e scorribande in Borsa.
E non dimentica la fonte del suo potere e della sua ricchezza, tanto da riservare sempre ai La Russa qualche poltrona nei consigli d’amministrazione delle sue aziende.
“Con Almirante”, dice Staiti, “Ignazio ricucì il rapporto quando fece dare a un figlio di donna Assunta, che aveva fatto fallire la sua concessionaria d’automobili, la gestione di un’agenzia romana della Sai, la compagnia d’assicurazioni di Ligresti”.
Oggi prevale il senso pratico di Ignazio, amico di Ligresti, sostenitore di Berlusconi, ministro della Repubblica e ospite dei talk-show.
Ma fondamentalmente per l’ambiente rimane una macchietta.
Un estremista verbale che nella piazza dell’estrema destra milanese degli anni ’70 contava nulla, ma che nella federazione missina aveva un ruolo importante.
E diciamo anche quello che oggi i giornali non dicono, forse perchè non conoscono.
La morte dell’agente Marino, per chi era un giovane di destra in quei tempi, ha segnato anche un momento preciso nei rapporti con le strutture del partito.
A seguito di quel corteo e degli incidenti successivi, l’immagine legalitaria e di forza d’ordine del Msi era stata irrimediabilmente incrinata.
I dirigenti missini, nel tentativo di recuperare un’immagine rispettabile per il movimento, denunciarono i presunti autori dell’attentato (riconosciuti poi colpevoli), sperando di dimostrare, in tal modo, l’estraneità del partito alle violenze.
Fu infatti la federazione milanese a fare i nomi dei colpevoli (Murelli e Loi), che appartenevano al gruppo milanese La Fenice.
Furono migliaia i ragazzi che si staccarono dal Msi che aderire ad altre organizzioni sentendosi considerati “carne da macello” per i dirigenti del partito.
Utili quando c’era da fare propaganda elettorale per qualcuno, scaricati anche solo quando si difendevano da aggressioni.
Erano i tempi dei comunicati stampa ciclostilati: “Tizio? mai stato iscritto al partito”.
E la federazione milanese era cosiderata da questi giovani, proprio nei suoi massimi dirigenti, un covo di delatori, di soggetti che segnalavano alla questura i nominativi di chi aveva lasciato il Msi per poter così contare su una sorta di protezione da parte dei vertici dello Stato.
Nella valutazione di quei fatti e di quei dirigenti da parte dei media oggi manca questo tassello fondamentale: l’analisi e la distinzione tra parolai, mandanti e delatori.
E spesso i ruoli coincidono.
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