CONTROFFENSIVA UCRAINA NEI DINTORNI DI KHARKIV: “I RUSSI HANNO STUPRATO LE NOSTRE RAGAZZE”
NELLE ZONE DOVE L’ESERCITO DI KIEV RICONQUISTA TERRENO
Tatjana è tornata a casa sua una settimana fa. Un edificio a un piano, di mattoni, ora manca un pezzo del tetto, il cancello e le pareti esterne segnate dalle schegge. Era andata via senza portare niente quando il paesino in cui vive, Mala Rohan, venticinque chilometri a est di Kharkiv, è stato liberato dall’esercito ucraino. Era la fine di marzo, nelle quattro settimane precedenti, Tajiana ha vissuto sotto l’occupazione russa con suo marito, sua nuora e i nipoti.
Il figlio è un soldato, combatte sul fronte del Donbass, da più di una settimana non riesce a contattarlo e non vuole pensare al peggio, così si accuccia, prende da terra i vetri delle finestre fatte a pezzi durante le settimane di guerra, li raccoglie uno per uno e li sistema in un piccolo secchio, quando è pieno cammina lungo la via, lo svuota in un recipiente, si ferma a salutare i pochi passanti tornati a casa, poi attraversa di nuovo il cancello, guarda i fori lasciati dall’artiglieria, si accuccia di nuovo e ricomincia a raccogliere vetri. Sono centinaia.
A casa sua non è rimasta una sola finestra intatta. La parola paura non la pronuncia mai, e non insiste sui dettagli della vita nel seminterrato. Quel che è stato è stato. Il problema è quello che sarà, dice mentre osserva i carri armati ucraini muoversi verso nord. Deve prima distinguere di chi sono i mezzi, poi allontanare il sospetto che l’artiglieria ricominci a sparare.
Prima dell’invasione, a Mala Rohan, vivevano tremila persone, oggi ne restano quattrocento, qualcuno è scappato via in tempo, altri dopo la liberazione e non hanno intenzione di tornare. Villaggio agricolo, affacciato su vasti campi da cui in lontananza si vede Kharkiv, Mala Rohan è uno delle dozzine di villaggi e piccoli centri urbani occupati dai russi il 25 febbraio. Erano duecento, secondo le autorità ucraine, i soldati russi a fare base qui. Le tracce del loro passaggio restano ovunque: lattine di razioni di cibo, proiettili, casse di munizioni, mezzi militari carbonizzati. Li hanno visti tutti, qui, vagare per le strade cercando le posizioni migliori per stabilire basi militari. Anche la casa di fronte a quella di Tatjiana è stata usata come base. Nel giardino ci sono ancora i resti delle uniformi, sopra i nomi dei soldati a cui sono appartenute, il numero di matricola e le spille con i colori del nastro di San Giorgio, arancione e nero, simbolo di gloria militare e onore.
I russi avevano fatto di questo paese una delle postazioni per la loro artiglieria e i sistemi di lancio multiplo che hanno colpito e danneggiato i quartieri orientali di Kharkiv.
Oggi a Mala Rohan gli operai cercano di ripristinare le linee elettriche e quelle del gas. Le unità di sminatori ispezionano case e giardini, raccolgono granate, rendono inoffensive le mine lasciate dai russi prima della ritirata.
Il villaggio è presidiato dalle truppe ucraine, ogni area da cui i russi si sono ritirati è diventata la prima linea di questa seconda fase di intensa controffensiva. E’ qui, nelle campagne che circondano Kharkiv, che si sta combattendo una delle fasi più delicate della guerra d’Ucraina. Paese dopo paese, strada dopo strada.
Negli ultimi dieci giorni l’esercito di Kiev ha ripreso il controllo di una serie di villaggi chiave nella zona nordorientale, riguadagnando terreno strategico. Hanno preso Ruska Lozova, Kutuzivka, e hanno raggiunto Staryi Saltiv. Colpire i russi qui, nei paesi lungo la rotta che da Kharkiv conduce a Iziym, significa minacciare le loro linee di rifornimento e provare a impedire la conquista della regione del Donbass.
Una guerra di posizione e di artiglieria che va avanti da due mesi, combattuta con sistemi a razzo che hanno gittate anche di trenta chilometri e mortai pesanti. In mezzo i civili, e i villaggi che – una volta liberati – restano marchiati dall’artiglieria pesante.
Per questo riprendere i piccoli centri abitati intorno Kharkiv significa proteggere la parte settentrionale della città, la più colpita nei due mesi di guerra, dalla pressione dei bombardamenti. E così è stato, il numero degli attacchi missilistici russi su Kharkiv nell’ultima settimana è sceso da cinquanta-ottanta al giorno, a cinque o dieci al massimo.
Città di lingua russa, Kharkiv, a quaranta chilometri dal confine, avrebbe dovuto essere, nei calcoli del Cremlino, una città facile da prendere. A maggior ragione avrebbero dovuto esserlo i villaggi circostanti, eredità rurale di un pezzo di storia dell’Unione Sovietica.
Non è stato che uno – forse il più grossolano – degli errori strategici dell’invasione in Ucraina, essere sicuri di trovare cittadini benevoli ad accoglierli, soprattutto nelle aree russofone.
Terra di confine, terra di identità contrapposte e insieme di tradizioni coincidenti, oggi Mala Rohan si divide nel racconto dell’invasione.
Gli anziani, innervositi dalle domande, dicono: questa non è Bucha. Come a intendere che l’esercito russo, qui, non si sia macchiato di crimini efferati come quelli lasciati indietro nei sobborghi intorno Kiev, prima di ritirarsi. A seguire le tracce della nuova quotidianità di Mala Rohan, si trovano però le altre voci, quelle dei segni delle atrocità, voci che non urlano, al contrario mormorano.
I negozi sono ancora tutti chiusi, a mezzogiorno, di fronte alla Casa della Cultura del paese, due volontari distribuiscono gli aiuti alimentari. Un uomo si lamenta del sindaco e del vicesindaco scappati via il primo giorno dell’invasione, prende un pacco di pasta, la carne in scatola, il pane e corre via.
Due donne sussurrano il segreto di Mala Rohan: la ragazzina sedicenne che sarebbe stata stuprata da un soldato russo. L’avrebbe presa la sera e riportata a casa il mattino dopo, dicendo – raccontano le donne – che somigliava alla sua fidanzata.
La ragazzina è sopravvissuta, tutti sanno chi sia, tutti ne parlano, nessuno dice dov’è. E’ il fantasma della violenza della guerra.
Tatjiana dice che a lei, i soldati russi, hanno portato il pane, una tanica d’acqua e le hanno detto di nascondersi e non uscire per nessun motivo per proteggere suo nipote di dodici anni e sé stessa.
Lei ha preso il pane e l’acqua, non ha detto che il padre del ragazzino è un soldato dell’esercito ucraino che combatte in Donbass. Ma ha detto loro che è russa. Nata e cresciuta nella regione di Belgorod, dall’altra parte del confine che un tempo univa due popoli e oggi li divide.
Tatjiana dice che non riesce a capire, e forse non vuole. Al soldato che le ha portato da mangiare ha detto «io sono russa, tu sei russo, entrambi discendiamo dagli slavi, parlo la lingua di tua madre. Tu, dimmi, perché sei venuto a uccidere i nostri bambini?».
A questa domanda il soldato non ha risposto ma ha detto che capiva il timore perché anche lui aveva figli. Due, un bambino e una bambina. Tatjiana gli ha detto: «Sono gli stessi bambini che abbiamo noi. In più abbiamo in comune il sangue russo».
Sangue russo era anche quello del gruppo di soldati con l’uniforme della Repubblica Separatista di Donetsk accatastati nelle campagne fuori città, sulla strada che da Mala Rohan raggiunge la collina dove i russi avevano stabilito le posizioni e schierato l’artiglieria.
Sono lì, sotto un salice, ormai in putrefazione.
Poco distante i resti della vita di trincea. Cunicoli scavati nella terra. Armi e munizioni. Due corpi riversi in una buca, i testi delle preghiere nell’antica tradizione russa.
Da quando Mala Rohan è stata liberata i contadini hanno ricominciato a percorrere le strade di campagna e portare un po’ di cibo casa per casa.
Il nipote di Tatjiana, nonna russa e padre al fronte con l’uniforme ucraina, ha paura di tutto e non riesce a stare solo. Tatjiana ha interrotto i contatti con i suoi parenti a Belgorod. Un tempo andava sempre a trovarle, oggi della prossimità con la Russia dice che il confine è un’invenzione degli uomini finché non serve a giustificare le guerre.
(da La Stampa)
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