IL GOVERNO MELONI È PRONTO AD AZZERARE LE UNITÀ DI MISSIONE CREATE DA DRAGHI NEI MINISTERI PER L’ATTUAZIONE DEL PNRR
COME REAGIRÀ L’EUROPA, CHE HA POCA FIDUCIA NELLE CAPACITÀ DELLA MELONI DI PORTARE A TERMINE GLI OBIETTIVI RICHIESTI PER IL RECOVERY?
Una rivoluzione dentro i ministeri. Un reset delle strutture che finora non avrebbero funzionato, avrebbero arrancato o peggio frenato la realizzazione del Pnrr. Il governo Meloni è pronto a sfoderare l’arma più estrema, come estremo è il ritardo che affligge il Piano. La attiverà presto, con una norma inserita nel decreto che sarà varato tra metà dicembre e metà gennaio.
Darà ai ministri in carica – e alla struttura centrale che fa capo a Palazzo Chigi – la possibilità di azzerare le unità di missione del Piano nazionale di ripresa e resilienza attive in ogni dicastero. Non necessariamente tutte. Anzi, sicuramente non tutte. Perché c’è la consapevolezza che ripartire da zero rischierebbe di rallentare, anziché accelerare.
E infatti la norma sarà così motivata: nessuna volontà o intento di attivare uno spoil system di strutture nominate dal governo Draghi che sarebbero altrimenti inamovibili fino al 2026, ma la necessità di sbloccare un ingorgo che rischia di travolgere la destra al potere. Dunque, dotarsi della possibilità di sostituire chi non va servirebbe anche da strumento di pressione, per spingere tutti a darsi da fare.
Ma perché partire proprio dalle unità di missione? Perché è in questi organismi che adesso, dopo alcune settimane di ricognizione, i ministri hanno individuato la prima strettoia in cui perde vigore l’implementazione del Pnrr. Di fatto, si imputa ad alcune di queste strutture di coordinamento un grande attivismo in convegni, momenti di studio e approfondimento, ma una scarsa capacità operativa.
I ministri si sarebbero trovati spesso spiazzati, spersi in un dedalo di informazioni, oppure impantanati a causa di estenuanti ping pong burocratici. L’esempio che si rincorre ai vertici dell’esecutivo di Giorgia Meloni è quello dell’unità di missione del ministero delle Infrastrutture, oggi guidato da Matteo Salvini, che avrebbe creato problemi già al suo predecessore Enrico Giovannini.
E però, la mossa riguarda anche il rapporto con chi governava prima a Palazzo Chigi. Con un gesto così duro, infatti, l’esecutivo pensa di poter raggiungere un duplice risultato: uno operativo, l’altro politico.
Il primo: migliorare le performance nel raggiungimento dei milestone e nella capacità di spesa dei dicasteri. Il secondo: rendere chiaro pure all’Europa che le mancanze risalgono davvero, come ritiene la destra, a scelte, decisioni, errori di chi guidava prima la macchina.
Dunque del governo di Mario Draghi. Di certo, Meloni e i suoi ministri sono decisi a denunciare quello che finora, a loro avviso, non ha funzionato.
E a soffermarsi in particolare sul pesante rallentamento nella spesa delle risorse già approvate: in partenza si prevedevano oltre 33 miliardi, il calcolo è che alla fine ci si fermi tra i 13 e i 15 miliardi, di cui una grossa fetta impiegata per interventi approvati prima dell’avvento di Draghi e poi spostati nel Pnrr. Un atto d’accusa implicito a chi ha governato fino a settembre. Una miccia.
(da “la Repubblica”)
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