CONCORDATO PREVENTIVO, IL TRIBUTARISTA: “E’ UN PATTO CRIMINALE TRA FISCO ED EVASORI”
“DECRETO MAL SCRITTO, NON SI POTRA’ INDIVIDUARE CHI CERCA DI FRODARE”
Un testo “palesemente incompleto, scarso sotto il profilo tecnico”. E con contraddizioni tali che gli stessi addetti ai lavori faticano a immaginare come potrà funzionare in concreto il concordato preventivo biennale con il fisco, cioè la possibilità per partite Iva e pmi di accordarsi preventivamente con l’Agenzia delle Entrate sui propri redditi dei due anni successivi e pagare le tasse a forfait. Tommaso Di Tanno, professore di diritto tributario alla Luiss, boccia senza appello il decreto che ha ottenuto venerdì scorso il primo via libera in consiglio dei ministri. E che la premier Giorgia Meloni ha presentato con il solito refrain del fisco amico, definendolo “uno strumento che aumenta la collaborazione e rappresenta un segno di fiducia dello Stato verso i contribuenti”.
Di chiaro, spiega il tributarista di lungo corso, c’è solo il disegno che sta dietro la norma voluta dal viceministro con delega al fisco Maurizio Leo: “Un pactum sceleris (patto criminale ndr) improntato al realismo. Di fatto si propone a 2 milioni di contribuenti di pagare le tasse su un reddito un po’ più alto rispetto a quello dichiarato in passato, che si dà per scontato fosse sottovalutato, e in cambio gli si promette che saranno lasciati in pace”. Insomma, si istituzionalizza una quota di nero? “Si strizza l’occhio ad alcune categorie, dicendo che possono continuare a evadere una parte del dovuto a patto che versino una cifra certa. Così lo Stato stabilizza il gettito e l’Agenzia non è costretta a fare milioni di accertamenti, che non riuscirebbe a gestire. Fino a qui non mi scandalizzo: l’appeal dello strumento sta proprio in questo. Ma il punto è che mancano troppi tasselli perché l’architettura stia in piedi”.
I dubbi riguardano in particolare le cause di decadenza, cioè i casi in cui si perde il beneficio del patto biennale con le Entrate. La prima fattispecie citata dal decreto è quella in cui “a seguito di accertamento” risulta che negli anni del concordato o in quello precedente non sono state dichiarate al fisco (l’obbligo di dichiarazione infatti rimane) attività per un valore superiore al 30% dei ricavi “emersi”. Al netto del fatto che in questo modo si legittima, appunto, una modica quantità di evasione, non è dato capire da quali controlli potrà emergere quell’infedeltà fiscale. Secondo Di Tanno quelli ordinari, basati sulle dichiarazioni e la contabilità, devono considerarsi automaticamente esclusi per chi ha aderito al patto visto che il reddito del biennio risulta a quel punto già definito. “Dovrebbero di conseguenza essere molto valorizzati quelli induttivi, che partono dallo squilibrio tra entrate dichiarate e spese: per esempio hai dichiarato 20mila euro ma ti compri una Ferrari. Invece l’articolo 34 dice che non possono essere effettuati “salvo che ricorrano le cause di decadenza” di cui sopra”. Che a questo punto diventano però assai ardue da verificare.
Non è finita: “Un altro articolo, il 19, salva l’accertamento induttivo attraverso il richiamo a un’altra norma”, quella sui benefici già previsti per i contribuenti più virtuosi tra quelli soggetti agli Indici sintetici di affidabilità fiscale. Tra le premialità a cui hanno diritto, e di cui l’articolo 19 prevede l’applicazione anche a chi accetta la proposta di concordato, non c’è infatti l’esclusione dagli accertamenti induttivi puri. Contraddizioni che, se lo schema di decreto non sarà emendato, potrebbero tradursi nell’impossibilità di individuare almeno chi “ha mentito troppo” al fisco anche rispetto all’elevata soglia di tolleranza stabilita dal testo, riassume Di Tanno. “Manca di fatto lo strumento tecnico per contestare la causa di decadenza. Spero che nel passaggio nelle commissioni parlamentari venga sollevata questa critica e il governo rimedi”.
“Pare di capire che gli accertamenti potranno riguardare l’Iva e i dati comunicati ai fini dell’elaborazione della proposta” di concordato, ragiona dal canto suo Alessandro Santoro, docente di Scienza delle finanze all’università Bicocca e dal 2021 presidente della Commissione che scrive la relazione sull’economia sommersa e l’evasione. “Qui però vedo due rischi alternativi. Se questi accertamenti saranno percepiti come effettivamente possibili, allora la convenienza ad aderire risulta ridotta. Se, invece, non saranno percepiti come tali, l’Agenzia dovrà tenerne conto nella formulazione della proposta, che dovrà essere adeguatamente più elevata rispetto al reddito dichiarato“. Perché a quel punto i contribuenti potenzialmente coinvolti, senza lo spauracchio dell’accertamento, saranno ulteriormente incentivati a nascondere una fetta di ricavi. Si parla, va ricordato, dei titolari di partita Iva: la categoria per la quale si registra di gran lunga la maggiore propensione a pagare meno imposte del dovuto.
(da Il Fatto Quotidiano)
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