MELONI, TRE ATTI DI FORZA PER NASCONDERE I PROBLEMI
QUANDO SI AVVERTE CHE IL POTERE VACILLA SI REAGISCE CON ATTI DI PREPOTENZA
Quando si avverte che il potere vacilla, quando ci si sente con le spalle al muro si reagisce nervosamente con atti di prepotenza. È il caso del governo Meloni. La premier faceva affidamento sulla circostanza che il suo feeling personale e politico con Trump l’avrebbe favorita. La guerra dei dazi e, più in genere, la guerra all’Europa, senza eccezioni, la mette in grande difficoltà, la costringe a una per lei innaturale, forzosa presa di distanze… a metà dal tycoon, a una maldestra minimizzazione del trauma dei dazi su imprese e famiglie.§
Si spiegano anche così tre suoi atti, in stretta sequenza, che si configurano come un colpo di mano, che veicolano il messaggio del «qui comando io». In barba a regole, limiti, legalità.
Nell’ordine. Primo: la trasformazione del disegno di legge sulla sicurezza già avanti nell’iter parlamentare, sul quale il Quirinale ha mosso alcuni puntuali rilievi, in decreto legge che entra in vigore immediatamente nel testo esaminato solo parzialmente. Una forzatura anche per venire a capo di dissidi interni al governo.
Un doppio, grave vulnus, di merito e di metodo, a parlamento e capo dello Stato, e dunque alla Costituzione.
Di merito, perché esclude il parlamento dal diritto-dovere di discutere emendamenti, compresi quelli buoni mirati ad accogliere i rilievi del Quirinale. Di metodo, perché ci si inventano d’improvviso e in corso di esame i requisiti costituzionali di necessità e di urgenza che autorizzano il ricorso al decreto.
Contravvenendo, di nuovo e in forma sfrontata come non mai, ai reiterati moniti dei Presidenti della Repubblica contro l’abuso dello strumento dei decreti.
Secondo: il colpo di mano – un emendamento sortito in un blitz notturno da parte della maggioranza – che cancellerebbe il ballottaggio al secondo turno nelle città sopra i 15.000 abitanti ove, al primo turno, si superasse la soglia del 40 per cento e non più il cinquanta per cento.
Emendamento ancora incombente che mette in imbarazzo persino un improbabile garante come il presidente del Senato. Con un manifesto intento: quello di cambiare una delle poche leggi elettorali positivamente sperimentate per riscriverla unilateralmente a proprio vantaggio. Senza pudore. Avendo la convinzione – neanche tanto simpatica verso i propri elettori – che essi siano più pigri e meno motivati degli elettori del fronte avverso a scomodarsi per il secondo turno.
Terzo: una riforma della Corte dei Conti che elimina in via generale la responsabilità amministrativa per danno erariale – naturalmente salvo il dolo – dei titolari di funzioni pubbliche. Non contenti dell’abolizione dell’abuso d’ufficio che già era stato circoscritto al minimo. A farne le spese – come hanno obiettato le sezioni unite della Corte – principi di rango costituzionale: equilibrio di bilancio, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, disciplina e onore di chi riveste cariche.
Queste tre “perle” recenti si iscrivono in un quadro che già conosce la guerra ai magistrati suggellata dalla separazione delle carriere e la ripresa del premierato assoluto che sembrava riposto in soffitta. Gli ingenui e zelanti terzisti che si illudono di poter cooperare con la destra con un lodo-mediazione che introduca il ballottaggio tra i due candidati premier meglio piazzati farebbero bene a prendere nota che lo si vuole semmai cancellare a livello comunale dove è stato positivamente sperimentato. Di che altro c’è bisogno per intendere che non vi sia mediazione possibile con chi, nella visione e nei comportamenti, rifiuta in radice l’idea-forza basica delle democrazie costituzionali che pone limiti al potere di chi comanda? Nelle stesse ore Mattarella ha avvertito che «le concentrazioni di potere indeboliscono l’impianto democratico». Vox clamantis in deserto?
(da editorialedomani
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