RENZI MINI-CAIMANO AL SENATO
“TU PREMIER E’ LA DIMOSTRAZIONE CHE CHIUNQUE PUO’ DIVENTARLO”
L’immagine più efficace arriva dai banchi di Forza Italia: Matteo Renzi parla ormai da trenta minuti e i senatori azzurri sono ancora assorti, chi a braccia conserte, chi con le mani sul banco davanti.
Le loro facce sorprese è come se esclamassero: “Finora uno così ce l’avevamo noi, adesso sta dall’altra parte”.
Il Renzi primo tenta di incantare il Senato con un discorso sì berlusconiano, ma con quella noia da effetto Valium tipica dei democristiani alla Forlani.
Una bestia strana, surreale. Un estraneo, non un marziano, che inizia in “punta in piedi” e fa l’orecchiante dalla memoria strepitosa per più di un’ora.
La cotazione d’esordio è impensabile. Gigliola Cinquetti. “Non ho l’età per sedere al Senato”.
Il premier under 40 mette le mani in tasca, poi gesticola, riprende i fogli. Pretende di andare a braccio e forse anche per questo non buca lo schermo. Dà l’impressione che per lui Palazzo Madama sia solo un pretesto, per oltrepassarlo e rivolgersi altrove, con toni da comizio.
I senatori vengono schiaffeggiati con una promessa crudele: “Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula”. È il primo annuncio: l’abolizione del Senato concordata nel percorso delle riforme.
Il leghista Calderoli borbotta. Non si trattiene: “Tanto è una balla”.
L’ossessione di Renzi è inseguire i voti persi del Pd a favore dei grillini.
Di qui un’infinita serie di riferimenti contro la Casta. Per il premier prevalgono i mercatini rionali su quelli finanziari. Non solo.
Il sindaco di Firenze s’inerpica su un faticoso sentiero dedicato all’importanza della scuola. Si scaglia contro la burocrazia dei ministeri, invocando lo spoil system, ma usa il verbo più burocratico che esiste. Recare.
“Ogni settimana mi recherò in una scuola diversa, comincerò da Treviso”. L’edilizia scolastica, poi.
Più che un sindaco, sembra un assessore provinciale all’Istruzione. È qui che il discorso comincia a perdere quota.
In tribuna la moglie Agnese vaga con lo sguardo per tutto l’emiciclo. Il fido Carrai, invece, accanto a lei, è meno distratto. “Avete mai parlato con un insegnante?”.
I senatori del Movimento 5 Stelle ridono tutt’insieme. Un boato.
Il presidente Grasso è costretto a intervenire. Tutto il discorso è un duello continuo con i grillini. L’unico segno di vita nel surreale pomeriggio renziano. Dalle due alle tre. Un’ora e qualche minuto di intervento. “Eravamo a un bivio”.
È la spiegazione del letticidio nel senso di Enrico. “O si andava alle elezioni, oppure…”. Interruzione. Grillina, ovviamente. Renzi ribatte: “A differenza vostra noi non abbiamo mai paura di presentarci alle elezioni. Siamo abituati, voi no e lo avete dimostrato in Sardegna, Basilicata, nelle province di Trento e Bolzano”.
Sintesi: noi siamo democratici sul serio, dice Renzi, voi no.
Chiarisce anche: “Se perdiamo non cerchiamo alibi, se perdiamo è solo colpa mia”. Il primo applauso, blando, arriva tardi. In un’apologia dell’europeismo che va oltre il semestre fatidico. L’ambizione, a parole, è guidare il continente nei prossimi decenni. Stavolta la citazione è per gli Stati Uniti d’Europa di Altiero Spinelli.
Il premier si rimette subito sulla carreggiata dell’uomo semplice, estraneo alla Casta. La politica esca dai talk-show e pensi ai genitori che la mattina accompagnano i figli a scuola.
Dopo il verbo “recare” tocca a uno più insolito, rubato a Renzo Piano, archistar e senatore a vita. Rammendare. Rammendare un intero Paese che non è finito, non è morto. La scintilla continua a latitare.
Il berlusconismo da comizio è comunque ingessato dall’ansia da prestazione. I ministri, al banco del governo, hanno facce torve o sonnolente.
Molti hanno lo sguardo basso, fanno finta di prendere appunti. Renzi è seduto tra la Mogherini e Alfano. Quest’ultimo è stato fatto alzare ma poi è riuscito lo stesso a sistemarsi vicino al premier. A rimarcare la continuità .
Dal governo Letta-Alfano a quello Renzi-Alfano.
Il premier fa l’elenco di tutto quello che vorrebbe cambiare per dare un senso alla scadenza del 2018. Qui è Walt Disney. “La differenza tra sogno e obiettivo è una data”.
Oltre alla legge elettorale, l’Italicum, ci sono la giustizia, il fisco, il lavoro, la riforma della Pubblica amministrazione e l’azzardo di rendicontare online “ogni centesimo speso”.
Per “gli appalti lavorano più gli avvocati che i muratori”. C’è l’immancabile generazione Erasmus, un must del renzismo, e poi da cattolico l’omaggio al papa con “Internet è un dono di Dio”.
L’altro giorno, a messa, una signora gli ha detto: “Tu premier è la dimostrazione che chiunque può diventarlo”. Frase a doppio senso.
Dal sogno americano a quello di Pontassieve. Renzi, ormai, ha sempre le mani in tasca. Tocca all’elenco delle telefonate fatte da Palazzo Chigi, il primo giorno. Lucia, ragazza sfregiata, i marò, un amico disoccupato.
Finale: il contrario dell’integrazione è la disintegrazione e compromesso sui diritti civili.
Alla fine, non applaude nemmeno Giovanardi, alleato e sostenitore.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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