L’ITALIA NON SA DARE VALORE AI SUOI LAUREATI
STUDIO ALMALAUREA: AUMENTA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE DEI NEOLAUREATI, DIMINUISCE IL SALARIO DI INGRESSO….MA NEGLI ALTRI PAESI AUMENTA L’OCCUPAZIONE DI FASCIA MEDIO-ALTA, IN ITALIA NO
Per tutti quelli che da tempo si accalorano nel dire quanto inutile sia la nostra università , gli ultimi dati dell’indagine Almalaurea potrebbero sembrare una conferma delle loro opinioni.
Aumenta infatti il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea, sia per coloro che escono dalla triennale (dal 16% al 19%) che per quelli che hanno intrapreso la specialistica (dal 18% al 20%).
Mentre tra i laureati che invece lavorano aumenta il tasso di «precarietà » e diminuisce, in termini reali, il salario di ingresso.
E’ prevedible quindi che adesso riemergano interpretazioni che leggono in questi dati i sintomi dell’inutilità del titolo di studio, della cattiva qualità delle nostre università o delle cattive abitudini dei nostri giovani, che cercano la laurea quando non è necessaria, o che si rifiutano di spostarsi o di fare lavori più umili e via dicendo.
Questa lettura non solo è parziale e incompleta (perchè comunque l’occupabilità e gli stipendi dei laureati restano complessivamente migliori che per gli altri) ma anche profondamente ipocrita, soprattutto quando a farla non sono accademici in vena autocritica, ma rappresentanti del mondo delle imprese, della politica e del lavoro. Infatti, nonostante le indubbie debolezze del nostro sistema universitario, non possiamo ignorare che l’Italia ha un sistema economico-produttivo che non ha mai compiuto fino in fondo quel processo di trasformazione e riqualificazione produttiva avvenuto in altri Paesi, ed è in larga parte incapace di valorizzare e assorbire competenze, talenti e nuove tecnologie.
Questa incapacità la si coglie, per esempio, dalle previsioni di assunzione delle imprese raccolte ogni anno da Unioncamere, che mostrano un’incidenza della domanda di laureati del 12.5% su tutta la domanda di lavoro (contro il 31% degli Stati Uniti, per esempio).
Ma la si coglie soprattutto osservando, più in generale, la composizione dell’occupazione in Italia e il suo andamento nel tempo.
Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i Paesi industrializzati, un enorme cambiamento nella struttura occupazionale, con un progressivo svuotamento delle fasce operaie ed impiegatizie e un aumento di tutte le occupazioni più qualificate: tecnici specializzati, manager, imprenditori, professionisti (accompagnato anche da un parallelo aumento delle occupazioni senza alcuna qualifica).
Un fenomeno legato all’avvento delle nuove tecnologie, alla crisi della vecchia industria e all’emergere di nuovi settori economici più smaterializzati: informatica, nanotecnologie, telecomunicazioni e via dicendo, fino all’intrattenimento e ai videogames.
L’aumento di queste occupazioni di fascia alta è stato consistente in tutti i Paesi industrializzati, ed il loro peso sulla forza lavoro è arrivato, in casi come Inghilterra e Olanda, a superare il 30% della forza lavoro, assorbendo e attraendo grandi dosi di «capitale umano», ovvero laureati, specialisti e dottorandi.
Tutto questo in Italia non è avvenuto: la crescita delle occupazioni di fascia alta è stata abbastanza contenuta negli Anni Novanta, e negli ultimi anni ha avuto un trend negativo che, come mostrano i dati Eurostat, l’ha riportata sotto il 18% dal 19% di qualche anno fa.
Un calo moderato, ma che colpisce di fronte agli andamenti positivi di tutti i più grandi Paesi europei.
E sulla mancata riqualificazione del sistema economico italiano i nostri politici, imprenditori, e sindacalisti non possono incolpare studenti e professori, ma devono assumersi le proprie, enormi responsabilità .
Perchè sanno benissimo come in Italia per troppo tempo questo processo sia stato temuto e osteggiato dalla maggior parte delle forze sociali e politiche in campo.
Ed è noto come ogni investimento in nuove tecnologie e ricerca sia stato visto spesso come accessorio, e come ogni industria che non fosse sufficientemente «pesante», che non fosse «manifattura» sia stata considerata minore, o come ogni discussione sul ruolo dei servizi avanzati, delle industrie creative e culturali sia stato spesso derubricato come «fuffa».
Una fuffa che negli altri Paesi non solo genera milioni di posti di lavoro qualificati, dando opportunità di crescita a tanti giovani laureati, ma che aiuta le stesse industrie tradizionali ad essere più efficienti, internazionalizzate e creative nel modo di riorganizzarsi e competere nei mercati internazionali. Recuperare il tempo perduto non sarà semplice.
E non si dica che il salto si potrà fare aggiungendo nuovi e costosi incentivi: non serviranno.
La situazione si cambia facendo dell’Italia un Paese dinamico e competitivo, con un mercato del lavoro che supporta efficacemente le riorganizzazioni aziendali e le riqualificazioni dei lavoratori, che si apre agli investimenti stranieri, che cambia i criteri con cui da decenni si appaltano servizi nella pubblica amministrazione e con cui si distribuiscono sussidi, incentivi e protezioni varie alle imprese, e che introduca una concorrenza chiara e trasparente che dia la possibilità alle imprese davvero più brave di competere e crescere.
Perchè la meritocrazia e la competenza di cui tanti amano parlare non si instaurano nè per decreto nè per incentivo, ma creando un sistema in cui diventino necessità .
Irene Tinagli
(da “La Stampa”)
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