DAL PUNTO DI VISTA DIPLOMATICO, PER ISRAELE E’ UNA DISFATTA NEL MONDO
LA FOTOGRAFIA DI UN ISOLAMENTO
Ricorre oggi l’anniversario dell’assassinio di Yitzhak Rabin a Tel Aviv, mentre Israele è nuovamente chiamato a far fronte a minacce esistenziali, dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre. La città di Gaza è ormai completamente circondata dalle truppe di terra israeliane, e duri scontri si registrano nella Striscia. Ma l’attacco alla città non ha ancora preso avvio. Una fase sospesa, in attesa che il deflusso dei circa 7.000 cittadini stranieri o con doppia nazionalità sia completato. Ieri Antony Blinken è arrivato in Israele per una breve visita di 4 ore, la seconda dopo lo scoppio della crisi, ed ha incontrato il premier Benjamin Netanyahu, il gabinetto di guerra, il presidente Isaac Herzog e il leader dell’opposizione Yair Lapid. Ha poi proseguito la sua missione verso la Giordania e la Turchia. L’onda lunga dell’attacco di Hamas del 7 ottobre ha profondamente modificato il quadro delle relazioni internazionali, con ricadute diverse sui vari player.
Gli Usa
Gli Stati Uniti hanno dovuto impegnarsi nuovamente nell’area, dopo aver cercato di riorientare le loro priorità verso l’Estremo Oriente e il confronto con la Cina, oltre all’oneroso sostegno all’Ucraina attaccata dalla Russia. Il loro primo obiettivo è stato quello di evitare un’escalation del conflitto a livello regionale, che coinvolgesse anche l’Iran e i suoi alleati, e a questo scopo hanno inviato due portaerei, la Gerald R. Ford, la più grande al mondo, e la Dwight D. Eisenhower, per inviare un duro segnale di deterrenza. Essi hanno altresì ampiamente rifornito gli arsenali israeliani, con batterie Iron Dome, proiettili e armi di tutti i generi, sottolineando il diritto dello Stato ebraico all’autodifesa, dopo l’orribile attacco subito. La Camera dei Rappresentanti ha approvato giovedì scorso uno stanziamento di 14,3 miliardi di dollari per sostenere Israele, anche se i democratici e il presidente Joe Biden (che aveva proposto un più ampio stanziamento da 106 miliardi per sostenere anche l’Ucraina e Taiwan) promettono battaglia al Senato per ripristinare la proposta originaria. Il Pentagono si è detto altresì contrario alle proposte di cessate il fuoco, che rafforzerebbe solo Hamas, dandole il tempo di prepararsi meglio, e gli Usa hanno posto il veto a una risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che lo proponeva. La visita del presidente Biden del 18 ottobre, la prima di un presidente americano in tempo di guerra, ha segnalato un chiaro impegno a favore di Israele. Tuttavia la posizione americana si è via via fatta sempre più articolata, come ha confermato lo stesso Blinken: cercare di verificare quale sia la strategia israeliana nella conduzione della guerra; sottolineare sempre più l’esigenza di risparmiare la popolazione civile (i morti sfiorano ormai le 10.000 unità, anche se si tratta di numeri non verificati); assicurare l’uscita da Gaza dei 7.000 cittadini stranieri che vi risiedono; garantire e incrementare l’afflusso costante degli aiuti umanitari alla popolazione; cercare di localizzare e liberare gli ostaggi; arginare l’ondata di violenze antipalestinesi dei coloni in Cisgiordania. Questo anche attraverso l’adozione di “pause umanitarie temporanee e localizzate”, momenti di respiro come li ha chiamati il presidente americano, che consentano di garantire un approccio più rispettoso dei diritti umani e delle leggi internazionali. Gli Usa, contrariamente al Governo israeliano, si pongono anche il problema del day after, e riaffermano l’opzione di restituire la Striscia al controllo di una Autorità Palestinese rinnovata e rivitalizzata, che veda anche il supporto di una forza di peacekeeping, composta da Stati arabi e da organizzazioni internazionali, che possa garantire una pacifica gestione transitoria, in un’ottica di rilancio di una soluzione a due Stati. È difficile anche solo immaginare che l’attuale governo di estrema destra possa contemplare un percorso di questo genere, anche se la formazione di un gabinetto di guerra, cui partecipa anche Benny Gantz, svolge in qualche modo un ruolo di bilanciamento e garanzia. Permane tuttavia una sensazione di non completa fiducia nella leadership israeliana in questa ardua sfida. È come se gli Usa, in cambio del loro esteso sostegno militare, vogliano riservarsi almeno in parte una supervisione sulla conduzione della guerra, evitando che essa possa andare fuori controllo. Secondo alcune voci, peraltro smentite da autorevoli fonti Usa, a essere messa in discussione è la stessa capacità del premier Netanyahu di guidare il confronto, e per questo andrebbero infittendosi i contatti con i leader dell’opposizione, Yair Lapid, con Benny Gantz e con l’ex premier Naftali Bennett.
La Russia
La Russia trae grande vantaggio dalla crisi a Gaza, che ha radicalmente distolto l’attenzione dalla guerra contro l’Ucraina, e reso più arduo la continuazione del sostegno degli Usa. La Russia, che tradizionalmente mantiene buoni rapporti con Israele, e ha un patto per evitare incidenti aerei in Siria, è venuta indurendo la sua posizione sulla guerra. Non ha condannato l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma ha fatto appello per un cessate il fuoco, riaffermando il suo sostegno per la creazione di uno Stato palestinese. Una risoluzione da essa presentata al Consiglio di Sicurezza è stata bocciata, proprio per la mancata condanna di Hamas. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha affermato a fine ottobre che il bombardamento israeliano di Gaza è contro la legge internazionale. Putin è arrivato a comparare il blocco israeliano di Gaza all’assedio nazista di Leningrado, uno degli eventi più traumatici della storia russa. Più in generale, la Russia non ha apprezzato la sia pur cauta condanna israeliana dell’invasione dell’Ucraina, e questa tendenza è rafforzata dallo sviluppo dei suoi legami con l’Iran, che è il suo principale fornitore di droni e missili per la conduzione della guerra. Israele teme quindi un riallineamento delle posizioni russe, e questi timori sono confermati da una serie di recenti episodi. Il 26 ottobre, una delegazione di Hamas, guidata dal prestigioso leader Abou Marzouk, ha visitato Mosca, suscitando le proteste di Israele, anche se da parte russa si è ribadita la necessità di mantenere rapporti con tutte le parti in conflitto, anche allo scopo di facilitare la liberazione degli ostaggi. Tre giorni dopo, nella repubblica russa del Daghestan, a prevalente popolazione musulmana, centinaia di rivoltosi hanno preso d’assalto un aeroporto per dare la caccia agli israeliani in arrivo da Tel Aviv. Secondo quanto riportato dal Washington Post due giorni fa, il gruppo russo paramilitare Wagner sta pianificando di inviare sistemi di difesa antiaerei SA-22 agli Hezbollah, in Libano (la notizia è stata tuttavia smentita dal portavoce russo Peskov).
La Cina
La Cina non aspira a rimpiazzare il ruolo degli Usa in Medio Oriente, ma è soddisfatta di vedere gli Stati Uniti nuovamente impantanati nella regione, il che distoglie la loro attenzione dalla competizione con Pechino, ampliandone le possibilità di affermare la sua egemonia nell’Indo-Pacifico. Essa tende anche a capitalizzare il diffuso sentimento anti-americano che i bombardamenti israeliani provocano, per rafforzare la sua influenza. Come la Russia, la Cina non ha condannato l’attacco di Hamas, e ha definito la reazione israeliana come “punizione collettiva”. Essa ha riaffermato la sua posizione di lunga data a favore dei palestinesi, anche se non di Hamas, e la sua posizione può essere definita di “neutralità antioccidentale”, una posizione coincidente con quella di molti paesi del Sud del mondo, tra cui cerca di rafforzare la sua influenza. Tuttavia, essa tende ad avere una posizione più contenuta, e a proporsi come potenziale mediatrice del conflitto. Ha proposto la convocazione di una Conferenza Internazionale di pace, anche per sottrarre agli Stati Uniti la posizione di arbitro incontrastato del conflitto. D’altronde, il coinvolgimento cinese nell’area è stato dimostrato dalla mediazione svolta tra Iran e Arabia Saudita, che ha portato alla ripresa dei rapporti diplomatici del giugno scorso: e la recente telefonata tra il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman e il presidente iraniano Ebrahim Raisi a proposito della crisi, la prima tra i due leader, è stata una conferma di quel ruolo. La Cina ha d’altronde significativi collegamenti economici con la regione. È il principale partner commerciale della maggior parte dei paesi Mena (Medio Oriente e Nord Africa) e quasi la metà del petrolio importato viene dal Golfo. Lo scorso anno il commercio complessivo della Cina con il mondo arabo è stato pari a 430 miliardi di dollari.
L’Iran
L’Iran è il principale beneficiario della crisi. L’attacco di Hamas è piombato a piedi pari sui negoziati in corso tra Israele e l’Arabia Saudita, con la mediazione degli Usa, per arrivare ad un accordo di normalizzazione tra i due paesi, sulla falsariga di quelli realizzati tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan alla fine del 2020. Un accordo di tal fatta avrebbe marginalizzato l’Iran, isolandolo in tutta l’area. Inoltre, l’attacco ha spezzato il mito dell’invincibilità israeliana, evidenziandone i limiti e la fragilità. Ancora, ha allontanato l’attenzione dalla questione del programma nucleare iraniano, nel momento in cui era in discussione il rinnovo delle sanzioni. Infine, ha deviato la vigilanza sulla repressione dei diritti umani e in particolare delle donne da tempo in atto nel paese. Secondo il Washington Post, alti ufficiali iraniani hanno partecipato attivamente alla preparazione dell’attacco, attraverso ripetuti incontri a Beirut che hanno visto la presenza, oltre che di Hamas e dello Jihad Islamico, di rappresentanti di Hezbollah e delle Guardie rivoluzionarie iraniane stanziate in Siria. Circa 500 miliziani di Hamas sarebbero poi stati addestrati in Iran nel settembre precedente. L’Iran è infine il principale fornitore di mezzi militari delle organizzazioni islamiche presenti a Gaza, con un arsenale molto più aggiornato rispetto all’invasione israeliana del 2014, con droni esplosivi, missili anti carro e razzi ad alto impatto, il tipo di armi che ha trasformato il campo di battaglia in Ucraina. Anche per questo le perdite israeliane sono più che raddoppiate, con 26 morti in una settimana, rispetto ad un totale di 67 perdite in 7 settimane nella campagna del 2014. Blinken ha tuttavia dichiarato di non avere evidenza di un coinvolgimento diretto dell’Iran nell’attacco, anche se le sue relazioni con Hamas sono certamente di lunga durata. La concezione di deterrenza dell’Iran si basa su due pilastri essenziali: i missili e i droni di varia gittata e precisione (il suo armamento di terra è al contrario obsoleto, e risale ai tempi della guerra con l’Iraq); e la cosiddetta “deterrenza di profondità”, che si basa sulla possibilità di colpire Israele, e anche le basi Usa in Siria e Iraq, attraverso il sistema dei suoi alleati, in Iraq, Siria, Libano, Gaza, fino agli Houthi in Yemen: la cosiddetta mezzaluna sciita. La possibilità quindi di lanciare una guerra multifronte, di cui si sono avute alcune avvisaglie nei mesi passati. Tuttavia, come si è detto, gli avvertimenti e le misure di deterrenza americane sono stati precisi e determinati, e l’Iran con ogni probabilità sceglierà di capitalizzare sui risultati già ottenuti, senza rischiare di andare a uno scontro frontale. L’Iran esce quindi rafforzato, e la già ricordata telefonata tra il presidente Raisi e Mbs sottolinea il suo ruolo ineludibile nella regione, pur se può essere letta anche come un segnale saudita volto ad evitare ulteriori escalation.
L’Arabia Saudita
L’Arabia Saudita ha subito un duro colpo dall’operazione di Hamas, ed è stata costretta a congelare il processo di normalizzazione con Israele. La sua ambizione di giocare un ruolo centrale nell’assetto regionale è stata ridimensionata, e Mbs ha dovuto scegliere di giocare in difesa, rinunciando a svolgere un ruolo centrale nella soluzione del conflitto. Ci si è limitati alla reiterazione di posizioni di principio, quali il richiamo al Piano Arabo di Pace del 2002, l’appello a una immediata cessazione dell’escalation tra le due parti, il categorico rifiuto delle richieste israeliana di trasferimento forzoso della popolazione palestinese da Gaza, la condanna dei bombardamenti sulla popolazione civile inerme. Nessuna condanna di Hamas. A dire il vero, i sauditi il 18 ottobre hanno convocato l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), composta da 57 membri, che nella mozione conclusiva ha denunciato l’inazione e il doppio standard della comunità internazionale in risposta alle operazioni militari israeliane a Gaza. Ma tutte queste dure dichiarazioni erano in realtà volte a fornire una copertura dopo i mesi di negoziati per arrivare alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Qualche voce critica si è tuttavia levata, come quella del principe Turki bin Faisal, già capo della sicurezza Saudita e ambasciatore a Londra e Washington, che durante un convegno a Houston ha attaccato non solo Israele e l’Occidente per lo spargimento di sangue a Gaza, ma anche Hamas per la sua follia omicida in Israele, ricordando che secondo i principi dell’Islam non è ammesso uccidere bambini, donne, anziani. Anche se ora è un privato cittadino, ha probabilmente detto in pubblico ciò che i reali sauditi vorrebbero dire ma non possono. Il conflitto a Gaza rappresenta anche un duro colpo alla capacità di attrarre potenziali investitori privati per il faraonico piano “Saudi Vision 2030” promosso da Mbs , che già faticava a decollare, ed era costretto a basarsi quasi esclusivamente sul sostegno dei fondi pubblici, pur facilitati dall’alto prezzo del petrolio. Tuttavia, per vie parallele, i sauditi avrebbero comunicato agli americani che dopo la fine del conflitto sarebbero pronti a riprendere il processo di normalizzazione con lo Stato ebraico.
Gli Emirati Arabi Uniti
Gli Emirati hanno fortemente beneficiato degli accordi di Abramo, a tutti i livelli, e intendono continuare a coglierne i vantaggi. Il giorno successivo all’attacco di Hamas, l’8 ottobre, il Ministero degli Esteri degli Emirati ha criticato Hamas per la sua “seria e grave escalation”, affermando di essere “sconvolto” dalle notizie secondo cui civili israeliani erano stati presi in ostaggio. Ha sottolineato altresì che i civili di entrambe le parti devono avere piena protezione ai sensi del diritto internazionale umanitario e non devono essere bersaglio di conflitti. La presa di posizione si differenziava profondamente da quella dell’Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo. Gli Emirati hanno tuttavia condannato Israele per il bombardamento dell’ospedale a Gaza, addossandogliene la responsabilità. Stanno adottando una posizione simile a quella assunta per il conflitto tra Russia e Ucraina, astenendosi dal sospendere i legami con Israele e cercando di mantenere aperta una finestra di opportunità con Hamas, evitando di affibbiarle l’etichetta di terrorismo. La leadership emiratina deve anche tener conto della sua constituency filo-palestinese, e comprende che la causa palestinese è troppo importante per essere ignorata completamente. Per questo, nell’ultimo anno ha cercato di prendere le distanze dal governo israeliano di estrema destra, presentando anche proposte di risoluzione al Consiglio di Sicurezza, nella sua qualità di membro non permanente, per imporre un blocco all’espansione degli insediamenti israeliani. Proprio ieri, ha dichiarato di lavorare instancabilmente per garantire un cessate il fuoco umanitario, e ha messo in guardia contro i rischi di una ricaduta regionale del conflitto. Questi rischi riguardano in particolare le minacce avanzate dagli Houthi in Yemen, di colpire gli interessi degli Usa nella Regione, e la stessa Israele. Eventuali attacchi di droni o missili Houthi contro Abu Dhabi, simili a quelli del gennaio 2022, minaccerebbero gravemente la sicurezza nazionale, la salute economica e la reputazione degli Emirati come oasi di stabilità nella regione.
Il Qatar
Il Qatar ha svolto un ruolo centrale, in coordinamento con gli Stati Uniti, nel raggiungere un accordo tra Israele, Hamas e Egitto per garantire la fuoriuscita giornaliera da Gaza, attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, di centinaia di cittadini stranieri o con doppia nazionalità (in totale, sarebbero circa 7.000), e di civili palestinesi gravemente feriti. Parallelamente, verrebbe assicurata l’entrata quotidiana di centinaia di camion recanti aiuti umanitari per la popolazione civile. Un accordo di straordinaria importanza, che gli Stati Uniti stanno cercando in ogni modo di mantenere in funzione. Il Qatar può essere ad ogni titolo essere definito un paese cerniera, con una influenza assai maggiore della sua dimensione. Un piccolo paese, con appena 300.000 abitanti, ma che ospita la più grande base militare Usa nell’area, insieme ai più importanti leader di Hamas all’estero, Ismail Haniyeh e Khalid Meshaal. Esso condivide con l’Iran la più grande riserva di gas naturale al mondo. È altresì sede del network Al Jazeera, il più influente del mondo arabo. L’anno scorso, ha ospitato la Coppa del Mondo di calcio. Per anni, in coordinamento con Israele, ha sovvenzionato Hamas con 30 milioni di dollari al mese, in passato anche con valigie piene di contanti che passavano attraverso i valichi con Israele, e servivano a pagare gli impiegati pubblici, a sostenere la popolazione civile e a tenere calma la situazione. Il Qatar non ha pubblicamente condannato l’attacco di Hamas, e, come altri paesi arabi, ha deprecato l’escalation dei bombardamenti contro i civili a Gaza, definendoli come “barbari”. Malgrado questa aspra retorica, il paese mantiene costanti rapporti con Israele, e lo scorso week end, secondo il Washington Post, David Barnea, direttore del Mossad, ha visitato in segreto Doha per discutere del rilascio degli ostaggi e di altri aspetti particolarmente sensibili.
L’Egitto
L’Egitto, attraverso il valico di Rafah, controlla l’unica via d’uscita dalla Striscia di Gaza ancora in funzione. Ma ha fatto molta resistenza prima di accettare l’accordo che permette di far partire da Gaza i residenti stranieri. Un concept paper elaborato dal Ministero dell’Intelligence israeliano ipotizza che i 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza vengano trasferiti nel Sinai, dapprima in tendopoli nel Nord della penisola, per poi costruire città permanenti. Verrebbe istituita in Israele una zona di sicurezza per impedire il ritorno degli sfollati. Non si chiarisce il destino di Gaza una volta svuotata dalla sua popolazione. Anche se l’ufficio del primo ministro ha sminuito tale documento, definendolo “un esercizio ipotetico”, le sue conclusioni hanno rafforzato i timori egiziani di vecchia data, che Israele voglia fare di Gaza un problema egiziano, ed hanno ravvivato nei palestinesi il ricordo della “Naqba” del 1948. Israele avrebbe anche avanzato la proposta che la Banca Mondiale possa stralciare una larga porzione del debito egiziano in cambio di tale trasferimento, dando sollievo alle sua acuta crisi debitoria, seconda solo a quella dell’Ucraina. Ma il presidente Al-Sisi ha respinto decisamente tali ipotesi, e ha affermato che l’afflusso di una massa di rifugiati dal Sinai rischierebbe di portarvi anche militanti palestinesi, che potrebbero portare attacchi contro Israele, mettendo in pericolo lo stesso trattato di pace del 1979. Ha proposto invece che Israele ospiti i palestinesi nel deserto del Negev, confinante con la Striscia, finché non porrà fine alle sue operazioni militari. D’altronde, l’Egitto ha a lungo dovuto far fronte alla guerriglia di gruppi armati islamisti nel Sinai, spesso collegati ai miliziani di Hamas attraverso un sistema di tunnel, e non vuole trovarsi di fronte ad una recrudescenza del problema.
La Giordania
La Giordania ha condannato con particolare durezza la guerra israeliana che sta uccidendo persone innocenti a Gaza, creando una catastrofe umanitaria senza precedenti, e il 1° novembre ha richiamato il proprio ambasciatore in Israele, invitando Israele a ritirare il suo. La reazione giordana, che come la maggior parte degli stati arabi non ha condannato l’attacco di Hamas, è dovuta sicuramente al fatto che la maggioranza della sua popolazione è di origine palestinese, e la corona sente messo in pericolo il suo stesso futuro se la guerra dovesse ancora aggravarsi. Un altro timore è che una ulteriore escalation, a livello regionale o anche in Cisgiordania, possa produrre una nuova ondata di profughi, dopo quelle del ‘48 e del ’67. Il 19 ottobre, Re Abdullah aveva annullato il previsto summit con Biden, cui dovevano partecipare anche il presidente palestinese Abbas e il presidente egiziano Al-Sisi, in seguito all’esplosione verificatasi in un ospedale di Gaza, inizialmente attribuita ad un bombardamento israeliano, anche se in seguito è risultata essere stata prodotta da un razzo dello Jihad islamico andato fuori bersaglio. Il giorno prima, decine di manifestanti avevano tentato di assaltare l’Ambasciata israeliana. Ad Amman si è tenuto il summit dei ministri degli Esteri di Emirati arabi, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto, insieme al segretario generale dell’Olp Hussein al-Sheik, alla presenza del segretario di Stato americano Antony Blinken. La Giordania afferma che obiettivo del vertice è “fermare la guerra israeliana a Gaza e il disastro umanitario che sta creando”. I ministri arabi hanno portato a Blinken la richiesta di un cessate il fuoco immediato e la consegna urgente di aiuti umanitari. I ministri discuteranno anche delle ripercussioni della guerra e dei modi per porre fine a questo deterioramento che minaccia l’intera regione.
Il Bahrain
Giovedì il Bahrein ha annunciato il ritiro del suo ambasciatore in Israele e non è chiaro se anche l’ambasciatore israeliano sia stato espulso. La decisione sarebbe stata adottata dal Parlamento, in relazione al conflitto tra Israele e Hamas, per il forte aumento delle vittime civili e per il blocco della Striscia densamente popolata. Israele afferma di non avere avuto comunicazioni ufficiali al riguardo. La notizia è di particolare gravità, poiché il Bahrain è uno dei paesi che avevano aderito agli accordi di Abramo, nel 2002, normalizzando le relazioni con Israele. Il Bahrein è un piccolo arcipelago nel Golfo Persico, dove la famiglia reale Al Khalifa, alleata dell’Arabia Saudita e espressione della minoranza sunnita, governa su una popolazione per il 70% sciita. Durante la Primavera araba, nel 2011, una insurrezione della popolazione fu schiacciata grazie all’intervento armato dei sauditi, di Emirati e Kuwait. La monarchia regnante teme ora pesanti ripercussioni per il conflitto in atto a Gaza.
Il Marocco
Il Marocco, anch’esso firmatario degli Accordi di Abramo, è profondamente scosso dalle ripercussioni del conflitto in atto. Mentre le dichiarazioni ufficiali condannavano gli attacchi contro i civili “da qualsiasi parte” e sottolineavano la necessità di dialogo e negoziati, migliaia di marocchini a Rabat scendevano in piazza per chiedere l’annullamento degli accordi di normalizzazione, ed il Partito islamico Giustizia e Sviluppo elogiava l’attacco di Hamas come un atto eroico, una reazione naturale e legittima alle quotidiane violazioni israeliane. Ancora oggi, un comunicato del Ministero degli Esteri ribadisce la grande preoccupazione e l’indignazione per l’escalation delle operazioni militari a Gaza e la situazione catastrofica delle condizioni umanitarie, con le sempre più larghe devastazioni e le migliaia di vittime civili. Tutti questi atti sono in contraddizione con il diritto umanitario internazionale, si afferma, mentre aumentano i rischi di escalation del conflitto nei Territori palestinesi e di espansione della violenza alle aree vicine, minacciando così la stabilità dell’intera regione. Si esprime il disappunto per l’inerzia della Comunità internazionale e dello stesso Consiglio di Sicurezza, ed il sostegno alla Autorità palestinese e alle sue istituzioni. Il regno del Marocco chiede una riduzione della tensione che porti ad un cessate il fuoco e alla creazione di canali umanitari, per facilitare l’ingresso degli aiuti nonché il rilascio di prigionieri e detenuti, con l’obbligo di riaprire una prospettiva politica alla questione palestinese, con il rilancio della soluzione a due stati.
La Turchia
Inizialmente, Ankara aveva scelto un approccio più cauto, basato su tre linee: dare chiaro sostegno retorico e umanitario alla popolazione di Gaza; ricercare un terreno comune con altri attori regionali; prendere cautamente le distanze da Hamas in seguito ai suoi attacchi. Le autorità turche avevano detto agli esponenti di Hamas presenti nel paese che non potevano più garantire la loro sicurezza, il che equivaleva a un invito ad andarsene. Avendo perso la scommessa che puntava a uno sviluppo moderato di Hamas attraverso l’impegno politico, la Turchia non era sembrata disposta ad appoggiare o difendere gli attacchi terroristici. Erdogan aveva usato un tono moderatamente critico rispetto alla risposta militare di Israele, per continuare a migliorare gradualmente i rapporti bilaterali. Probabilmente, Ankara puntava sulla possibilità di svolgere un ruolo di mediazione tra le parti, ma poi ha dovuto prendere atto del fatto che l’iniziativa diplomatica faceva riferimento al Qatar e all’Egitto. Il presidente Erdogan, lo scorso 28 ottobre, durante una manifestazione per celebrare il centenario della nascita dello Stato turco, che ha riunito centinaia di migliaia di persone, ha impresso una brusca svolta alla posizione turca: ha definito come criminali i comportamenti di Israele a Gaza, e ha affermato che i combattenti di Hamas non sono terroristi. Fino a oggi, con la decisione di richiamare in patria per consultazioni il proprio ambasciatore in Israele, Sakir Ozkan Torunlar – pur confermando di voler mantenere i rapporti diplomatici con lo Stato ebraico – e con la dichiarazione pubblica di Erdogan contro Netanyahu, definito “una persona con cui non si può più parlare”, e contro le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra da parte di Israele a Gaza, che “faremo di tutto per portare davanti alla Corte penale internazionale”. Quanto basta, per il Ministero degli Esteri israeliano, per affermare che Erdogan si sta schierando come Hamas. Il deterioramento delle relazioni tra Israele e Turchia ha già avuto pesanti conseguenze sull’economia turca, che già versa in condizioni critiche. Il cambio con il dollaro è precipitato pesantemente, e l’allarme tra gli investitori stranieri, che contavano sulla distensione tra i due paesi, si è diffuso. Domenica è atteso Blinken, proveniente dalla Giordania, per un paziente lavoro di ricucitura diplomatica. Gli Usa considerano la Turchia come una potenziale componente della forza internazionale di peacekeeping che dovrebbe assicurare una pacifica transizione dopo la fine della guerra a Gaza.
Hezbollah e il Libano
Dallo scoppio della guerra sono venuti infittendosi gli attacchi da parte di Hezbollah e di milizie palestinesi operanti nei campi profughi nel Sud del paese, con lanci di razzi, colpi di mortaio e droni che hanno mantenuto alta la pressione su Israele, che ha reagito ogni volta. Questa costante pressione ha costretto lo Stato ebraico a dislocare parte delle sue forze sulla frontiera nord del paese, distogliendole dal conflitto in corso a Gaza. Tuttavia, la tensione da ambo le parti è stata mantenuta entro limiti contenuti, senza degenerare in un conflitto più generale con un approccio che richiama la cauta posizione assunta dall’Iran. Hezbollah dispone di un arsenale dieci volte più potente e assai più preciso di quello di Hamas, è in possesso di uno stock di circa 150.000 missili e droni a media e lunga gittata, in grado di colpire pesantemente e in profondità l’intero territorio israeliano. Tuttavia, l’organizzazione islamica esita ad aprire un nuovo conflitto con Israele, simile a quello del 2006, sia per le terribili condizioni economiche in cui versa il paese, sia per gli avvisi ricevuti dagli Usa, con le forze di deterrenza messe in campo nel Mediterraneo orientale. Proprio ieri, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel suo primo intervento pubblico dall’inizio del conflitto ha negato che il suo gruppo fosse in qualsiasi modo a conoscenza dell’attacco del 7 ottobre, che “è stato al 100% palestinese in termine di decisione e esecuzione”. Egli è sembrato così prendere in qualche modo le distanze da quell’operazione, non ha in alcun modo espresso l’intenzione di ampliare la partecipazione del suo gruppo al conflitto con interventi di vaste proporzioni e ha messo in guardia Israele contro la messa in atto di operazioni preventive, anche se ha reiterato le sue minacce contro Israele ed espresso la sua solidarietà con i militanti palestinesi e i loro martiri. D’altronde, i rapporti con Hamas non sono dei migliori: l’organizzazione sciita le rimprovera di essersi schierata contro Assad, all’inizio della guerra civile in Siria. Esponenti politici e giornalisti libanesi hanno risposto per le rime all’appello del leader di Hamas Khaled Meshaal, che chiedeva di aprire un secondo fronte contro Israele, mentre le sue forze sono impegnate a Gaza. Meshaal aveva criticato l’approccio graduale e limitato adottato da Hezbollah sul confine settentrionale di Israele, giudicandolo insufficiente. Le sue osservazioni sono state respinte, come provenienti da un uomo che alloggia in un albergo a cinque stelle a Doha. Un giornalista vicino ad Hezbollah ha aggiunto che se Meshaal arriva a Beirut, è pronto a portarlo nel Sud del paese perché possa combattere in prima persona.
(da Huffingtonpost)
Leave a Reply