ETICHETTARE I POVERI COME “POLTRONARI” SIGNIFICA BANALIZZARE UNA CONDIZIONE DI DISPERAZIONE
“CHE VADANO A LAVORARE” IL SOLITO REFRAIN DI CHI SCHERNISCE GLI INDIGENTI
Questa volta il messaggio è chiaro e lapidario. È solo dei poveri la colpa di esserlo e quindi non meritano aiuti. “Che vad
ano a lavorare”. È questo il pensiero che accomuna potenti e governanti. Non si fanno scrupoli a vessare e schernire i poveri, magari definendo occupabili i disoccupati e “divanisti o poltronari” i percettori del reddito di cittadinanza.
Nessuna remora nemmeno nell’etichettarli parassiti della società, la busta paga di noi tutti, anche di chi vive a sua volta in precarie condizioni. E l’incuranza per le conseguenze che potrebbero scaturire dal ripetersi di tali affermazioni denota un cinismo e un’avventatezza imbarazzanti.
Divide et impera. Antica, ma tuttora efficace strategia di potere che generando conflitti e rivalità fra le classi sociali più deboli e disagiate della popolazione consente di mantenere ben saldi e inalterati privilegi e ricchezze, ad esclusivo appannaggio loro e delle fasce sociali più agiate. Etichettare i poveri come coloro che non ci hanno saputo fare, e pertanto non meritevoli di investimenti, significa banalizzare con spregiudicatezza una condizione di vita impregnata di disperazione e miserie di ogni genere. La povertà costringe a sovvertire la scala delle priorità generando un modo “pericoloso” di pensare, ma l’unico funzionale alla sopravvivenza. La persona povera non ha scelta. Deve forzatamente vivere di espedienti, con l’unico obiettivo di arrivare a fine giornata. La povertà lede la dignità umana ed è per definizione terreno di coltura favorevole per criminalità, prostituzione e mafie. Chi non sa come sfamare la propria famiglia è disposto a tutto, finendo spesso per accettare compromessi terribilmente al ribasso.
La povertà è fucina di malattie. Quelle croniche si aggravano, le altre aumentano in modo esponenziale. Un povero deve rinunciare a qualunque forma di prevenzione sanitaria, a partire da un’alimentazione corretta. Non può far ricorso a medici specialisti, cure odontoiatriche, fisioterapia o all’assunzione di farmaci necessari, ma a pagamento. Gli è consentita solo la cura di patologie acute e solo nella fase delle acuzie. Il povero è costretto a rinunciare all’istruzione dei propri figli. In sostanza, se nasci povero lì rimani. Non esiste più alcun ascensore sociale. Neghiamo un futuro decoroso ai giovani e non solo non gli chiediamo scusa, ma ci permettiamo pure di insultarli appellandoli come vagabondi. Magari perché talvolta esitano ad accettare proposte di sfruttamento spacciate per lavoro.
Non è tollerabile essere poveri pur lavorando. Il lavoro deve poter garantire una vita dignitosa e la possibilità di progettare il proprio futuro, compreso quello di costruirsi una famiglia. Ma non è così. Pertanto stride la crociata di potenti e governanti contro il reddito di cittadinanza, unica boccata di ossigeno per chi davvero arranca e unico strumento in grado di favorire la legalità. Crociata portata avanti grazie a sofismi di bassa lega, per mezzo dei quali si narra che la rovina del nostro paese vada ricercata molto anche in quel “sussidio” e non nelle ruberie di ogni genere perpetrate da decenni. Nessuna vergogna nemmeno quando sostengono che il reddito di cittadinanza deve essere riformato, meglio abolito, in quanto fa concorrenza al lavoro.
Ma di quale lavoro parlano? Come osano definire lavoro qualcosa per cui mensilmente guadagni meno di 600-700 euro, magari senza riposo settimanale? Il potere li ha resi ottusi, non si rendono nemmeno conto di quanto queste politiche, oltre che ingiuste, contribuiscano ad aumentare la spesa pubblica e non il contrario. I poveri “se li mantieni in vita” hanno comunque un costo. Evidentemente non è sufficiente demonizzarli o ignorarli per farli sparire. E in questo contesto quando senti potenti e molti politici parlare di visione, speri fino all’ultimo, ma invano, che non stiano dibattendo sulla loro idea di futuro – considerato che sembrano ispirarsi a quella del Principe Giovanni, nel cartone di Robin Hood.
(da il Fatto Quotidiano)
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