LA MERKEL BRITANNICA: PER IL DOPO CAMERON SI FA STRADA THERESA MAY
CANDIDATURA IDEALE PER NON SPAVENTARE I MERCATI E FAR PACE CON LA UE
Il partito conservatore in frantumi, la leadership laburista indebolita dal suo interno, l’Europa schierata sulla linea dura, e una pesante ombra sull’economia britannica. Eccola, a distanza di appena sette giorni, la panoramica del Regno Unito post Brexit. Un quadro fosco da cui il partito di David Cameron prova a uscire giocando una carta a sorpresa: quella di Theresa May, ministro dell’interno, già soprannominata da alcuni media la “Angela Merkel inglese”.
A muovere l’ultimo tassello del domino dei colpi di scena è stato questa mattina l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, annunciando di rinunciare a correre come successore di David Cameron.
Se già le dimissioni del premier britannico all’indomani del voto britannico avevano sorpreso gli osservatori, il passo indietro di Johnson ha cambiato nuovamente le carte in tavola all’interno dello scacchiere dei Tories.
Una scelta sorprendente ma quasi obbligata, quella di Johnson, dopo essere stato scaricato — se non proprio pugnalato alle spalle – da uno dei suoi ex alleati principali nella battaglia per il “Leave”,il ministro della Giustizia Micheal Gove: “Con riluttanza, sono arrivato alla conclusione che Boris non abbia la capacità di fornire una leadership o costruire la squadra per il compito che abbiamo di fronte. Ho deciso quindi di avanzare la mia candidatura per la leadership”, ha detto Gove lanciando la sua candidatura.
Fuori Cameron, fuori George Osborne — troppo coinvolto nella campagna per il Remain, fuori Boris Johnson, è con la May che ora il popolo conservatore spera di ricomporre il partito dopo la lotta fratrcida del referendum.
E il ministro sembra il candidato perfetto.
Strenua antieuropeista da una parte — e quindi credibile interprete del voto pro-Leave – ma così vicina a David Cameron da sposare in campagna la causa del Remain, pur di rimanere fedele all’ex premier.
Non a caso la stampa conservatrice ha già speso più di una buona parola nei suoi confronti. E se il Sunday Times l’ha incoronata come “l’unica figura in grado di unire la fazioni in lotta nel partito” il Daily Telegraph ha però scritto che “neppure gli alleati più fedeli di May dicono che è in grado di accendere i fuochi della passione”.
Lanciando ufficialmente la sua candidatura stamani May ha detto: “Il nostro paese ha bisogno di una leadership collaudata per guidarlo in un periodo di incertezza politica ed economica”.
E ancora “Abbiamo bisogno di una leadership che possa unire il nostro partito e il nostro paese”. Avvertendo poi che sulla Brexit non c’è spazio per una marcia indietro: “Brexit vuol dire Brexit. La campagna è stata combattuta, il voto si è tenuto, l’affluenza è stata elevata e l’opinione pubblica ha fornito il suo verdetto” ha detto.
In sinstesi. Serve un partito unito, una leadership credibile tanto per il popolo che ha scelto di lasciare la Ue, quanto per la stessa Ue con cui bisognerà negoziare l’uscita, e la May sembra la candidata ideale.
Figlia di un pastore anglicano e sposata con un banchiere, Theresa May ha cominciato la propria carriera politica nel 1986.
Dopo aver tentato per due volte — senza successo — di entrare in Parlamento è stata finalmente eletta a Westminster nel 197.
Dal 2002 al 2003 è stata è stata la prima donna segretario generale del partito. Nominata ministro degli interni nel 2010, quando David Cameron è diventato per la prima volta premier, ha mantenuto il suo incarico nel 2015.
E se il fronte dei Tories è alle prese con la lotta per la nuova leadership, quello laburista vede sempre più in bilico il posto di Jeremy Corbyn.
Dopo le dimissioni in massa dei 20 membri del governo ombra dopo la sconfitta referendarie e la mozione di sfiducia approvata ieri e il rifiuto del segretario di fare un passo indietro oggi il numero uno dei labour è finito nell’occhio del ciclone per una frase pronunciata durante la presentazione del rapporto sull’antisemitismo all’interno del partito: “I nostri amici ebrei non sono responsabili delle azioni di Israele o del governo Netanyahu più di quanto non lo siano i nostri amici musulmani riguardo ai vari stati islamici o organizzazioni islamiche”.
Una frase che da molti è stata giudicata un improprio paragone tra Israele e lo Stato Islamico.
(da “Huffingtonpost”)
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