MEDICI SENZA FRONTIERE CON DECINE DI SANITARI IN PRIMA FILA IN LOMBARDIA CONTRO IL CORONAVIRUS: LA RISPOSTA ETICA A QUEGLI INFAMI CHE LI CHIAMAVANO “TAXI DEL MARE”
“SERVONO DECISIONI LUCIDE, LEADERSHIP E DISCIPLINA DA PARTE DI TUTTI”: L’INTERVISTA A CLAUDIA LODESANI, PRESIDENTE DELLA ONG
La crisi sanitaria del Covid-19 va affrontata con un mix di “studio, leadership e fiducia”, e soprattutto con “l’impegno e il contributo di tutti”.
“La priorità , come in tutte le epidemie, deve essere la protezione degli operatori sanitari in prima linea, perchè se si ammalano loro poi non è più possibile curare gli altri”.
Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere, risponde al telefono dopo una lunga giornata passata nel Lodigiano, dove con la sua equipe sta supportando la task force istituita dal governo per contrastare l’epidemia.
Infettivologa, ha operato in contesti di crisi come ebola e tsunami; è consapevole delle sfide e delle incognite che il nuovo virus impone alle nostre vite, ma ha anche la lucidità di chi conosce la devastazione delle bombe e sa che questa non è “una guerra”, ma un evento naturale che tutti insieme dobbiamo e possiamo affrontare.
Dottoressa, attualmente siete impegnati in quattro ospedali del Lodigiano. In cosa consiste il vostro intervento?
“Siamo qui da una decina di giorni con un’equipe composta da una ventina di persone, presto ne arriveranno altre. Facciamo principalmente due tipi di interventi, dando una mano sia come inservienti che come medici. Da un lato agiamo sul territorio per rinforzare tutto quello che riguarda le assistenze domiciliari e le residenze sanitarie assistenziali (Rsa). L’obiettivo è soprattutto fare formazione, perchè chiaramente i medici che lavorano lì non sono infettivologi e non conoscono certi contesti. Poi lavoriamo negli ospedali, dove supportiamo i team di Malattie Infettive nel controllo delle infezioni, assicurandoci che i colleghi si proteggano bene. Ci tengo a sottolineare che i team dell’Azienda di Lodi hanno fatto e stanno facendo un super lavoro, il loro impegno è davvero incredibile”.
Un tema centrale è quello degli alti contagi tra il personale sanitario. Nei giorni scorsi, come Msf, avete lanciato un appello per chiedere che dispositivi di protezioni individuale (come guanti e mascherine) arrivino più velocemente negli ospedali. Vuole rilanciare questo appello? Perchè è così difficile reperire articoli così basilari, e perchè è fondamentale farlo in fretta?
“In tutte le epidemie di questo tipo l’obiettivo principale è proteggere i sanitari che lavorano perchè se si ammalano loro non possono più curare gli altri. Abbiamo fatto questo appello alla luce delle difficoltà che sta incontrando l’Italia nel reperire mascherine e altri presidi di protezione, per chiedere a tutti i Paesi europei di essere solidali con gli Stati più colpiti, non solo l’Italia, ma anche la Spagna e la Francia. Certamente è un problema multifattoriale: ci troviamo di fronte a una domanda imponente che nessuno aveva previsto, legata a un’epidemia che nessuno aveva immaginato. C’è un problema di produzione, ma anche di frontiere. L’appello è che bisogna trovare il modo di risolvere velocemente questo problema a livello europeo e anche mondiale. È fondamentale in questo momento trovare il modo di supportare i sanitari nella protezione di loro stessi”.
Adesso lì com’è la situazione? Le protezioni di cui dispone il personale sanitario sono adeguate oppure no?
“Sì, sono adeguate però sono sempre agli sgoccioli, gli ordini arrivano giornalmente, quindi si fa fatica a fare una pianificazione. Se avessero degli stock un po’ più ampi sarebbe più facile pianificare il lavoro tramite un’organizzazione più adeguata”.
Le vostre missioni di solito si concentrano su teatri di guerra, disastri naturali, Paesi poveri o poverissimi. In questo caso state operando nel cuore dell’Europa, in quella che Angela Merkel ha definito “la sfida più grande dalla Seconda guerra mondiale”. Nei discorsi di molti leader ritorna la parola “guerra” applicata al virus. Come si combatte questa guerra, come si vince?
“Per me non è una guerra. Ho lavorato in contesti di guerra e la situazione non è paragonabile. In una guerra ci sono le bombe che ti arrivano, la gente che ti spara, ci sono fattori esterni incontrollabili. Una guerra è molto più imprevedibile e avviene in un contesto politico. Qui invece abbiamo un virus che certamente fa paura, come tutto quello che non si vede; è un evento che non era stato previsto e ha numeri molto alti, ma è un elemento che a differenza di una guerra puoi cercare di limitare perchè sai come si trasmette. Certo, lo sappiamo a fatica perchè è un virus nuovo, quindi molte cose le stiamo imparando ora, però non c’è l’elemento imprevedibile della bomba, del fattore umano. Se ci impegniamo a studiare questo virus, a capire come si trasmette, possiamo imparare a contrastarlo”.
Cosa ne pensa di chi, come Donald Trump, parla ancora di “virus cinese” o “straniero”?
“Nessun virus ha delle frontiere o una nazionalità . Lo abbiamo visto con ebola, con il morbillo, in passato con la peste. Tutti i virus si muovono e sono legati ai movimenti delle persone. Per questo adesso è fondamentale rispettare le misure di distanziamento sociale e ridurre al massimo i contatti, perchè solo così è possibile limitare la trasmissione”.
Per quanto ammaccato, l’Italia può contare su un Sistema sanitario nazionale che in molti ci invidiano. Quale impatto rischia di avere la pandemia sui Paesi più poveri del mondo?
“Sono appena rientrata da due mesi ad Haiti, è chiaro che in un Paese dove c’è un sistema sanitario già di per sè debole un’ondata di questo tipo non sarà affrontata nello stesso modo in cui può essere affrontata qui; non si hanno le stesse possibilità . Facciamo parte di tavoli tecnici nei Paesi in cui lavoriamo per provare a prevenire, a fare dei piani d’azione, ma ovviamente è difficile perchè il sistema sanitario è già debole di per sè. Come si comporterà il virus in questi contesti? Non lo sappiamo. Sicuramente abbiamo un elemento positivo e uno negativo: quello negativo è che ci sono delle città dove la concentrazione della popolazione è molto elevata, come Kinshasa o Port-au-Prince, in cui le persone vivono nelle baraccopoli. Se il virus arriva lì, si propagherà molto più velocemente. Però è vero anche il contrario: fuori dalle grandi città ci sono delle distese molto più vaste, con contatti minori, quindi forse il virus farà più fatica a passare a tutto il Paese. È difficile da prevedere, abbiamo fatto mille ipotesi su questo virus ma la realtà è che non lo sappiamo. Ci sono elementi che possono aiutare e altri che possono sfavorire”.
Il coronavirus rischia di aggravare ancora di più le condizioni già estreme di chi è bloccato nei campi profughi delle isole greche. Qual è la vostra posizione a riguardo?
“I campi profughi della Grecia sono uno scandalo indipendentemente dal virus. Quei campi, come i morti in mare nell’attraversamento del Mediterraneo, sono uno scandalo che l’Unione europea non ha mai voluto affrontare. Di qui i nostri continui appelli alle istituzioni europee affinchè cambino le politiche migratorie, perchè il problema non è fermare queste persone, che tanto non si riescono a fermare, ma riuscire a fare dei percorsi di integrazione una volta arrivati. È scandaloso a prescindere che a non rispettare i diritti umani sia proprio un continente che in teoria si basa sui diritti umani. Questo vale indipendentemente dal virus. Poi è chiaro che se si ammassano persone in un solo posto, dentro un unico centro come può essere quello di Lesbo, se arriva il virus fa un disastro. E la colpa, ovviamente, non è delle persone, ma di politiche non lungimiranti sulla migrazione”.
A proposito di questo… voi oggi state supportando la task force di un governo composto da una parte politica che chiamava le vostre navi “taxi del mare”. Che effetto fa ripensare a quelle accuse, a quella che fu a tutti gli effetti una campagna diffamatoria contro le Ong?
“Per me non è cambiato assolutamente nulla. Noi cerchiamo di essere coerenti con il nostro mandato, che si ispira ai principi di neutralità e imparzialità . Andiamo dove c’è bisogno: ad Haiti, in Siria, ora in Italia perchè c’è un bisogno sanitario su cui crediamo di avere le competenze per aiutare. Lo avrei fatto indipendentemente da tutto, per me è acqua passata, non mi interessa molto quello che ci hanno detto, noi rimaniamo coerenti con le nostre idee”.
C’è una “lezione del virus” che i governi e la politica farebbero bene a imparare?
“Che la salute è un diritto di tutti, non si può continuare a indebolire i sistemi sanitari: spero che questo sia un messaggio che hanno imparato tutti, visto che più o meno le politiche degli ultimi anni sono sempre state mirate a diminuire il budget della Sanità ”.
Di situazioni estreme lei ne ha viste tantissime, ma per la maggior parte degli italiani non è così, e questa epidemia rimarrà come uno dei momenti più tragici della nostra storia individuale e collettiva. Come inquadrare questo momento senza farsi fagocitare dalla paura e dal senso di impotenza?
“Io sono una persona ottimista in generale perchè altrimenti non potrei fare questo lavoro. Anche in questa situazione sono ottimista. Qui a Lodi i medici hanno fatto veramente un lavoro incredibile, penso che si debba avere fiducia nelle persone che sanno fare questo lavoro e contribuire ognuno nel suo piccolo, con quello che si può. Servono tanta solidarietà e tanta coerenza: ognuno come può, ma dobbiamo lavorarci tutti insieme”.
Sperare che “andrà tutto bene”, quindi, non è da pazzi?
“Diciamo che ‘andrà tutto bene’ se ognuno farà la sua parte: proteggere i medici e seguire le indicazioni delle autorità ”.
Cosa si sente di dire a chi inizia ad avvertire una certa insofferenza verso le limitazioni — sempre più stringenti — che ci vengono imposte? Pensa che ci siano degli eccessi?
“È difficile dare una valutazione; io parlo dal punto di vista tecnico e non politico. Ci sono delle metodologie che si applicano all’inizio di un’epidemia, ma che ormai qui non si possono più applicare perchè il virus è troppo diffuso, come è il caso della Lombardia. Non ha senso fare la caccia all’errore: quello che è successo ci sta, è un evento nuovo che ha preso tutti alla sprovvista. Stiamo tutti imparando. L’importante, appunto, è imparare dalla lezione della Lombardia per impedire che negli altri posti si verifichi una diffusione così ampia: questo è l’aspetto veramente importante. Per gestire bene un’epidemia ci vuole una leadership e bisogna fidarsi. Dopodichè sono convinta che ci siano linee difficili da tracciare, per cui bisogna trovare un equilibrio tra misure chiare volte a proteggere il cittadino, e ciò che è concretamente realizzabile. A orientare la bussola deve essere un mix di lucidità e fiducia”.
(da “Huffingtonpost”)
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