LA PROCURA DI BERGAMO LAVORA ALL’IPOTESI CHE REGIONE E GOVERNO ABBIANO CEDUTO ALLE PRESSIONI DEGLI INDUSTRIALI PER EVITARE LA ZONA ROSSA
IN QUESTO CASO L’AVVISO DI GARANZIA COLPIREBBE TUTTI I SOGGETTI DELLA VICENDA
Un colpo di scena davvero inaspettato, si potrebbe dire con una buona dose di ironia. La procura di Bergamo lavora infatti a un’ipotesi di indagine sulla mancata zona rossa nella Val Seriana che mette al centro della scena gli industriali della zona, che avrebbero esercitato pressioni su governo e Regione Lombardia per evitare le chiusure.
Paolo Berizzi su Repubblica spiega oggi che nei giorni tribolati, e ancora avvolti in una parziale nebulosa, durante i quali Regione Lombardia e governo si passavano il cerino della decisione sulla zona rossa da istituire a Alzano e Nembro — i due paesi focolaio della bergamasca -, gli imprenditori del territorio hanno esercitato forti pressioni affinchè quella chiusura non si facesse.
Pressioni bipartisan. Geograficamente trasversali: sia sul governo regionale, sia su quello centrale.
È l’ipotesi di lavoro — non l’unica, ma la più interessante -, sulla quale sono concentrati i magistrati della procura di Bergamo. Da oggi sono in trasferta a Roma per sentire (come persone informate sui fatti) il premier Giuseppe Conte, i ministri Luciana Lamorgese (Interno) e Roberto Speranza (Salute). La vicenda giudiziaria — il reato ipotizzato è epidemia colposa — ruota intorno a quello che è il cuore dell’inchiesta: la mancata zona rossa nel focolaio bergamasco.
Che già il 2 marzo, come documentato da Repubblica nell’inchiesta L’Ora zero, era in condizioni di gran lunga peggiori di quanto non fossero, dieci giorni prima, Codogno e gli altri Comuni del lodigiano (cinturati dallo Stato il 23 febbraio per contenere la diffusione di Covid 19).
Chi è perchè, e, a questo punto, su input di chi, ha ballato per 5-6 giorni — a inizio marzo — per infine decidere di non isolare Alzano e Nembro, come invece avevano espressamente suggerito gli scienziati, e estendere il lockdown all’intera Lombardia e poi a tutta Italia (dall’8 marzo)?
Sono le domande focali da cui muove il pool guidato dalla pm Maria Cristina Rota. Queste domande, da quanto trapela, potrebbero avere già trovato tracce di risposta.
Naturalmente basta dare un’occhiata a quello che è successo in quei giorni, compreso il video #bergamoisrunning, per comprendere che la “scoperta” non è per niente rivoluzionaria.
Ma a parte l’ironia, la procura deve decidere se è possibile ravvisare reati in questo tipo di comportamenti. Il che, ad occhio, pare difficile perchè alla fine a decidere sono stati altri (governo e regione) e quindi a loro andrà eventualmente imputato qualcosa.
Agli imprenditori lombardi e bergamaschi l’idea che il governo, o la Regione, potessero chiudere — in entrata e in uscita — la Valle Seriana un tempo soprannominata “valle dell’oro”, andò indigesta da subito.
E da subito — ipotizzano i magistrati — titolari e dirigenti delle fabbriche, rappresentanti delle associazioni di categoria, intermediari dell’economia e della politica si sarebbero attivati per scongiurare lo stop.
Un’azione di lobbying, certo. Ma che, se riferita al tessuto produttivo di una provincia che a marzo arriva a contare quasi 6mila morti ufficiali per coronavirus (+568% di decessi rispetto agli anni precedenti), assume caratteristiche ben diverse. Dice Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia: «Noi abbiamo sempre sostenuto che andavano protette e tenute aperte le filiere essenziali: aziende che producono cibo e farmaci e che garantiscono i trasporti. Se ci sono state pressioni da parte nostra possono essere state solo a questo scopo».
Da questo punto di vista, spiega ancora Repubblica, nell’inner circle dei vertici M5S si mormora che se gli imprenditori lombardi hanno cercato di condizionare la politica per lasciare aperta la Valle Seriana, non è a Roma che si sono rivolti ma piuttosto a Milano. Leggi: Regione Lombardia. Il Corriere della Sera invece in un articolo a firma di Fiorenza Sarzanini e Simona Ravizza spiega che la Regione Lombardia non ha mai presentato una richiesta formale per far dichiarare«zona rossa» i Comuni di Alzano e Nembro.
La conferma arriva al termine del secondo giorno di missione a Roma dei pm di Bergamo. E ora i magistrati vogliono ricostruire i contatti di quei giorni, verificare che tipo di rapporti e trattative ci furono con il governo. Agli atti dell’inchiesta è stato infatti acquisito il verbale della riunione svolta il 3 marzo dal comitato tecnico scientifico in cui si dà conto di una telefonata tra gli scienziati e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera. E sarà proprio questo uno degli argomenti al centro degli interrogatori del premier Giuseppe Conte e dei ministri dell’Interno Luciana Lamorgese e della Salute Roberto Speranza fissati per oggi. Tutti convocati come testimoni.
In quel momento la linea degli scienziati è dunque tracciata, ma il suggerimento non viene preso in considerazione nè in Lombardia, nè a Roma visto che due giorni dopo il direttore del Comitato Silvio Brusaferro invia una relazione a Palazzo Chigi per ribadire la necessità di «chiudere». Perchè la Regione non ritenne opportuno appoggiarlo? Di fronte ai magistrati il governatore Attilio Fontana ha dichiarato che la scelta spettava all’esecutivo.
Oggi Conte sosterrà di fronte ai pubblici ministeri che «in caso di urgenza e necessità la Regione poteva procedere autonomamente, come effettivamente è avvenuto in seguito e come hanno fatto altre Regioni». E spiegherà che lui decise di aspettare perchè «intanto era maturata una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedeva di dichiarare “zona rossa” l’intera Lombardia e tredici Province di altre Regioni».
La tesi prevalente nell’indagine per epidemia colposa avviata dalla Procura di Bergamo e dal pm Maria Cristina Rota della Procura di Bergamo si basa su un’azione di pressing, più che di lobbyng, da parte delle numerose e produttive aziende della Val Seriana. Una pressante “interlocuzione”, dettata dal rischio di vedere sfumare affari, interrompersi catene produttive decisive in un distretto che, da solo — con le sue 376 aziende, alcune con 800 dipendenti, poche con meno di 100 -, genera 680 milioni l’anno di fatturato. Agli imprenditori lombardi e bergamaschi l’idea che il governo, o la Regione, potessero chiudere andò indigesta da subito. E da subito — ipotizzano i magistrati — titolari e dirigenti delle fabbriche, rappresentanti delle associazioni di categoria, intermediari dell’economia e della politica si sarebbero attivati per scongiurare lo stop.
(da agenzie)
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