REFERENDUM: LA POSTA IN GIOCO
I DUE FRONTI: I RISCHI DEL CENTRODESTRA E LA SCOMMESSA DEL CENTROSINISTRA….ENTRAMBI SI SONO MOBILITATI, POLITICIZZANDO LA CONSULTAZIONE
Centro-destra: questa volta alle urne non andrà soltanto una parte del Paese
La prima differenza tra la campagna per le amministrative sfociata nella quadrupla sconfitta di Torino, Bologna, Milano e Napoli, e quella referendaria è che stavolta Berlusconi e Bossi hanno marciato uniti.
Il premier più dichiaratamente e il Senatur più svogliatamente si sono pronunciati per l’astensione, inalberando la parola d’ordine dei referendum inutili.
«Inutili», appunto, e non controproducenti o dannosi, perchè una vera campagna astensionista si fa innanzitutto mostrandosi indifferenti, distratti, presi da cose più importanti, e in questo i due maggiori soci del governo di centrodestra non avevano neppure da fingere, trovandosi impegolati ancora con le conseguenze del disastroso risultato nelle città , con i venti di burrasca della manovra economica, e con le turbolenze, ciascuno le sue, dei partiti di cui sono leader: mugugni pidiellini un po’ da tutte le parti, scissioni parlamentari invece che consolidamento della maggioranza, adunata a Pontida fissata per il 19 giugno, con il popolo leghista che s’annuncia rumoroso più che mai.
La corsa per le amministrative era stata caratterizzata dalla duplice rottura della Lega sulla guerra in Libia, che precedette il primo turno del voto, e sullo spostamento dei ministeri al Nord, che pregiudicò il secondo, e ancora si trascina.
Stavolta, invece, niente di tutto questo.
Verrebbe da risfoderare, anche per Berlusconi e Bossi, l’antico detto latino, «simul stabunt, simul cadent».
E in effetti, un’eventuale affermazione dell’astensione, con il conseguente fallimento dei referendum, consentirebbe al presidente del consiglio e al suo principale alleato, se non proprio di cantare vittoria, dato che non c’è mai da gioire per la diserzione dei seggi, almeno di dire che avevano avuto ragione sui promotori dei referendum e sulle consultazioni fallite. Inoltre la sconfitta dell’opposizione su un’iniziativa in cui aveva speso tutta se stessa verrebbe a confermare che la perdita delle grandi città nelle elezioni di maggio, pur dolorosa, è lungi dal rappresentare la crisi epocale del rapporto tra il Cavaliere e il suo popolo che il centrosinistra, ed anche qualche voce dissonante del centrodestra, avevano voluto proclamare a tutti i costi.
Per le stesse ragioni l’esito opposto – raggiungimento del quorum con una molto probabile vittoria dei «sì» all’abrogazione – sarebbe disastroso: molto più per Berlusconi, ma anche per Bossi, specie se a determinarlo fossero i cittadini nordisti, in aperto dissenso con le indicazioni astensioniste ricevute e non condivise.
L’idea che anche solo la metà più uno degli elettori richiesta per la validità dei referendum si presenti ai seggi e voti darebbe la sensazione che davvero Berlusconi ha perduto la maggioranza nel Paese, e quella raccogliticcia grazie alla quale governa in Parlamento non rappresenta più gli umori reali degli italiani.
Molto dipenderebbe, in questo caso, dalla percentuale definitiva dei votanti, dato che qualcuno, per offrire un argomento difensivo al Cavaliere, sarebbe disposto subito a sottrarre i «no», formalmente contrari al cartello dei promotori schierati per i «si», sostenendo che solo questi ultimi vanno considerati voti antiberlusconiani «doc».
Ma a parte il fatto che i «no» partono sfavoriti, sarebbe impossibile, specie con argomenti come questi, nascondere la ferita dell’eventuale secondo colpo inflitto al premier in poche settimane.
Ci si potrebbe chiedere, infine: al dunque, cosa conviene di più a Berlusconi?
Sfangarla grazie alla pigrizia estiva, ai primi bagni di mare e all’astensione della gente rimasta sotto l’ombrellone, o beccarsi un’altra legnata che lo convinca una volta e per tutte a darsi una mossa?
Difficile rispondere: a giudicare dalle reazioni di questi giorni, non si sa davvero cosa scegliere.
Berlusconi ha già detto che il governo non cadrà anche se l’esito dei referendum sarà contrario.
E in caso di definitiva cancellazione del legittimo impedimento (legge che tra l’altro scade a ottobre), ha già pronta un’accelerazione della prescrizione breve, per rallentare o bloccare i processi di Milano.
Diceva Andreotti che tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia.
Incredibilmente, questo sembra adesso diventato anche lo slogan dell’ultimo Berlusconi.
Centro-sinistra: senza il quorum Bersani tornerebbe sotto esame
Tutto più facile se si raggiunge il quorum e dunque se vincono i sì. Per il centrosinistra ovviamente.
Facile insistere sulle dimissioni di Berlusconi, malgrado negli ultimi giorni Bersani, Di Pietro e Vendola abbiano tentato di depoliticizzare il voto referendario.
Ma se vincono, si vedrà che si trattava di un semplice trucco per convincere più gente possibile, elettori di centrodestra in primis, ad andare a votare.
A risultato positivo eventualmente acquisito sarà un coro incessante contro il premier, che ha perso il suo famoso consenso popolare prima alle amministrative e poi appunto al referendum. Magari, anzi probabilmente, Berlusconi non si dimetterà e farà di tutto per continuare a galleggiare fino a che ci riuscirà ma con sempre maggiori difficoltà interne alla sua coalizione.
Nel frattempo, con quasi trenta milioni di sì in tasca, i leader del centrosinistra potranno condurre una campagna elettorale in discesa, per quanto lunga possa essere.
Il leit motiv della fine del berlusconismo salirà di volume e di intensità .
La vittoria del Sì dovrebbe – ma qui il condizionale è d’obbligo visto che si sta parlando di centrosinistra – anche aiutarli molto a cementare un’alleanza tra di loro che al momento non vede alternative nonostante i vari tentativi di allargarla al Terzo polo.
Sarebbe insomma evidente a quel punto, visto il voto amministrativo e referendario, che l’alleanza da presentare agli italiani alle prossime elezioni politiche dovrà essere quella tra Pd, Sel e Idv.
Anche e soprattutto perchè avrebbe ricevuto una spinta vigorosa da tutti coloro che non solo hanno votato ma hanno anche partecipato alle primarie, alla raccolta delle firme, insomma la tanto evocata scietà civile, una volta si chiamava «la base», che si è mobilitata per far vincere questo centrosinistra.
Sarebbe difficile per la nomenklatura, come ironizzava Bertold Brecht, «cambiare il popolo».
Panorama molto diverso, se non opposto, nel caso non si raggiungesse il quorum.
Intanto perchè la vittoria dell’astensione avrebbe l’effetto di rivitalizzare il governo e in particolare il suo premier, che potrebbe rivendicare non solo la vittoria ma anche il consenso popolare alla sua dichiarazione: «Io non andrò a votare».
Le dimissioni del governo, ossia l’obiettivo principale dell’opposizione, si allontanarebbe nel tempo, magari fino alla scadenza naturale della legislatura.
E poi perchè, anche se si tratta di due voti molto diversi, l’eventuale sconfitta al referendum offuscherebbe in parte la vittoria del centrosinistra, alle elezioni di due settimane prima.
Ma soprattutto il rischio per il centrosinistra è che si riaprano tutti i giochi nel Partito democratico.
Non mancherebbero coloro pronti ad accusare Bersani di essersi appiattito su Di Pietro e Vendola, di aver seguito per opportunismo l’ondata referendaria su temi che nello stesso Pd non sono mai stati contrastati con nettezza, dal nucleare alla privatizzazione dell’acqua. Verrebbero ricordate tutte le liberalizzazioni dello stesso Bersani, per non parlare delle fascinazioni nucleariste che in quel partito – anzi in entrambi i partiti che hanno partorito il Pd – sono sempre esistite. Infine, accusa delle accuse a sinistra, Bersani verrebbe imputato di subalternità nei confronti delle iniziative altrui.
Tornerebbe in auge la vocazione maggioritaria di Veltroni, riacquisterebbe fiato la strategia di D’Alema, l’alleanza con Casini come asse portante del futuro governo, forse verrebbe rimessa in discussione persino la leadership del segretario che grazie alle amministrative si era invece enormemente rafforzata.
E anche negli stessi due partiti minori, qualche contraccolpo non mancherebbe.
Non verrebbero certo messe in discussione le leadership di Vendola e di Pietro, tuttavia il loro potere contrattuale nei confronti del Pd uscirebbe parecchio indebolito.
Più complicato, per Vendola, insistere sulle primarie; più arduo, per Di Pietro, stringere nell’angolo dell’antiberlusconismo un Partito democratico che non ha mai amato l’eccessivo giustizialismo dell’ex Pm.
Tutti ovviamente direbbero che raggiungere il quorum era una missione impossibile, che il governo ha fatto di tutto, a cominciare dalla data fissata nel mezzo di giugno, perchè vincesse l’astensione.
Ma si tratterebbe di giustificazioni che, per quanto vere, difficilmente riuscirebbero a evitare gli effetti perversi della sconfitta.
Marcello Sorgi e Riccardo Barenghi
(da “La Stampa”)
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