IL BALZO DEL LUPI (MAURIZIO) CHE CADE SEMPRE IN PIEDI
NON HA MAI ECCELSO IN NULLA, PERO’ E’ SEMPRE LI’
Per certi versi – anche se non sembra – dovremmo tutti prendere esempio da Maurizio Lupi. Non ha mai esibito doti politiche accecanti (per usare un eufemismo). Non ha mai avuto grandinate di voti (e ora non ne ha proprio mezzo). Non ha mai bucato lo schermo, non ha mai indovinato una scissione politica (anzi) o peggio ancora la fondazione di un nuovo partito. Eppure se ne sta sempre lì,
“Ei fu. Siccome immobile”, statico e al contempo baldanzoso (per quanto possa) in Parlamento dal 2001. Sempre o quasi dalla parte del potere e della maggioranza, fedele in apparenza al padrone della locomotiva ma in realtà unicamente a se stesso e alle sue orgogliosamente ostentate radici cristiane (e ancor più cielline). Un esempio di resilienza emblematico, e anzi quasi paradigmatico.
Un po’ Mastella e un po’ Tabacci (con rispetto parlando), il sempre in apparenza garbato Lupi ha due grandi doti. La prima è quella di essere un ottimo maratoneta (ha fatto anche quella di New York). La seconda è quella di cadere sempre in piedi. Ma proprio sempre, perfino alle elezioni del settembre scorso, quando la sua mitologica compagine Noi con l’Italia (teorica quarta gamba del destra-centro ora al governo) non è stata votata neanche dal gatto, uscendo ridicolizzata e distrutta dall’esito delle urne. Lupi non ha fatto un plissé, perché c’è abituato: dal 2013 in poi, quando preferì Alfano a Berlusconi, ha sistematicamente affondato tutto quel che ha toccato. Un insistito e infinito bacio della morte – nel nome del moderatismo effimero – di cui Lupi si compiace. Sembra proprio affezionato al ruolo di “perdente marginale tra vincitori”. Gli alleati vincono, lui stra-perde: ma non importa, perché tanto un posto in Parlamento per il buon Maurizio si trova sempre, vuoi con un collegio blindato e vuoi con il cosiddetto diritto di tribuna (garanzia di essere eletti, a meno che non ci si chiami Di Maio o Spadafora).
Sessantatré anni, milanese, Lupi è anche giornalista pubblicista. Si è laureato nel 1984 in Scienze Politiche, con una tesi su “L’introduzione del sistema editoriale integrato nel giornalismo quotidiano”. Roba forte. Ha cominciato con la Democrazia cristiana, e democristiano – figlio di un Dio politico minore – è rimasto. Ha fatto da padrino al battesimo del noto moderato Magdi Allam. È stato per anni berlusconiano ortodosso (anche in tivù, dove esibiva con orgoglio la sua faccia da agguerrito playmobil teo-con). E ha fatto pure il ministro, prima di dimettersi per beghe giudiziarie da cui è uscito immacolato e indenne, con Letta e peggio ancora Renzi. Ma ha anche dei difetti.
Ventuno anni dopo la sua prima elezione in Parlamento, ormai senza voti ma pur sempre con molti santi (non solo in Paradiso), il sulfureo Lupi pastura ancora in tivù. Ogni volta finge autocritica, poi però difende Meloni anche quando è il primo a non crederci per niente. Non avendo ministri o ruoli primari (ma pure secondari), Maurizio ha oggi molto tempo libero. Che impiega ora arrampicandosi sugli specchi e ora picconando con leggiadria le classi meno abbienti. Ultimamente, a conferma dei suoi granitici valori cristiani, ha detto di voler togliere altri due mesi di Reddito di cittadinanza ai poveri: otto mesi nel 2023 son troppi, meglio fermarsi a sei. Proprio un uomo di gran cuore, proprio un perfetto ciellino.
La vita è fatta di poche certezze: moriremo tutti, nessuno sarà mai peggio di Renzi e Lupi vincerà anche quando perderà. Amen.
(da Il Fatto Quotidiano)
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