NUOVA AGGRESSIONE AI GIORNALISTI A LAMPEDUSA: “SMETTETE DI PARLARE DI NERI PERCHE’ CI ROVINATE”
DOPO LA TROUPE DEL TG1, OGGI E’ TOCCATO A UN GIORNALISTA DI MEDIASET… SE NON CI FOSSERO GLI ARRIVI DI MIGRANTI NON CI SAREBBERO FORZE DELL’ORDINE E OPERATORI UMANITARI CHE RIEMPIONO GLI ALBERGHI TUTTO L’ANNO, MA CERTA FECCIA E’ TROPPO IGNORANTE PER CAPIRLO
Tavolini gremiti, lo strascichio ritmato di chi ciabatta sul corso principale, aperitivi pigri al ritorno dal mare. Quando il sole cala e congeda l’ennesima giornata d’estate, Lampedusa è solo una delle tante località balneari, che delle sue bellezze vive, si bea e (forse) fattura.
Gli accenti che si mischiano fra negozi, botteghe e locali sono quelli di Nord e Sud d’Europa e d’Italia e in paese le file si fanno solo per i due bancomat affacciati sul corso principale.
“Solidarietà all’isola in prima linea sul fronte immigrazione” hanno espresso il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi e la commissaria agli Affari Interni Ue Ilva Johansson in visita lampo a Lampedusa.
Neanche un accenno a chi per salvarsi attraversa il mare. Ma quell’isola raccontata come capitale di una presunta invasione che arriva dalla sponda Sud del Mediterraneo, trasformata in simbolo di un’emergenza certificata anche per decreto, a luglio appena iniziato se le contendono giusto i turisti.
Coppie, famiglie, comitive sciamano per il paese, litigano per un posto in prima fila sul corso principale della città, si mettono in fila per una barca che li porti in gita alle calette, affollano i ristoranti. A Lampedusa ha aperto persino un sushi bar. E la notte passa fra un live e un karaoke, odore di creme solari, chiacchierate oziose, shopping fra bancarelle e negozi.
La strage nascosta
Soccorsi, naufragi, traversate e scommesse contro il Mediterraneo che mai come quest’anno ha chiesto pegno a chi lo attraversa – sono più di 1.700 le vittime accertate secondo l’Oim – li raccontano solo le luci delle motovedette che silenziose attraversano l’orizzonte al di là dei bastioni del porto. E anche di giorno quelle navi con il ponte pieno di gente non sono che un’ombra sullo sfondo. Tocca fatturare, di drammi e migrazioni non bisogna parlare.
Deve essere così – pontificano alcuni – anche a costo di spintoni, minacce e telecamere buttate a terra per “convincere” i giornalisti a “smettere di parlare di neri” perché “ci rovinate”.
E’ successo ieri alla troupe del Tg1, costretta a saltare la diretta delle 20 perché gli aggressori hanno danneggiato irrimediabilmente l’attrezzatura. E la scena si è ripetuta oggi, con l’operatore di Mediaset Sandro Di Salvo e il figlio presi a calci da due uomini che hanno tentato di sottrargli la telecamera. Che sia pezzo d’Europa proteso verso la sponda Sud del Mediterraneo non si deve dire, che sia approdo naturale per chi fugge non si deve raccontare.
E solo lontano da orecchie indiscrete qualche dipendente di hotel e ristoranti ammette: “Senza l’immigrazione, le forze dell’ordine, i medici, il personale delle organizzazioni umanitarie che stanno qui tutto l’anno, d’inverno quest’isola sarebbe chiusa”
Il molo Favaloro, dove i naufraghi soccorsi al largo dell’isola vengono accompagnati, dista solo una decina di minuti a piedi dal centro del paese. Ma sembra lontano anni luce. Perché quell’umanità dolente che si mette in fila, i sopravvissuti dallo sguardo perso, dal paese nessuno li vede. E neanche da cala Guitgia, una delle spiagge più note e frequentate, che il molo lo guarda senza vederlo.
La gabbia dorata dell’hotspot
L’osservatore attento al massimo noterà i pullman bianchi della Croce rossa che dal molo si inerpicano verso la pancia dell’isola, dove l’hotspot, da quando la Croce rossa è arrivata, ha recuperato decenza e decoro da Paese del cosiddetto “primo mondo”. Ma rimane una gabbia, nascosta agli occhi dei più.
Non ci sono più materassi lerci gettati a terra per dormire, non tocca sgomitare per l’acqua, un pasto, una doccia o un bagno, non ci sono bambini scalzi e seminudi, ma da lì nessuno continua a poter uscire. Formalmente non si tratta di una struttura di detenzione, chi lì viene ospitato non ha alcun obbligo giuridico a restarci, ma di fatto nessuno si può allontanare. E i tormentoni estivi che diventano ingombrante colonna sonora in paese sono giusto un’eco. A contrada Imbriacola c’è solo silenzio, al massimo un brusio di chi sogna, spera, prega, si confida. L’isola è lontana.
Da porta d’Europa a “porta girevole”
Grisaglia istituzionale d’ordinanza, codazzo di rappresentanti, dipendenti e funzionari di Prefettura, forze dell’ordine, agenzie europee, all’hotspot il ministro Piantedosi non avrà passato più di dieci minuti. Abbastanza per guardare le facce stravolte di decine di ragazzini appena sbarcati, con addosso tutti i segni e i timori di una notte in mare, ma senza vederle. In un giorno, con il tempo tornato clemente, ne sono arrivati quasi trecento, altrettanti sono partiti, con la struttura che si gonfia e si sgonfia come una fisarmonica.
Ma davanti al centro Piantedosi ne parla come problemi, non persone. Promette solo nuovi rimpatri, da decidere con una procedura accelerata ancora in larga parte da definire. Obiettivo dichiarato, renderli così rapidi da eliminare persino il problema di redistribuzione degli arrivi fra le regioni.
Lampedusa, naturale porta d’Europa, geograficamente più vicina alla Tunisia che all’Italia, per il governo Meloni al massimo deve trasformarsi in porta girevole, con chi entra da accompagnare fuori nel giro di poche settimane.
Nel frattempo, magari, da trattenere persino sull’isola in un centro su cui tanto si sussurra – potrebbe essere alla vecchia base Loran, insistono da mesi alcuni – e che il ministro non esclude. E pazienza se la sentenza della Cedu che ha condannato l’Italia per la detenzione arbitraria a Lampedusa di tre ragazzi tunisini, “sottoposti a trattamento inumano e degradante” e privi di assistenza legale è diventata definitiva. L’escamotage, filtra da Roma, si troverà.
“Con il ministro Nordio stiamo lavorando”, annuncia Piantedosi. Il mantra della “difesa dei confini”, cui la maggioranza di centrodestra deve buona parte del suo successo elettorale, impone risposte, anche a costo di abbandonare migliaia di persone che chiedono protezione. Vittime di conflitti, di persecuzioni, della dittatura dell’emergenza, che però non è numerica – sottolinea il direttore dell’Oim, Di Giacomo, ma umanitaria, per il numero di morti in mare, e logistico-operativa.
Emergenza umanitaria e logistica
“Se arrivano 65 mila persone a Lampedusa sono tante, ma se spalmiamo questa cifra in Italia parliamo dello 0,1 o 0,2 per cento della popolazione nazionale, un numero irrisorio”, si sgola. Ma le navi ong – bollate come “pull factor” per partenze nonostante gli arrivi crescano a dispetto di un decreto che ne ha fortemente limitato le attività – sono bloccate in porto o spedite lontano dopo un unico salvataggio.
E a un sistema di soccorso in mare europeo che, come ai tempi di “Mare nostrum” sia in grado di accompagnare i naufraghi in porti e regioni attrezzati per accoglierli, anche pubblicamente auspicato dal presidente della commissione europea Libe, Juan Fernando López Aguilar un paio di settimane fa a Lampedusa, la commissaria Ilva Johansson neanche accenna.
“Indispensabili saranno gli accordi con Paesi terzi” dice, annunciando accordi e finanziamenti con la Tunisia di Kais Saied, in cui oppositori politici, giornalisti, sindacalisti finiscono in carcere e contro i migranti subsahariani, accusati di essere strumento di sostituzione etnica, si è scatenata una vera e propria ‘caccia al nero’.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: chi muore in mare non fa rumore. Le urla non si sentono.
(da La Repubblica)
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