EMERGENZA PROFUGHI LAMPEDUSA, IL PARROCO CONTRO LA CHIUSURA DEL CENTRO DI PERMANENZA: “APRIRO’ LA PARROCCHIA”
IL GOVERNO NON VUOLE APRIRE IL CENTRO PER L’EMERGENZA, QUASI CHE QUESTA NON LA FOSSE.. MENTRE SONO ORMAI PIU’ DI TREMILA I PROFUGHI ARRIVATI IN DUE GIORNI IN ITALIA, IN FUGA DALLA TUNISIA
Dopo le avvisaglie è l’ora della tempesta.
Attesa, annunciata, temuta.
Adesso il mare vomita braccia, facce, vestiti, pianti.
Duemila immigrati tra l’altra sera e ieri (senza contare gli altri 600 avvistati alle 22,30), e altri ancora ne arrivano, già partiti dai porti tunisini e diretti qui a Lampedusa.
Una marea umana che gli aerei e le navi portano via come il catino cerca di svuotare una barca allagata.
Cinquanta ne partono, e cinquanta ne arrivano.
Cento ne imbarcano, e cento ne avvistano sull’orizzonte.
Quaranta ne piazzano sul molo e altrettanti si fanno largo.
Un esodo, un’intera generazione di ventenni che dalla Tunisia prende il largo per toccare le coste d’Europa con il sogno di arrivare in Francia.
È saltato il tappo dei controlli, la morsa delle autorità , «adesso o mai più, ce l’abbiamo fatta», dice Ahmed, infreddolito e sorridente sulla banchina prima che qualcuno lo porti via.
E il Centro di accoglienza resta chiuso, come se questa non fosse emergenza, come se non ci fosse nessuno da ricevere.
Fa la spola, invece, tra la chiesa e il porto, don Stefano Nastasi, il parroco dell’isola che l’altra sera ha detto di essere pronto ad aprire le porte della canonica e pure della parrocchia, pur di non lasciare i migranti a dormire all’addiaccio, coperti dai cartoni, a fare pipì per strada, pur di non ammettere che Lampedusa è tornata a essere l’avamposto dei disperati.
Niente ribellismi, niente protagonismi, niente urla, per questo prete che è abituato a vivere nei silenzi invernali dell’isola più meridionale d’Europa.
«È semplicemente un paradosso – dice – che si preferisca mandare la gente in albergo o lasciarla sul molo quando c’è un centro che serve proprio a questo e che resta chiuso».
Giovedì sera, all’arrivo del primo maxi-barcone con 113 migranti, è stato proprio il suo intervento a convincere la prefettura di Agrigento a mandare un gruppo negli hotel che ancora aprono le porte agli immigrati.
Gli altri sono rimasti acciambellati a terra per tutta la notte.
Ieri mattina, quando i fantasmi dell’invasione si sono materializzati, dal mare è cominciato un ponte aereo dei mezzi delle Poste italiane che è andato avanti tutto il giorno e che sarebbe continuato anche per la notte.
Spariscono da qui, da questo molo che adesso conosce di nuovo la ressa di telecamere e taccuini, diretti ai Brindisi, Cagliari, Foggia, Caltanissetta, i centri di accoglienza attivi.
Già , ma fino a quando non scoppieranno anche quelli?
«I posti disponibili in Italia sono circa duemila – spiega un operatore tra uno sbarco e l’altro – quanti ne sono arrivati qui in due giorni. Se continua così dove li mettono?».
Maroni ha detto che non saranno rimpatriati, almeno fino a quando la situazione in Tunisia non si sarà stabilizzata.
Quanto alla possibilità di contare sui successori di Ben Alì, sembra tutto traballante e in alto mare, proprio come questi pescherecci che arrivano qui, approntati in una settimana come un’agenzia di viaggi organizzati.
Almeno così pare, a giudicare dal singolo tentativo di una motovedetta tunisina di bloccare una carretta, e dall’insurrezione stupita dei migranti a protestare, a chiedere: «Ma perchè proprio noi, non lo vedete quanti siamo?».
L’emergenza presto non sarà più qui soltanto, concordano tutti, mentre altri arrivano.
Non più confinata a Lampedusa, a dispetto del centro chiuso e degli 850 posti letto vuoti.
Una vena di surrealtà comune a questi luoghi invasi dal sole per sei mesi e stretti nella solitudine per gli altri sei.
Gli isolani sembrano asserragliati nelle loro case, loro che sono assuefatti alle maree di uomini e di onde, divisi tra la speranza che i migranti portino di nuovo qui l’attenzione e i soldi della macchina dell’assistenza, e la paura della cattiva immagine alla vigilia delle prenotazioni di stagione.
Incontro e scontro eterni, quaggiù, «dove tempo fa, quando l’isola era militarizzata, ho curato una signora che temeva che gli uomini delle forze dell’ordine le entrassero in casa. Non gli extracomunitari, ma i carabinieri», sorride Enza Malatino, la psicoterapeuta che da undici anni si occupa della salute mentale degli isolani e dei migranti.
Ma qui, altro che militarizzazione, qui adesso l’ottantina di uomini tra guardia costiera, carabinieri, finanzieri sono tanti Drogo a difesa della fortezza nel deserto dei Tartari.
Stremati nelle loro divise.
Sono arrivati due poliziotti di rinforzo, due aerei, due motovedette alle scarse truppe ordinarie.
Ma sono come scogli chiamati ad arginare il mare infinito.
Laura Anello
(da “La Stampa“)
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