L’INFANZIA IN MONTAGNA, GLI ALLENAMENTI LONTANO DALLA FAMIGLIA, LE STRATEGIE
COSI’ JANNIK E’ DIVENTATO IL CAMPIONE SINNER, UN RAGAZZO CHE DA SUBITO HA DIMISTRATO DI ESSERE GRANDE
La montagna, la sua legge silenziosa. I sacrifici che regala, la bellezza che impone. Jannik Sinner è nato e cresciuto fino ai 13 anni in Val Pusteria e per andare a scuola da ragazzino impiegava due ore: sveglia alle cinque, due autobus, un treno. «Ma non gli pesava, ed era bravissimo nello studio», raccontano i suoi compagni di allora, fra i quali il suo compagno di banco Raphael Mahlknecht, oggi azzurro di telemark.
La prima lezione Jannik l’ha ricevuta dall’ambiente in cui è cresciuto, da quel paesaggio che ti spinge a guardare in alto, ma sempre badando a dove metti i piedi, evitando le scorciatoie troppo facili. E poi l’educazione in famiglia, mamma Siglinde e papà Hanspeter, responsabile di sala e chef al Rifugio Fondovalle, in Val Fiscalina, affettuosi ma rigorosi.
Che fosse un talento non era difficile capirlo, ottimo nello sci, bravo con il pallone, instancabile con la racchetta che all’inizio era così pesante, per i suoi pochi muscoli di cucciolo, che quasi se la trascinava dietro. Andreas Schonegger d’inverno gli faceva da maestro di sci, d’estate di tennis, ma sono stati prima Heby Mayr e poi Andrea Spizzica, ex tennista romano trasferito per amore a Brunico, che hanno impedito che il tennis rimasse uno svago. Massimo Sartori, lo storico coach di Andreas Seppi, ha capito invece che per fare fiorire la gemma Sinner bisognava trapiantarla a Bordighera, al Piatti Tennis Center.
Ed è lì, che dai 13 anni in poi, Jannik ha compiuto il suo tirocinio, sbozzando la tecnica, imparando da Mastro Piatti – che come allievi ha avuto Djokovic e Raonic, Furlan e Ljubicic, Camporese e Gasquet – i segreti di bottega, la strada che porta al professionismo.
Non un tirocinio facile. «Le prime settimane sono state orrende – ricorda – Ero abituato ad allenarmi al massimo due volte la settimana, e improvvisamente dovevo farlo tutti i giorni, a volte due volte al giorno. Non ero mai entrato in una palestra e invece al centro era un impegno quotidiano. Mi mancavano la mia famiglia, i miei amici. Ma quando i miei genitori mi venivano a trovare dicevo loro che tutto andava bene, perché non volevo che si intristissero». Altro che bamboccione.
Dalibor Sirola e l’ex triplista piemontese Claudio Zimaglia, preparatore fisico e fisioterapista, hanno iniziato ad educare il suo fisico, trasportandolo dall’infanzia ai primi successi, alla vittoria nelle Next Gen, ad una scalata del ranking rapida quanto lo erano da ragazzino le sue discese sulla neve. Due anni fa lo strappo, l’uccisione del padre tennistico, come spiegherebbe Freud, l’addio a Piatti, alla tana ligure dove anche allenandosi con Djokovic e Maria Sharapova Jan aveva capito che dieta mentale serve per diventare un numero uno.
Per la seconda parte della sua carriera ha scelto Simone Vagnozzi, uno degli ex allievi di Sartori insieme a Seppi e Alex Vittur, il manager che ha studiato ad Harvard e ancora oggi è il suo uomo di fiducia, il legame fra la famiglia e le origini e il palcoscenico mondiale dove Jannik ormai è chiamato a recitare. Un passaggio non subito facile, ma alla fine giusto, che Jannik ha compiuto ‘gettandosi nel fuoco’, come ha spiegato, e completato mettendosi a fianco Darren Cahill, l’ex coach di Agassi e di tanti altri fuoriclasse. Vagnozzi affina la tecnica, rifinisce tattica e gesti; Cahill educa la mente disponibilissima della Volpe ai compiti che spettano non più ad un tennista promettente, ma ormai ad un campione assoluto. Strategie, emozioni, scelte da fare in campo, ogni aspetto va curato nel dettaglio, il tutto con l’aiuto di Formula Medicine, la struttura inventata dal dotto Ceccarelli che da trent’anni opera nei motori e che aiuta a mettere in parallelo mente e corpo, pensieri e cuore.
Jannik negli anni non ha badato alle critiche, o meglio: ha accolto quelle che sapeva giuste. E sotto la guida del duo italo-australiano negli ultimi mesi ha sistemato le ultime tessere fuori posto: ora il suo puzzle è fatto anche di un servizio all’altezza nelle percentuali, e di un fisico capace di reggere l’urto del tennis d’alta quota, quello dei primi 5 del mondo. Lassù, ogni partita è un Everest da scalare. Ma Jannik, che della montagna è figlio, questo lo ha sempre saputo.
(da La Repubblica)
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