CENTRODESTRA, VECCHIO COPIONE, LE REGIONALI IN LOMBARDIA IL COLLANTE: “L’ OPERAZIONE LEPENISTA E’ FALLITA”
SALVINI CAMBIA IDEA SULL’EUROPA, SULLE PRIMARIE, SUI VOUCHER ALTRIMENTI MARONI LO FA FUORI: “DIAMO UN’ULTIMA CHANCE ALL’EUROPA”… IN TANTE SEZIONI DEL NORD SALVINI NON PUO’ METTERE PIEDE
Il centrodestra c’è, ed è uno e trino: “federazione”, “coalizione”, “listone unico”. Detta così, sembra politicismo puro. Dietro le formule, però, si nasconde una trama reale, dopo settimane di gelo, in cui era data per scontata una rottura tra Berlusconi e Salvini, col primo proiettato nel ruolo di stampella (proporzionale) al Pd e il secondo avviato a una battaglia di testimonianza sovranista.
Il motivo, che costringe al dialogo, si chiama Lombardia, dove si voterà il prossimo anno, presumibilmente l’anno delle politiche: “Se non riconferma Maroni — dice un colonnello leghista — Salvini lo vanno a prendere a casa, e per confermare Maroni serve l’alleanza con Forza Italia”.
Un elemento non irrilevante perchè — evidentemente — è complicato andare uniti in Lombardia e attaccarsi sul piano nazionale.
Il clima, dunque, è cambiato ora che sembra definitivamente accantonata l’ipotesi di elezioni anticipate e l’orologio della politica nazionale è sintonizzato sul 2018.
La pressione a tenere un rapporto col Cavaliere arriva innanzitutto dai suoi. Più che da Bossi, il cui controllo di aree del partito è residuale, da Maroni e dal grosso degli amministratori del Nord, gente pratica che vuole governo e territorio più che chiacchiere lepeniste.
Si spiega così il cambio complessivo dei toni degli ultimi giorni. Dal “non parlo con Sb da mesi” agli abboccamenti per un incontro.
Scomparse, nel senso che non si faranno, le primarie che Salvini aveva annunciato per una domenica di aprile, con la scusa che non c’è la legge elettorale (che non c’era neanche quando le ha convocate).
Cambiati i toni anche sull’euro e sull’Europa: dal no euro, al “voglio dare un’ultima chance all’Europa”.
Cambiati anche sul lavoro, dove Salvini ha dismesso la felpa alla Landini per attestarsi sul no al referendum sui voucher (prima che il governo ci mettesse mano) per non scontentare la constituency elettorale dei padroncini del nord.
Ecco. In attesa che, dopo le primarie del Pd, si apra il grande ballo sulla legge elettorale da cui si capiranno confini e prospettive dei poli, la notizia è che ciò che è stato dato per morto (il centrodestra), morto non è.
Ciò detto, è un magma informe. Uno e trino. I più spinti sull’idea di un “listone unico” sono il governatore della Liguria Giovanni Toti mentre in casa leghista l’ideologo è Giancarlo Giorgetti.
Sono gli “acceleratori”, il listone “con chi ci sta”, rompendo con Berlusconi prendendosi un pezzo di Forza Italia, prospettiva su cui convergerebbe anche Giorgia Meloni se ci stessero tutti.
Il loro ragionamento è: “Acceleriamo che il quadro è chiaro. Berlusconi non farà che se stesso, ha in testa il solito schema. O questa generazione si intesta un ricambio politico e generazionale, oppure in politica il vuoto non esiste, arriva l’Urbano Cairo o il Paolo Deldebbio di turno e ci colonizza come un novello Berlusconi”.
Uno schema, questo, che Salvini vedeva bene fino a poco tempo fa, ma su cui ora ha frenato, per paura della fronda lombarda.
E della rivolta della base: “La verità — prosegue la fonte — è che Salvini non può mettere piede in parecchie sezioni, dove i nostri gli rimproverano l’abbandono dei temi del Nord, le tasse, quelli tradizionali per andare a cercare voti che non arrivano al Sud. L’operazione lepenista è sostanzialmente fallita”.
Una frenata, con la proposta della “federazione” arrivata in diretta tv e che sostanzialmente non crea sconquassi al Nord. E va bene al partito dei governatori, intesi come Maroni e Zaia. Il quale, vera risorsa della Lega e da molti considerato un leader naturale, non ha alcuna intenzione di esporsi e lavora sul 2023, perchè pensa che il 2018 sia l’ultima tappa di un ciclo e l’inizio di qualcosa.
Ultima tappa che, per Berlusconi, ha la stessa forma della prima, ventitrè anni fa: la “coalizione”, con Salvini al posto di Bossi, la Meloni al posto di Fini e se stesso, con 80 primavere sulle spalle, al posto che aveva quando ne aveva 58.
Come allora ha ricominciato a seguire tutto personalmente: seleziona candidati, commissiona sondaggi, ha finanche ripreso a cantare con Apicella e a raccontare barzellette, segno che l’umore è davvero buono.
Prima ancora di Strasburgo, della eventuale riabilitazione a cui nemmeno i suoi avvocati credono, sente che le debolezze altrui (Renzi) abbiano riaperto la partita. E sente che l’occasione sia irripetibile, in quest’epoca di “pericolo populista”, in cui si è compiuto il miracolo — fino a pochi anni fa nessuno ci avrebbe creduto — che proprio il Cavaliere, populista novecentesco, può contare sulla benevola attenzione dell’establishment che lo vede, se non come una riserva della Repubblica, come un “populista buono” da contrapporre ai barbari veri.
Assisteremo, nelle prossime settimane, a un gioco tattico fatto anche di polemiche tra i due leader e di attacchi, in attesa di trovare un assetto, ma l’aria è cambiata radicalmente e i due sembrano condannati a trovare un accordo che — tolta di mezzo l’opzione “listone unico” — sembra più vicino.
E la palude proporzionale potrebbe risolvere il problema a tutti: ognuno corre per conto suo.
“Se poi non vince — dice un azzurro di rango — Berlusconi fa sempre a in tempo ad aprire alle larghe intese, ma solo come ipotesi B. Si gioca per vincere”.
(da “Huffingtonpost”)
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