SALVINI E LE DIVISE, UN MODO PER VENTILARE L’USO DELLA FORZA COME PROPELLENTE IDEOLOGICO DESTINATO AL CONSENSO
MILITARIZZARE IL RUOLO DI SEMPLICE MINISTRO DELL’INTERNO E’ L’ANTICIPAZIONE DI OGNI REGIME… SALVINI COME TRITONI DI UGO TOGNAZZI IN “VOGLIAMO I COLONNELLI”, UN PERSONAGGIO DA AVANSPETTACOLO
L’uso che Matteo Salvini fa delle uniformi della Polizia di Stato, prim’ancora d’essere un omaggio alle forze dell’ordine, magari in funzione del “sorvegliare e punire”, risulta, va da sè, esplicitamente intimidatorio.
D’altronde, le divise rappresentano – perdonate l’orrido concetto assunto dal sistema della moda – l’outfit di ogni regime, sia detto da un esperto frequentatore perfino delle fiere di “militaria”, dove, appunto, uniformi e perfino buffetterie, cominciando dal vestiario del Terzo Reich, surclassano ogni altro articolo lì in vendita.
Non c’è regime, in ascesa o già in atto, che non abbia spettacolarizzato la propria “militarizzazione”.
Magari fornendo al personale sia con le stellette sia civile ogni genere di indumento distintivo. Nel già menzionato Reich “millenario”, perfino i borghesi del Deutsche Arbeitsfront, Fronte Tedesco del Lavoro, avevano l’obbligo di indossare la propria tenuta e impugnare una pala.
Anche il fascismo nostrano provvede a questo bisogno regimentale, da neonati si riceve la prima nomina di “Figli della Lupa”, in attesa, risalendo nella gerarchia, dei “baffi”, cioè i gradi, di balilla, balilla moschettiere, avanguardista… Per le femmine c’è la gonna di Piccola Italiana cui segue la Giovane Italiana…
Nel regime sovietico, perfino l’intellettuale Trotskij vestirà l’uniforme dell’Armata Rossa.
Allo stesso modo di quest’ultimo, anche Matteo Salvini, che alle professioni culturali non sembra però volersi accostare, militarizza il proprio ruolo di semplice ministro dell’Interno, che, lo voglia o no, rimane una carica dell’ordinamento civile.
Ora voi direte: però nella memoria grigioverde, dai giorni di un Segni presidente, abbiamo visto molti capi di governo indossare il berretto da alpino oppure, laggiù in zona di operazioni e missioni all’estero, poco importa se il Libano o Afghanistan, la giubba mimetica?
Sì, ma in modo episodico, cortesia verso le insegne del corpo ospitante.
Esiste il caso di Francesco Cossiga che, oltre a collezionare soldatini e costituire “Gladio”, ha lasciato addirittura un proprio ritratto in divisa di brigadiere dei carabinieri, tuttavia, paradossalmente, nonostante il marchio dell’emergenza e delle leggi speciali di polizia cui lo associamo, tutto ciò in quell’uomo era quasi un vezzo da fantasista, altra percezione si ha invece rispetto al suo successore al Viminale.
Magari, avessimo visto Salvini con indosso la camicia e il chepì rossi dei garibaldini, come fanno, ricordando la Repubblica romana del 1849, coloro che tutti gli anni si ritrovano all’ossario del Gianicolo.
Forse è troppo aspettarsi la difesa dei valori di laicità a chi solleva il rosario e fa la difesa della famiglia nel suo modello base angustamente piccolo borghese.
Posto che non vogliamo apparire schematici, nonostante i segni della semplificazione autoritaria ci siano già tutti, accettiamo, a questo punto, dialetticamente una possibile obiezione spettacolare assolutoria pro-Salvini, ricordando che la stessa Marylin Monroe, visitando le truppe americane in Corea nel 1954, indossava il bomber nero dei marine, che nei cinegiornali ancora la osannano, aggiungiamo tuttavia che lei mai sognò di pronunciare parole come “la pacchia è finita”,.
Matteo Salvini, almeno al momento, salvo smentite, non sembra neppure in procinto di accostare il proprio nome al generale Baistrocchi cui si deve l’omonima riforma che nel 1933 ridefinì “uniformi, gradi ed equipaggiamento del Regio Esercito, della Milizia e dei Reali Carabinieri”, eliminando, fra l’altro, il chepì a favore della “piatta”, così come provò, inutilmente, a bandiere le fasce gambali.
Salvini, nel suo sfoggio da piantone, superato il “casual” delle felpe, suggerisce semmai la sagoma dell’onorevole della Grande Destra, Giuseppe Tritoni, interpretato da Ugo Tognazzi in “Vogliamo i colonnelli”, quando in un’ipotetica Arcinazzo, basco da paracadutista, arringa i suoi in nome dell’ordine della disciplina e della pubblica morale per l’operazione “Volpe nera”.
“Io ogni giorno indosso una divisa per onorare il lavoro delle forze dell’ordine. Saviano e Renzi possono dire quello che vogliono, me ne frego”. Poi, captatio benevolentiae: “Ogni giorno gli agenti si alzano e rischiano la vita per 1300 euro al mese”. Parole doverose, nel cui sottofondo però si intuisce la chiamata a raccolta apologetica dell’immancabile, costante, suo discorso securitario, lo stesso che accanto al razzismo anti-immigrati costituisce la sostanza subculturale della sua Lega di governo: ventilare l’uso della forza come propellente ideologico destinato al consenso.
Bene hanno fatto quei vigili del fuoco che ne hanno stigmatizzato l’abbigliamento, e brava Michela Pascali, lesbica ai vertici del sindacato di polizia Silp-Cgil, a dichiarare che “gli operatori della polizia che noi rappresentiamo guardano con molta preoccupazione all’abuso della divisa da parte di Salvini, questa è la parte figurata attraverso la quale il nazionalismo prende forma”.
Il ministro dell’Interno, quando indossa la divisa è come se si ponesse come garante morale d’ogni possibile ronda, anzi, assodate le sue predilezioni musicali rock, appare virtualmente come una sorta di capo degli Hells Angels istituzionali.
Mai governo, escludendo Tambroni, fu più estraneo alle armi dell’ironia dell’attuale. Con il guardasigilli, Alfonso Bonafede, pronto subito a mostrarsi collaterale al collega indossando invece la divisa della Polizia Penitenziaria. Subito seppellito da questo commento di @manginobrioches su Twitter: “Quando finalmente anche a te hanno comprato un costume come quello del cuginetto”.
Al fotofinish dell’opzione sovranista, ultimo avamposto delle opportunità politiche, giunge nella piazza d’armi, per il contrappello, come corpo delle ausiliarie di Salvini, anche Maria Giovanna Maglie, prendendo spunto dal caso Battisti, scrivendo così a Dagospia, con prosa da Margherita Sarfatti: “Il leader popolare oggi mostra la sua giornata, si denuda, non è più lontano, sbaglia nelle piccole cose come tutti, mangia troppo e male, lascia intuire a volte una sofferenza personale. Indossa la divisa di quelli che incontra e rappresenta”.
Sognando ironia e ritegno perduti, ritroviamo in uno strapuntino della nostra memoria, non le battaglie civili per la democratizzazione della polizia, piuttosto il marchese Antonino Faà di Bruno, già tenente dei granatieri in Africa Orientale, decorato ad Asmara nel 1941, lo stesso che, congedato come generale di brigata nel 1964, una volta in pensione, si concede una strabiliante carriera da caratterista nel cinema della commedia all’italiana, lo fa per puro piacere, forte d’essere alto 1 metro e 96, voce baritonale stentorea, lineamenti aristocratici, trovando a scritturarlo Lizzani, Pasolini, Fellini, e lo stesso Monicelli per il ruolo del colonnello in pensione e golpista Ribaud, proprio in “Vogliamo i colonnelli”, infine, impossibile da dimenticare, eccolo Duca Conte Piercarlo Ing. Semenzara nel “Secondo tragico Fantozzi”.
C’è qualcuno che sappia spiegare tutto questo a Salvini e alla sua truppa plaudente in bomber davanti al suo caporalesco “Me ne frego”?
(da “La Repubblica”)
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