L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MISSIONE IN LIBIA
ALLA FINE SARA’ BEN POCA COSA, MA ABBIAMO PUNTATO SUL CAVALLLO SBAGLIATO, SARRAJ
Libia, ovvero l’insostenibile leggerezza di una missione. La missione navale italiana. Dove l’insostenibile leggerezza non è tanto nel suo aspetto militare quanto su quello politico.
Stando alle ultime indiscrezioni, che saranno sciolte martedì in Parlamento dai ministri della Difesa e degli Esteri, Roberta Pinotti e Angelino Alfano, l’Italia risponderà alla richiesta del Governo di accordo nazionale libico inviando una nave e rafforzando l’addestramento della Guardia Costiera di Tripoli.
Pensare che una nave militare, a supporto di una Guardia non proprio super professionale, possa contribuire ad una svolta significativa nel contrasto ai trafficanti di esseri umani, più che una speranza è una illusione.
Se resterà questo il livello del nostro impegno, faremo un buco nell’acqua. Ma il punto nodale non è neanche questo.
Perchè, sul piano operativo, l’Italia ha tutte le risorse, di mezzi e di preparazione, per poter accettare la sfida degli scafisti. Il punto vero, la sostanza di questa leggerezza insostenibile, va ricercata sul piano politico.
Roma ha puntato sul “cavallo” perdente: il premier Fayez al-Serray.
Uno dei più autorevoli studiosi di Libia italiani, Angelo Del Boca, ha definito l’ex architetto elevato a premier, come un “Signor nessuno”. Nessuno rispetto alla realtà libica, alle tribù che contano, alle milizie meglio armate e ancor più addestrate.
Un “Signor nessuno” che proprio perchè tale, era il ragionamento dei diplomatici che hanno negoziato in Marocco l’accordo tra le innumerevoli fazioni libiche, era quello che, forse, non avrebbe fatto troppa ombra a quelli che sul campo contano davvero.
E poi c’è dell’altro.
E’ che l’Italia, confidano all’Huffington Post fonti diplomatiche che hanno lavorato per l’affermazione del Governo di accordo nazionale, più di altri partner europei e occidentali, aveva puntato non solo alla stabilizzazione del Paese nordafricano ma allo sviluppo di un vero processo di democratizzazione che, come tale, non poteva fondarsi su personaggi che con una tale ambizione non avevano nulla a che spartire. Un nome fra tutti, il generale Khalifa Haftar.
Membro della tribù Firjan, Haftar nasce come uno degli uomini che aiutarono Gheddafi ad impadronirsi del potere.
Dopo aver giocato un ruolo chiave nella Guerra in Ciad negli anni 80, il suo rapporto col Raìs si deteriorò irrimediabilmente, tanto da dover fuggire negli Stati Uniti (pare con l’aiuto della Cia), dove rimase quasi 20 anni prima di rientrare in Libia, nel 2011, come uno dei leader delle forze ribelli.
L’esercito di Haftar, composto, verosimilmente, da circa 35.000 unità , si basa prevalentemente su ex membri dell’Esercito gheddafiano reintegrati in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo apparato di sicurezza libico, ma caratterizzati da una profonda avversione per i nuovi commilitoni provenienti dalle milizie rivoluzionarie
Serraj al massimo controlla alcuni quartieri di Tripoli, non conta nulla in Cirenaica. Quanto alle rotte dei barconi, direzione Italia, i punti di partenza sulla costa ad ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur.
Alle porte della capitale gli imbarchi avvengono a Tagiura e verso Misurata a Tarabuli. Tutte zone che sfuggono al controllo dell’improbabile esercito del governo Serraj.
I clan criminali che si occupano materialmente della tratta pagano il pizzo alle milizie che controllano il territorio.
A Zuara, lo snodo più importante, ogni viaggio genera un giro d’affari medio di 150mila euro. Il pizzo ai miliziani è di 18mila euro, poco più del 10%.
Se è vero, come è vero, dunque, la maggior parte dei migranti prendono il mare dalla Tripolitania (dunque dalla fascia di costa formalmente controllata da Serraj), è altrettanto vero che solo un sistema di difesa libico unificato può garantire un contenimento efficace dei flussi.
Il che rimanda per forza di cose al generale Haftar e al Libyan National Army ai suoi ordini. L’Italia non può mollare Serraj ma deve fare i conti con Haftar.
Sotto dettatura del generale, il premier torna a chiarire i termini della richiesta di assistenza fatta all’Italia, smentendo che abbia autorizzato le navi italiane a entrare nelle acque territoriali libiche.
“L’assistenza che ho chiesto all’Italia – ha precisato ancora una volta Serraj, citato dall’agenzia di stampa Lana, al suo arrivo all’aeroporto di Tripoli – è di tipo logistico e per l’addestramento della Guardia costiera, inclusi equipaggiamento e armi moderne per salvare le vite dei migranti e per affrontare le bande criminali dedite al traffico di migranti, che sono armate meglio dello Stato”.
Puntualizzazione che arriva il giorno dopo la nuova minaccia indirizzata all’Italia dal portavoce dell'”Operazione dignità ” che fa capo al generale Haftar. “La risposta all’intervento italiano nelle acque libiche sarà forte”, ha avvertito Ahmed Al-Mismari.
Ma se Roma piange, Parigi non può ridere.
Perchè il proclamato accordo sbandierato da Macron tra Serraj e Haftar sul campo, solo pochi giorni dopo la stretta tra i due rivali, che si detestano anche personalmente, già mostra tutta la sua “leggerezza”.
E non poteva essere altrimenti, visto che, vendere come ha fatto il giovane e ambizioso presidente francese, quello di Parigi come un “punto di svolta per stabilizzare la Libia”, più che uno statista definisce un “piazzista”, visto che parlare di stabilizzazione della Libia tagliando fuori le decine di milizie che ancora oggi quando non vi hanno partecipato le decine di milizie che ancora oggi controllano importanti porzioni del territorio, è qualcosa che sfugge completamente al principio di realtà .
E a farlo intendere chiaramente è proprio uno dei due “pattisti”, il generale Haftar che, forte del sostegno dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti ha così bollato Serraj: “Non controlla la città , se non a parole. Tripoli è la capitale di tutti i libici — ha spiegato Haftar a Frane 24 – , e non appartiene a nessuno. Serraj a Tripoli non ha alcuna autorità . È un ingegnere. Farebbe meglio a dire cose concrete e attinenti ai fatti e a lasciar perdere le fanfaronate”. Alla faccia dell’intesa.
I fatti sembrano dar ragione al potente generale.
Perchè ogni giorno che passa, il Governo Serraj, riconosciuto internazionalmente ma senza peso in Libia, perde qualche pezzo: tre dei nove membri del Consiglio nazionale si sono dimessi subito o hanno boicottato il nuovo organismo.
E quelli che dovrebbero essergli rimasti fedeli, in conversazioni neanche troppo private definiscono sprezzantemente il premier come “il sindaco di Tripoli, se non di alcuni quartieri di Tripoli”.
Ma la perdita più pesante per Serraj è quella delle tribù. La tribù libica dei Gharyan, tra le più importanti della Tripolitania e composta dai Berberi delle montagne di Nafusa, a sud di Tripoli, si è alleata con il governo di Tobruk (in Cirenaica) e con l’Esercito Nazionale Libico di Haftar, facendo così venire meno il suo sostegno al governo di al-Sarraj.
La nuova alleanza sarebbe stata ufficializzata con il rilascio da parte delle milizie Gharyan di Sasi al-Ghani al-Tarhouni, ex colonnello nell’ENL e già fedelissimo di Gheddafi prigioniero della tribù da quasi cinque anni. Al-Tarhouni è stato riconsegnato agli uomini di Haftar nell’ambito dell’accordo di cooperazione.
Quella dei Gharyan non è certo la prima defezione di tribù dal sostegno al governo di al-Sarraj. Le tribù Mshait, Obeid, Fwakher, Drasa ma soprattutto Warfalla – la più numerosa e potente della Libia, hanno abbandonato il premier inconcludente di Abu Sittah per sostenere Haftar.
“Nel frattempo — rimarca una fonte indipendente a Tripoli – le condizioni di vita peggiorano: per 16 ore al giorno non c’è luce, Serraj è sempre più solo, anche i suoi uomini più fedeli lo stanno abbandonando con Haftar che guadagna forza e legittimità tra i libici che hanno bisogno di un punto di riferimento forte”.
Ai problemi della sicurezza si aggiungono quelli economici. La Libia è colpita da frequenti blackout, oltre che dalla crisi economica (il Pil è in caduta libera) e dalla scarsità di contante che molti attribuiscono all’incapacità dell’attuale governo.
Su un punto, e che punto, analisti militari e geopolitici concordano: delle due, l’una, o le grandi tribù libiche puntellano il Governo Seraj, altrimenti per “stabilizzarlo” occorrerebbe un contingente internazionale (formato da quali Paesi, sotto quale egida?) di almeno 50mila soldati.
Le milizie più rilevanti sono almeno 5: Zintan, Misurata, Lybian Shield, la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio e la milizia/Esercito del Generale Haftar. Il Consiglio Militare di Zintan, dal nome della città , appunto, dove è basato, conta circa 4.000/5.000 uomini armati di tutto punto – armi leggere, sistemi di supporto del fuoco ed armi pesanti. Quanto alla milizia di Misurata (appoggiata da elementi del Lybian Shield), si tratta di un altro degli attori forti di questa crisi. Di tendenze islamiste, la milizia conta qualche migliaio di uomini e da tempo ha ormai imposto un regime di sostanziale autonomia alla città costiera di Misurata dalla quale prende il nome.
E come se non bastasse, c’è la minaccia Isis.
Un rapporto del capo delegazione italiano, Andrea Manciulli, all’Assemblea della Nato mette l’accento sull’ “espansione della minaccia di Daesh (Isis) in Libia e nel Mediterraneo Occidentale”.
“La Libia è il perfetto epicentro di instabilità per l’intero contesto regionale e assume una valenza strategica per la penetrazione di Daesh nel Mediterraneo, fornendo accesso a porti, ampi depositi di armi e lucrose rotte del contrabbando. L’anima del Daesh in Libia è intrinsecamente legata ai flussi clandestini che transitano sul suo territorio”. Ed è soprattutto a sud, nel Fezzan, il deserto che confina con la fascia dell’Africa, dall’Egitto al Ciad, al Niger, la situazione sta diventando sempre più esplosiva.
Gli islamisti di Misurata da tempo hanno mandato centinaia e centinaia di uomini, la cosiddetta “Terza Forza”, a controllare il Fezzan dove si sono ritirati militanti del Daesh dopo aver lasciato Sirte.
In questa situazione sono arrivati dal Ciad, dal Niger, dal Mali altri nomadi della tribù Tabu. Uno scenario inquietante, quello che si sta delineando, e che attualizza quanto affermato dal coordinatore europeo antiterrorismo, Gilles De Kerchove, in audizione, il 26 settembre 2016, davanti alla commissione Libertà civili del Parlamento europeo. La situazione in Libia, secondo il coordinatore antiterrorismo Ue, si farà ancora più complicata “quando il califfato collasserà ” in Siria e Iraq e ci sarà un “esodo dei foreign fighters”: a quel punto, ci saranno “non centinaia ma migliaia di combattenti” che si muoveranno verso un altro luogo e “la Libia è il più ovvio”.
Ci si troverà dunque a gestire un “numero elevato di persone di diversi profili: chi era in prima linea nella lotta, chi stava nella cabina di regia, ma anche le moglie e i figli dei combattenti e sappiamo che più di cinquecento bambini sono nati là “, aveva spiegato ancora il responsabile antiterrorismo Ue, avvertendo che “nonostante il successo a Sirte, Daesh è ancora presente in Libia e la preoccupazione è vedere sempre di più il Paese diventare un trampolino per Daesh e il luogo in cui possono essere pianificati gli attacchi verso l’Europa”. Allarme rosso, dunque. Alle “porte” dell’Italia.
(da “Huffingtonpost”)
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