FINI E ART. 18: “RENZI PRIGIONIERO DI UNA CULTURA ULTRALIBERISTA SECONDO CUI NON SI PUO’ CREARE OCCUPAZIONE STABILE A CAUSA DELLA RIGIDITA’ DELLE REGOLE”
“IL MERCATO DEL LAVORO NON PUO’ ESSERE UNA PORTA GIREVOLE FONDATA SUL PRECARIATO E SENZA RACCORDO CON LA POLITICA ECONOMICA”…”IL JOB ACTS ILLUDE: GLI INVESTITORI ESTERI NON SONO CERTO FRENATI DALL’ART. 18, MA DALLA INAFFIDABILITA’ DEL SISTEMA ITALIA”
Mesi fa, nel primo quaderno di Liberadestra “Verso il lavoro…con un piano” scrivemmo che il problema italiano non è creare occupazione e basta, ma creare, attraverso il lavoro, condizioni di sostenibilità economica per lavoratori e famiglie — E’ infatti questa la condizione necessaria per stimolare la domanda interna, far ripartite i consumi e dare contenuti al concetto di “crescita”
Esempi di occupazione aumentata numericamente ma poi crollata con la crisi senza produrre alcun valore aggiunto al PIL e alla crescita del paese ne abbiamo sin dal ’97 — primi albori della flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Se la riforma del mercato del lavoro deve essere “strutturale”, come viene annunciato da Renzi e come ci viene richiesto dall’UE, il governo deve quindi avere “memoria lunga” per non ripetere errori già commessi da altri, ma anche “ sguardo lungo” perchè deve ragionare in prospettiva
Perciò non deve mirare solo ad aumentare i posti di lavoro; se l’obiettivo è la rincorsa all’indicatore numerico, allora basta “cinesizzare” il mercato del lavoro italiano, innalzando sempre più il tasso di precarietà e trasformando il posto di lavoro in una porta girevole per più persone, o puntare su occupazioni saltuarie e poco remunerative come nel caso dei working poor tedeschi.
Se al contrario , l’obiettivo è quello di dare una spinta alla crescita reale del paese, ci deve essere qualcosa in più, qualcosa che vada oltre la rincorsa all’aumento formale del numero degli occupati
C’è bisogno che si espliciti un piano, ossia una strategia di crescita che sappia coniugare politiche del lavoro, politiche sociali, politiche di sviluppo all’interno di un recuperato ruolo di indirizzo dello Stato.
Perchè se è vero, come afferma sempre il Premier, che le riforme vanno fatte “ tutte insieme” a maggior ragione è vero che occorre inserire la riforma del mercato del lavoro in una più ampia strategia di crescita economica.
Oggi al contrario il dibattito è tutto sul piano formale, si ferma alla superficie del problema: come ridurre la tipologia dei contratti, come riformare le regole d’ingaggio, come riequilibrare il “peso” dei diritti del lavoratore con gli oneri delle imprese.
Tutti ambiti su cui si possono individuare sia aspetti positivi che elementi controversi ma si tratta di una discussione che prescinde completamente da qualsiasi riflessione circa il” dove “ e il “come” collocare le modifiche legislative.
Dal governo non è venuto nessun approfondimento su piani d’investimento, nuove linee di politica industriale, dimensionamento delle imprese, prospettive di internazionalizzazione, capacità competitiva e di produzione di valore aggiunto delle PMI…
La totale assenza di raccordo tra mercato del lavoro e sviluppo economico è sconcertante.
Renzi sembra non comprendere che non basta intervenire sulle modalità di accesso al lavoro per creare occupazione.
E’ miope concentrarsi solo sulla forma contrattuale che regola il primo impiego e non affrontare il nodo, assai più stretto, di come creare una filiera produttiva vincente, innovativa, e di qualità , capace di produrre più ricchezza e quindi nella necessità di assumere.
In questo deserto di prospettive, il Job Act gratta il fondo del barile coltivando l’illusione di creare più posti di lavoro senza comprendere che le imprese cercano soprattutto, anche (ma non solo) per l’enorme pressione fiscale, di sopravvivere.
Il governo accusa i suoi critici di sinistra di essere “ideologici” ma è anch’esso prigioniero della convinzione ideologica , propria di una certa cultura ultra liberista, secondo cui in Italia è difficile creare occupazione stabile per la rigidità del mercato del lavoro.
Per fare un solo esempio: come non riflettere sul fatto che la propensione degli investitori esteri a guardare all’Italia non è certo legata alla sorte dell’art. 18 bensì alla affidabilità e alla capacità di innovazione di tutto il sistema Italia?
Gianfranco Fini
(da “Liberadestra”)
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