FRANCIA E GERMANIA CONTRO UN RUOLO DA BIG PER L’ITALIA SOVRANISTA
IL “NO” A VON DER LEYEN, IL SODALIZIO CON ORBAN E GLI ATTACCHI AI PARTNER SONO GLI OSTACOLI A UN PORTAFOGLIO DI PESO
Ora che anche l’Italia — all’ultimo giorno utile — ha indicato il suo commissario europeo, inizia la battaglia tra governi per accaparrarsi i posti migliori nella seconda squadra di Ursula von der Leyen.
Giorgia Meloni — con una dose di vittimismo — va alla carica: «Nonostante molti italiani tifino contro un ruolo adeguato alla nostra nazione, non ho motivo di credere che non ci verrà riconosciuto».
La partita però è in salita. «Non c’è ancora nulla di definitivo», spiegano da Palazzo Berlaymont, ma al momento a Raffaele Fitto spetterebbe la Politica di coesione, portafoglio arricchito dalla sorveglianza sui Pnrr dei vari paesi Ue.
«Una posizione da paese di seconda fascia», sentenzia un diplomatico coinvolto nei negoziati. E considerando come si è mossa Meloni, il declassamento non stupisce. Tanto che l’ultima spiaggia è quella del maquillage: Roma dietro le quinte sta negoziando con Bruxelles un nuovo nome per il suo portafoglio, più “sexy” e rivendibile della gelida “Coesione”.
Von der Leyen nei prossimi giorni parlerà con candidati e leader dei vari paesi e punta ad annunciare il nuovo collegio entro due settimane. Appuntamento che fa tremare Palazzo Chigi.
Per capirne la ragione basta elencare i predecessori di Fitto a Bruxelles. Nella Commissione uscente la Coesione è stata gestita da Elisa Ferreira, Portogallo: un paese non certo del peso di Germania, Francia e Italia. Ma nemmeno di Spagna, Polonia e Olanda.
Nella Commissione di Jean Claude Juncker (2014-2019), le Politiche regionali (vecchio nome della Coesione) erano state affidate a Corina Cretu, Romania.
Nel secondo gabinetto Barroso (2010-2014) a Johannes Hahn, Austria, e nel Barroso I ( 2004-2009) a Danuta Hubner, Polonia (ai tempi debuttante nella Ue). Con Prodi le aveva il francese Michelle Barnier, che però era stato anche incaricato di scrivere la Costituzione Ue.
Ecco perché Palazzo Chigi preme per migliorare il portafoglio italiano, ma non sarà facile far dimenticare il sovranismo di Meloni, il sodalizio con Orbán, il suo “no” a von der Leyen, il suo isolamento, gli attacchi ai partner e ai diritti base dell’Unione e le ambiguità del suo governo sull’Ucraina.
A Roma non resta che contare sull’ottimo rapporto tra Fitto e von der Leyen. Il ministro uscente è conosciuto a Bruxelles, dove è stato europarlamentare per due legislature facendosi apprezzare per il suo savoir-faire personale e politico. Tanto che tutte le forze di maggioranza a Strasburgo hanno fatto sapere che seppur espressione di un governo sovranista non gli tenderanno imboscate durante le insidiose audizioni all’Europarlamento.
Ma Fitto faticherà a migliorare il suo portafoglio. Il punto è che il commissario alla Coesione non ha un particolare peso all’interno dell’Eurogoverno e nemmeno la delega al Recovery Fund è un valore aggiunto: è stato scritto per l’Italia, che ne è primo beneficiario, e in questi anni la Commissione non è stata severa sugli esborsi per Roma. Per evitare una pesante sconfitta europea, dunque, il governo ha provato a incassare una terza delega: il Bilancio. Un portafoglio che avrebbe dato peso a Fitto. Tuttavia, raccontano fonti coinvolte nel negoziato, Francia, Germania, i nordici e la stessa Commissione Ue non si fidano a lasciare a un meloniano il controllo dell’Mff, il pesantissimo negoziato sugli oltre 1.000 miliardi di fondi Ue 2028-2034 che fanno gola a tutte le capitali e che danno al commissario che li gestisce grande potere interno alla Commissione da spendere sugli altri dossier di interesse nazionale.
Ma consegnare il Bilancio all’Italia avrebbe significato consegnare a un Paese sovranista — che vuole meno Europa — il braccio armato con cui Bruxelles espande le sue politiche, ovvero offre più Europa.
La via d’uscita indicata dietro le quinte da Meloni è allora aggiungere alle deleghe di Fitto il titolo di vicepresidente esecutivo della Commissione. Oggi i vice esecutivi — che dirigono altri commissari — sono tre e incarnano i partiti della “maggioranza Ursula”: Dombrovskis (Ppe), Timmermans (Pse, già rientrato in Olanda) e Breton (Liberali di Macron). Quest’ultimo sarà confermato, il posto del Pse andrà a Teresa Ribera, vicepremier di Pedro Sanchez che guiderà l’enorme comparto Green (compresa industria e investimenti) e per i popolari a Piotr Serafin, vicinissimo al premier polacco Tusk. Meloni — mischiando in modo inappropriato i panni di premier e quelli di capo partito — ha chiesto di aggiungere un quarto vice esecutivo per dare un riconoscimento politico ai suoi Conservatori.
Socialisti e liberali si sono opposti in quanto Meloni e i suoi sovranisti non sono in maggioranza e vengono considerati non potabili. Per aggirare l’ostacolo l’Italia ha depoliticizzato la questione e reclama un ruolo pari agli atri big d’Europa. Ma sembra una mossa negoziale tardiva.
Dunque i margini di manovra affinché l’Italia non debba affidarsi al mero rebranding del suo portafoglio si riducono. Si potrebbe ripiegare su una vicepresidenza semplice, giusto per consentire a Meloni di sbandierare che l’attuale commissario italiano, l’uscente Paolo Gentiloni, non ce l’aveva. Peccato che all’ex premier nel 2019 vennero affidati gli Affari economici, il più importante posto della Commissione insieme alla Concorrenza. Ai tempi un segno di enorme fiducia verso di lui e il Pd. Fiducia che in Europa Meloni ancora deve conquistarsi.
(da La Repubblica)
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