LEGGE FORNERO, COSA CAMBIA SE SI CANCELLA? IN PENSIONE PRIMA MA SI APRE UN BUCO DI 350 MILIARDI
LA RIFORMA PENALIZZO’ SOPRATTUTTO LE LAVORATRICI DEL SETTORE PRIVATO, MA TORNARE INDIETRO SAREBBE UN SUICIDIO ECONOMICO
Abolizione degli «effetti deleteri della Legge Fornero» sulle pensioni, annuncia il centrodestra nel comunicato al termine dell’incontro tra Silvio Berlusconi (Forza Italia), Matteo Salvini (Lega) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) «per fare il punto sul programma da presentare agli elettori».
Ma che cosa significa in concreto cancellare la legge 214 del 22 dicembre 2011, passata appunto alla storia come riforma Fornero?
Ci sarebbero conseguenze sulle persone, perchè cambierebbero le regole di pensione, e finanziarie, cioè sul bilancio dello Stato, perchè verrebbero meno importanti risparmi previsti dalla legge.
La riforma Fornero, dal nome del ministro del Lavoro del governo Monti, l’economista Elsa Fornero, fu decisa alla fine del 2011 per inasprire le riforme già prese dal governo Berlusconi, con due riforme Maroni-Sacconi, rispettivamente ministro (della Lega) e sottosegretario al Lavoro del governo guidato dal leader del centrodestra.
Due riforme che aveva già stretto notevolmente i rubinetti del pensionamento. Vediamo i principali punti della legge 214.
Pro-rata per tutti
La Fornero estende il calcolo contributivo pro-rata sui versamenti all’Inps dal primo gennaio 2012 per tutti i lavoratori che fino a quel momento erano stati esclusi e avevano mantenuto il più vantaggioso calcolo retributivo.
Le persone colpite da questa norma sono quelle che al primo gennaio 1996, data di entrata in vigore della riforma Dini, avevano versato più di 18 anni di contributi (gli altri, hanno già il sistema contributivo pieno, se hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, oppure misto, se avevano contributi precedenti).
I lavoratori, interessati da questa norma, quindi, sono quelli che al primo gennaio 2012 aveva almeno 33 anni di versamenti.
La loro pensione, alla luce della Fornero, viene calcolata col sistema retributivo (la regola base, semplificando, è: 2% dello stipendio per ogni anno di contributi) per i versamenti fino al 31 dicembre 2011 e col contributivo (somma dei versamenti, rivalutata per il Pil e moltiplicata per coefficienti che tengono conto dell’età del pensionamento) per i versamenti successivi.
Considerando che nel 2018 questi lavoratori hanno almeno 39 anni di contributi e che molti di loro sono già andati in pensione, un eventuale cancellazione del calcolo contributivo pro-rata riguarderebbe una platea residuale di lavoratori che potrebbe maturare pochi euro in più di pensione, a meno di non pensare a un effetto retroattivo al 1 gennaio 2012 dell’abolizione della norma, che appare però irrealistico.
Abolizione delle quote
La riforma del 2011 aumentò di un anno il requisito contributivo per lasciare il lavoro con la pensione di anzianità , che venne ridenominata pensione «anticipata» e cancellò il precedente sistema delle quote.
In pratica, prima della Fornero per andare in pensione di anzianità bisognava raggiungere una quota risultato della somma tra età anagrafica e almeno 35 anni di contributi.
Per i lavoratori dipendenti la quota era 96 con minimo 60 anni di età (quindi 60 più 36 di contributi o 61 più 35).
La quota era soggetta all’adeguamento alla speranza di vita che, contrariamente a quanto molti credono, non è stato introdotto dalla Fornero ma dalla legge Maroni-Sacconi del 2010 (a partire dal 2014 con cadenza triennale) e anticipato (al 2013) dalla riforma Maroni-Sacconi.
Dal 2013 , inoltre, queste riforme prevedevano uno scatto di un anno della quota, che quindi saliva a 97, cui aggiungere tre mesi per l’adeguamento alla speranza di vita. Secondo le tabelle pre-Fornero, nel 2018 la quota sarebbe salita a 97,6.
Per i lavoratori autonomi la quota era più alta di un anno, ma tutti i lavoratori potevano comunque andare in pensione anzianità , indipendentemente dall’età anagrafica, con 40 anni di contributi, che diventavano 41 sommando la “finestra” di pensionamento allora vigente che poteva allungare di 12 mesi la decorrenza dell’assegno.
Sarebbe soprattutto il ritorno ai 40 o 41 anni (considerando la “finestra”) a fare la differenza rispetto alla Fornero.
Oggi infatti, in seguito anche agli adeguamenti alla speranza di vita intervenuti (adeguamenti che la Fornero ha solo disposto che dal 2019 siano biennali anzichè triennali), per andare in pensione anticipata servono 42 anni e 10 mesi di contributi (per le donne uno in meno), che dal 2019 saliranno a 43 anni e tre mesi.
Quanto agli adeguamenti alla speranza di vita, essi non verrebbero cancellati con la semplice abolizione della Fornero, ma invece di essercene uno ogni due anni (il prossimo nel 2021) ce ne sarebbe appunto uno ogni tre (il prossimo nel 2022).
Colpite le donne
Quanto alla pensione di vecchiaia, quella che richiede un minimo di età e almeno 20 anni di contributi, la riforma Fornero inasprì i requisiti d’età portandoli , dal primo gennaio 2012 a 66 anni per gli uomini (dipendenti ed autonomi) e per le lavoratrici del pubblico impiego (un anno in più rispetto a prima, dove però c’era la “finestra” di 12 mesi che poteva allungare appunto di un anno l’età effettiva di pensionamento, portandola comunque a 66) mentre per le lavoratori del settore privato ha disposto un percorso accelerato di equiparazione dell’età pensionabile a quella degli uomini , che si e concluso proprio il primo gennaio 2018, data dalla quale i requisiti sono uguali per tutti.
Le donne del privato, dunque, furono le più colpite. Quelle del pubblico lo erano già state con la prima riforma Maroni-Sacconi, in seguito alla richiesta dell’Ue di equiparare l’età di vecchiaia femminile con quella maschile.
Tenendo conto degli adeguamenti alla speranza di vita intervenuti nel frattempo, la soglia attuale di accesso alla pensione di anzianità è per tutti i lavoratori di 66 anni e sette mesi d’età . Salirà a 67 anni dal 2019.
Prima della riforma Fornero le tabelle prevedevano per il 2018 un’età minima per la pensione di vecchiaia (tenendo conto della «finestra») di 66 anni e 7 mesi per gli uomini e per le donne del pubblico impiego (quindi come ora) e di 62 anni e 10 mesi per le lavoratrici del privato (qui lo scarto è invece di ben 3 anni e 9 mesi in più).
Blocco della perequazione
La riforma Fornero prevedeva anche il blocco totale della perequazione, cioè dell’adeguamento degli assegni al costo della vita, per tutte le pensioni superiori a tre volte il minimo per gli anni 2012-2017. Ma con la sentenza 70 del 2015 la Corte Costituzionale ha già cancellato questa norma, dichiarandola incostituzionale. Il governo, dopo aver valutato i mancati risparmi conseguenti alla sentenza in 5 miliardi, ha provveduto con un parziale rimborso, superando un nuovo giudizio di costituzionalità .
Quanto vale la Fornero
Secondo l’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato (ministero dell’Economia), si tratta a valori correnti di una cifra imponente.
I risparmi dal 2012 al 2060 ammonterebbero infatti a circa 350 miliardi di euro (21 punti di pil).
Ecco infatti cosa si legge nel rapporto numero 18 sulle «Tendenze di medio e lungo periodo del sistema pensionistico» dello scorso agosto: «Considerando l’insieme degli interventi di riforma approvati a partire dal 2004 (L 243/2004), si evidenzia che, complessivamente, essi hanno generato una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil pari a circa 60 punti percentuali di Pil, cumulati al 2060 (circa mille miliardi di euro a valori attuali, ndr.) . Di questi, circa due terzi sono dovuti agli interventi adottati prima del DL 201/2011 (convertito con L 214/2011) e circa un terzo agli interventi successivi, con particolare riguardo al pacchetto di misure previste con la riforma del 2011 (art. 24 della L 214/2011) (cioè la riforma Fornero, ndr.)
Quest’ultimo intervento, in particolare, fornisce un contributo rilevante alla sostenibilitaÌ€ del sistema pensionistico, realizzando una riduzione della spesa in rapporto al Pil che si protrae per circa 30 anni, a partire dal 2012.
L’effetto di contenimento, che include anche le misure di deindicizzazione delle pensioni nel breve periodo, eÌ€ inizialmente crescente passando da 0,1 punti percentuali del 2012 a circa 1,4 punti percentuali del 2020. Successivamente, esso decresce a 0,8 punti percentuali intorno al 2030 per poi annullarsi sostanzialmente attorno al 2045. Nell’ultimo quindicennio del periodo di previsione, la riduzione del numero di pensioni, conseguente all’elevamento dei requisiti di accesso al pensionamento, risulta sostanzialmente compensato, in termini di spesa pensionistica, dai piuÌ€ elevati importi medi. L’effetto di contenimento del rapporto spesa/Pil, cumulato al 2060, assomma a circa 21 punti percentuali».
(da “il Corriere della Sera”)
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