INCHIESTA MOSE, I MAGISTRATI SCAPPAVANO DAI LADRI PER RIUSCIRE AD INDAGARE
GLI INQUIRENTI COSTRETTI A MUOVERSI CON CAUTELA
I ladri se la spassano tra ville, aerei privati, incarichi e consulenze per figli e mogli e inseguono le guardie spiate da rappresentanti di quello Stato che servono.
E’ questa la fotografia del Paese capovolto che emerge dal più grande sistema corruttivo mai smantellato prima d’ora: un miliardo di euro di soldi pubblici, finanziamento del Mose.
Le guardie: i pm Paola Tonini, Stefano Buccini, Stefano Ancillotto, ogni sera si portano i fascicoli e le chiavette Usb a casa.
Li nascondono sparpagliandoli in posti diversi. Un metodo sicuro anche per renderli inutilizzabili, come hanno spiegato al collega del Mattino di Padova, Renzo Mazzaro: “Una pistola la smonti e imboschi i pezzi così la rendi inservibile anche se la trovano”.
L’irruzione notturna nell’ufficio di William Ambrogio Colombelli, il console della Bmc (società di brokeraggio) di San Marino con la tessera di Fi, presentato a Giancarlo Galan dall’avvocato di Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini, arrestato perchè emetteva fatture false per far rientrare in Italia il “nero”, trattenendo per sè il 20 per cento, è la dimostrazione di come il sistema di spionaggio fosse efficiente.
Cosa cercavano? Colombelli aveva subodorato di non essere nelle grazie di Baita della Mantovani e per timore di essere fatto fuori dal sistema registra tutte le conversazioni con Baita.
Chi ha forzato la serratura della sua porta, senza lasciare traccia, cercava la “prova regina” che però era stata ben nascosta.
Quando il 28 febbraio 2013 i finanzieri arrestano Baita perquisiscono anche la sede della Mantovani e tra le carte trovano copia dell’ordinanza che aveva ricevuto tre giorni prima di finire in carcere.
Baita, difeso da Longo e Ghedini, che come avrebbe confidato gli consigliavano il silenzio, resta 106 giorni in prigione muto come un pesce. Poi revoca il mandato ai due avvocati, affida la sua difesa ad un legale estraneo a quell’ambiente politico e vuota il sacco che, stando a voci molto più di un sentito dire, contiene prove che porterebbero a nomi eccellenti a livello nazionale.
Tra le carte spunterebbe anche una mazzetta di 500 mila euro destinata a Tremonti che, però, non risulta indagato. Mentre lo è il suo braccio destro, Marco Milanese, oggetto della richiesta di custodia cautelare inoltrata al Gip il 3 dicembre 2013. Milanese — che sa bene in quale guaio si trova — si presenta dai pm, e inizia a collaborare e il 13 maggio scorso la richiesta viene revocata, motivazione: “Era stato un errore”.
Pm così guardinghi che nelle rare volte in cui ricevono giornalisti nelle loro stanze in Procura, per paura di essere ascoltati dal Grande orecchio parlano sottovoce. Accorgimenti necessari per riuscire a comporre il puzzle con certosina pazienza, nel più totale riserbo anche grazie ai preziosi investigatori del Gico, guidato, dall’inizio dell’inchiesta, 2002 fino a settembre scorso, dal comandante Renzo Nisi, che proprio mentre l’inchiesta scoperchia i santuari, viene trasferito.
Motivazione ufficiale: avvicendamento, ufficiosa: su gentile richiesta di politici potenti poi finiti nella rete.
Avvicendamento che ha procurato un arresto dell’inchiesta in quanto chi lo ha sostituito era digiuno dello stato dell’arte, e che puzza molto di bruciato.
Fu proprio lui, infatti, ad inchiodare il Generale Emilio Spaziante, la spia a libro paga del CVN, 2,5milioni di euro promessi, versati 500 mila.
Spaziante, per tenere informato Mazzacurati si serve di Walter Manzon, comandante provinciale di Venezia. Manzon gira la richiesta dell’elenco delle persone oggetto di intercettazioni telefoniche ed ambientali a Nisi.
Il comandante Nisi, grazie al suo fiuto di investigativo, informa i pm e gli consegna solo quello delle persone oggetto di intercettazioni telefoniche, ma non ambientali e così scopre il gioco di Spaziale.
A Manzon e al generale di corpo d’Armata, Mario Forchetti, ex Aise (servizi segreti internazionali) presidente del Comitato per la trasparenza sugli appalti in Lombardia, quattro giorni fa è stata perquisita la casa
In questo clima, guardandosi le spalle lavorano gli uomini delle Fiamme Gialle.
Come quella volta che uno di loro doveva ricevere da un collega una chiavetta Usb. “Un quarto d’ora prima mi chiama per cambiare il luogo dell’incontro. Lo aspetto al binario, mi abbraccia e all’orecchio mi dice: mi stanno seguendo, andiamo al bar. Beviamo un caffè e prima di andare via mi accorgo di avere la chiavetta nella tasca della giacca: ce l’aveva infilata mentre mi abbracciava”.
E’ la storia del Paese capovolta dove, in uno strano paradosso fatto di intrecci e buste di quattrini, i ladri inseguono le guardie.
Una storia che continua: è solo all’inizio.
Sandra Amurri
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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