DEBITO PUBBLICO TROPPO ALTO: ECCO I RISCHI CHE CORRONO GLI ITALIANI
PAGHIAMO OGNI ANNO 70 MILIARDI DI INTERESSI, IL CHE VANIFICA OGNI SFORZO
Il debito pubblico italiano è arrivato lo scorso novembre a 2.229.412 milioni secondo i dati diffusi da Banca d’Italia.
Su questa cifra enorme, arrivata a superare di gran lunga il prodotto interno lordo (Pil) del paese, il Tesoro paga circa 70 miliardi di interessi all’anno, carico che vanifica tutti gli sforzi compiuti dagli italiani sul fronte delle spese e delle entrate.
Se si esclude il 2009, infatti, negli ultimi 20 anni l’Italia ha sempre registrato un avanzo primario, cioè una differenza positiva tra entrate (fiscali) ed uscite (spesa pubblica). Ma alla fine aggiungendo il carico degli interessi il saldo finale è sempre stato negativo, producendo un deficit netto che ogni anno va ad aggiungersi al debito pubblico totale e che ha portato il livello sempre più in alto.
L’indicatore che l’Europa tiene sott’occhio per monitorare il nostro stato di salute è il rapporto tra debito pubblico dello stato e Pil nominale.
Le più recenti cifre fornite dal Tesoro attraverso la nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Def) ci dicono che a fine 2016 il rapporto debito/Pil era arrivato al 132,8%, con previsione di discesa al 132,5% nel 2017, al 130,1% nel 2018 e al 126,6% nel 2019.
Ma per compiere questo significativo progresso il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha messo in conto un notevole miglioramento del saldo primario (entrate meno uscite) che dovrebbe passare dall’1,5% del Pil nel 2016, all’1,7% quest’anno, al 2,4% nel 2018 e al 3,2% nel 2019.
Come verrà ottenuto questo considerevole miglioramento è difficile da spiegare, anche perchè si tratta di previsioni che quasi sempre vengono smentite.
Padoan, inoltre, ha messo in conto anche un netto calo della spesa per interessi dovuta alla riduzione fin quasi a zero dei rendimenti provocata dal massiccio acquisto di titoli di Stato da parte della Bce, il cosiddetto Quantitative easing varato da Mario Draghi e che i tedeschi avversano. Dal 4,2% sul Pil di spesa per interessi nel 2015 scenderemo al 3,4% nel 2019. È realistico tutto ciò?
La festa è (quasi) finita
Quattro fatti possono incidere su questo scenario nel prossimo futuro.
1) La manovra della Bce andrà a ridurre il suo effetto verso la fine dell’anno e nel 2018 potrebbe concludersi, comportando nella pratica meno domanda di titoli italiani sui mercati e quindi una diminuzione dei loro prezzi con aumento dei rendimenti;
2) i regolatori del sistema bancario internazionale possono decidere di porre un tetto al possesso di titoli di Stato da parte delle banche determinando per questa via meno domanda per gli stessi;
3) l’instabilità politica italiana che si temeva con il No al referendum costituzionale si sta in effetti manifestando con l’effetto di far aumentare lo spread (differenziale di rendimento tra Bund tedeschi e Btp italiani), come si è già visto nelle ultime settimane e giorni (lunedì 6 ha sfondato quota 200);
4) l’Italia non raggiunge l’1% di crescita nel 2017 a causa dei limitati margini di manovra per la politica fiscale.
Tutto ciò può provocare un “brusco risveglio” come avverte Francesco Giavazzi, economista di punta della Bocconi.
“Sono preoccupato di un brusco risveglio — spiega Giavazzi a Business Insider Italia — perchè i tassi di interesse aumenteranno presto, anzi i tassi a lungo termine stanno già salendo. La ripresa in Europa sta cominciando a contagiare i salari e i prezzi, così che le pressioni inflazionistiche stanno raggiungendo gli obbiettivi che si era posta la Bce, leggermente sotto al 2%. Il privilegio di potersi dimenticare del debito sta dunque volgendo al termine e purtroppo, ancora una volta, l’Italia non è stata capace di avvantaggiarsi di un periodo di tassi eccezionalmente bassi per tagliare le spese almeno un po’, che è l’unico modo per ridurre il rapporto debito/Pil in maniera strutturale”.
La spirale negativa
Dunque ricapitoliamo: l’Italia cresce poco, dello 0,7% nel 2016 e forse dell’1% (stime Tesoro) nel 2017 e non riesce così a compensare l’aumento del debito dovuto al deficit netto che deve tenere conto degli ingenti oneri finanziari (70 miliardi) che ogni anno dobbiamo pagare sul debito pregresso.
Ne consegue che l’Europa è preoccupata per la scarsa capacità dell’Italia di tenere sotto controllo il rapporto debito/Pil e ci chiede di ridurre il deficit 2016 dal 2,4% al 2,2%.
Ma questo aggiustamento significa, secondo il governo, applicare delle misure recessive (più tasse o tagli alla spesa pubblica) che stroncherebbero sul nascere la fragile ripresa economica fin qui conquistata.
E quindi l’Italia è nel pieno del classico circolo vizioso: se taglia le spese o alza le tasse frena la ripresa di cui ha disperatamente bisogno per migliorare il saldo primario e diminuire il deficit netto che va ad aumentare il debito con la conseguenza che la Commissione Ue deciderà il 20 febbraio se aprire una procedura di infrazione verso l’Italia per debito eccessivo.
I mercati reagirebbero male e farebbero salire lo spread che andrebbe ad appesantire la spesa per interessi con ulteriore aggravio per i conti pubblici italiani.
Come se ne esce?
Nel tunnel non si vede ancora la luce ma da qualche parte l’uscita ci sarà .
“Come ama ripetere sempre Draghi, ciò che conta è la composizione della spesa pubblica — ricorda Giavazzi — se si vanno a colpire le spese improduttive si possono contemporaneamente anche ridurre le tasse. L’evidenza empirica ci dice che gli effetti recessivi sul Pil sono minori se si tagliano le spese invece di aumentare le tasse. Ma i tagli di spesa non si riescono a fare. Durante il governo Monti sono state introdotte tasse per oltre il 5% del Pil che hanno portato alla recessione nel 2012 e nel 2013. Il governo Renzi se non altro ha bloccato l’aumento delle imposte (diminuendo quelle centrali anche se compensate da aumenti a livello locale) ma sui tagli di spesa non è riuscito a fare molto”.
Non a caso Padoan per trovare i 3,4 miliardi chiesti dalla Ue sta pensando di aumentare le accise sulla benzina e i prezzi delle sigarette mentre dai tagli di spesa dei ministeri riesce a cavar fuori ben poco.
La spending review negli ultimi anni è stata affidata alle mani di economisti esperti come Carlo Cottarelli, Roberto Perotti, Yoram Gutgeld ma nessuno è riuscito a incidere più di tanto. Risultato: la strada più indolore, che piace a Draghi, di tagli selettivi alla spesa e diminuzione della pressione fiscale per far ripartire la ripresa finora nessun governo italiano è riuscito a percorrerla.
La via tedesca
I tedeschi sono molto preoccupati per l’ampiezza che ha assunto il debito pubblico italiano. Tanto che ritengono impossibile creare a livello europeo un pacchetto di salvataggio in grado di salvare l’Italia nel caso vi fosse uno shock sul debito.
Nello stesso tempo i casi dell’Irlanda, Grecia e Portogallo hanno portato l’Europa a fare interventi di salvataggio minando la credibilità della clausola del “no bail out” anche se l’introduzione del fondo salva stati (Esm) e dell’Unione bancaria europea ha in parte mitigato questi effetti negativi.
I tedeschi, comunque, non vogliono farsi trovare impreparati e vogliono stabilire un quadro di regole certe da seguire nei casi di ristrutturazione dei debiti pubblici europei.
Un quadro di regole certe, infatti, permette ai mercati di reagire in maniera più consapevole qualora vi siano situazioni di emergenza e costringe i politici dei rispettivi Paesi a essere più disciplinati nella loro politica fiscale, in quanto sanno fin da subito che non pioveranno soldi gratis dagli altri partecipanti all’euro.
Tutto ciò è stato messo nero su bianco in un paper datato luglio 2016 e prodotto dal team degli esperti economici del governo Merkel, guidato da Lars Feld, considerato molto vicino al ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Il paper di 26 densissime pagine si intitola: “Un meccanismo per regolare la ristrutturazione dei debiti sovrani nell’area Euro” e propone “l’allungamento delle scadenze” del debito di un Paese nel caso questo risulti non sostenibile dopo una verifica che passa per l’Esm e per alcuni parametri chiave.
Solo in una seconda fase ci può essere una vera e propria ristrutturazione del debito. L’allungamento delle scadenze, però, deve essere approvato dai detentori dei singoli titoli e per questo motivo Feld e i suoi esperti propongono la modifica delle clausole contrattuali attualmente in vigore per rendere più agevole l’approvazione dell’allungamento delle scadenze. Inoltre queste clausole prevedono anche che il debito si debba ripagare per forza in euro e non in valuta nazionale rendendo così sconsigliabile per un paese aderente uscire dalla moneta unica, se non al costo di perdite ingenti.
L’analisi di Feld&C. affronta anche il tema spinoso di chi pagherà il conto di una eventuale ristrutturazione del debito.
Nel caso dell’Italia — essendo lo stesso per il 90% detenuto all’interno dell’area euro e per il 65% da investitori domestici, essendo distribuito tra banche private (30%), privati cittadini (30%) e Banca d’Italia (10%), e con un altro 25% presente nei portafogli delle banche europee — uno riscadenziamento comporterebbe un onere da dividere tra questi quattro insiemi di investitori.
Ma il rischio è che tappando il buco da una parte se ne crei un altro poco distante, cioè nelle banche che dovrebbero marcare a bilancio delle probabili perdite. E poi chiedere nuovo capitale ai mercati.
“Un riscadenziamento del debito non tiene conto che i titoli governativi sono presenti per la maggior parte nei portafogli delle banche, italiane ed estere — spiega il professor Giavazzi -. E quali sono quelle banche, magari tedesche o francesi, che approverebbero con una maggioranza del 75% di accollarsi delle perdite? Poi dovrebbero ricapitalizzarsi e se non sei costretto, come è successo in Grecia, non lo fai”.
Un taglio secco
Una seconda strada per disinnescare la mina del debito pubblico italiano passa per un taglio secco di importo consistente che permetterebbe altresì di ridurre la spesa per interessi.
Se il governo riuscisse un giorno ad annunciare un piano per la riduzione del debito nell’ordine dei 300 miliardi tale annuncio avrebbe benefici immediati sul livello dello spread innescando una spirale positiva.
Già , ma come fa il governo a trovare 300 miliardi visto che non riesce a trovarne 3,4 se non alzando il prezzo della benzina?
A questa domanda ha cercato di rispondere la “Fondazione Res Publica”, presieduta da Eugenio Belloni, il cui comitato scientifico è retto da Giulio Tremonti e con un comitato direttivo che riunisce banchieri come Alessandro Profumo, Gaetano Miccichè e Ruggero Magnoni.
Secondo uno studio preparato dalla Fondazione e già presentato in via riservata al Tesoro, lo Stato dovrebbe creare dei veicoli societari entro cui convogliare propri attivi per 300 miliardi di euro, tra cui immobili degli Enti locali, crediti di Equitalia verso i contribuenti italiani, crediti dello Stato verso Stati esteri, partecipazioni azionarie di società quotate possedute dal Tesoro, valore delle concessioni (su infrastrutture di trasporto o demaniali), parte dell’oro della Banca d’Italia.
La vera novità arriva al passo successivo: al posto delle normali emissioni di Btp il Tesoro andrebbe a collocare sul mercato BtpMc e BtpC, cioè titoli obbligazionari che possono essere convertiti in azioni delle società veicolo con al loro interno i beni dello Stato.
I sottoscrittori di tali titoli incasseranno una cedola superiore a quella dei Btp fino a quando questi non verranno convertiti e poi diventeranno azionisti di società che dovranno valorizzare al meglio gli asset dello Stato.
In questo modo lo Stato scambierà titoli di debito con azioni e potrà ridurre in maniera corrispondente l’ammontare dell’indebitamento che grava sulle sue spalle e per questa via gli oneri finanziari futuri.
Certo, dovrebbe convincere privati e banche che i valori a cui vengono fatti i conferimenti degli asset nei veicoli siano congrui e trovare investitori che siano disposti ad avere in portafoglio prima titoli obbligazionari e poi azioni. Inoltre dovrebbe trovare manager capaci che siano in grado di valorizzare gli asset conferiti nei veicoli. Non facile ma forse non impossibile.
Vedremo se questa proposta andrà avanti nel percorso di analisi del ministero del Tesoro che sicuramente starà studiando la situazione da tempo, senza far trapelare nulla all’esterno. Ma sia tra gli operatori di mercato sia tra gli addetti ai lavori è sempre più diffusa la consapevolezza che sia utopistico affidare la riduzione del debito pubblico al solo avanzo primario. L’elevata spesa per interessi lo impedisce.
Giovanni Pons
(da “Business Insider”)
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