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DI MAIO RESTA L’UNICO BIG, IN ARRIVO SOLO CANDIDATI MINORI, FICO RINUNCIA, MA LA SORPRESA SARA’ IL RICORSO DI BORRE’

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

IL FINANCIAL TIMES: “SCARSA TRASPARENZA DEI CAPI DEL MOVIMENTO”… L’AVVOCATO DEI DISSIDENTI: “VIOLATO L’ART 7 DEL NON STATUTO”

Da imbattibile super-favorito a imbattibile per assenza di avversari “alla sua altezza”: scaduto il termine per l’invio delle candidature, Luigi Di Maio resta per ora l’unico “big” in corsa per le primarie del M5S. Ma in arrivo ci sarebbero i nomi di altri esponenti “minori” del Movimento.
Nessuno dei leader pentastellati si è fatto avanti per sfidare il vicepresidente della Camera.
Lo stesso Alessandro Di Battista su Facebook ribadisce di non voler correre: “È la scelta giusta. Tra poco si inizierà  a votare e invito alla massima partecipazione”. Rinuncia definitivamente a candidarsi anche Roberto Fico, esponente dell’ala ortodossa e in dissenso con la regola secondo cui il vincitore delle primarie sarà  anche il capo politico del M5S, ruolo finora tenuto da Grillo.
Un dissenso che Beppe Grillo, arrivato ieri sera a Roma, proverà  a placare incontrando probabilmente lo stesso Fico, che paventa il rischio che una serie di poteri sia accentrata non più nel “garante” ma in un suo esponente, presumendo così un conflitto di interessi.
Un tema ripreso anche dal Financial Times, che dedica un’intera pagina alla “scarsa trasparenza” dei capi del M5S, in riferimento a Davide Casaleggio e al ruolo della sua società  all’interno del Movimento. Ruolo che, secondo quanto sostiene il principale quotidiano economico britannico, sarebbe “coperto da segretezza”.
Per il resto, il rebus sui candidati sembra risolversi in un nulla di fatto. Silenti Barbara Lezzi e Nicola Morra.
Fuori dai giochi anche Roberta Lombardi, che venerdì ha annunciato ufficialmente su Facebook la sua candidatura alla presidenza della Regione Lazio nel 2018.
Mentre un altro potenziale avversario di Di Maio, Carlo Sibilia, si fa da parte augurando “in bocca al lupo” a chi correrà  alle primarie e richiamando il Movimento delle origini.
Ma in coda alle polemiche interne c’è un’altra ombra all’orizzonte delle primarie, quella dei ricorsi.
“Le regole violano l’art.7 del ‘Non Statuto’ sul punto degli indagati e il codice civile vietando a chi ha fatto causa al Garante di candidarsi”, spiega l’avvocato Lorenzo Borrè rivelando di essere stato contattato, in via precauzionale, già  da diversi iscritti. E Borrè oggi sarà  al Tribunale di Palermo, chiamato a decidere se confermare o meno il congelamento delle Regionarie in Sicilia dopo il ricorso di Mauro Giulivi.
L’Isola dove, anche ieri, è tornato il candidato premier in pectore Di Maio, a testimonianza di una partita che si preannuncia più difficile del previsto.

(da “La Repubblica”)

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MINNITI NE COMBINA UN’ALTRA: L’INVITO A HAFTAR IRRITA SABRATHA E LE MILIZIE INONDANO IL MARE DI BARCONI

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

LA RISPOSTA DEL CLAN DABBASHI ALLA MOSSA DEL MINISTRO ITALIANO CHE PENSA DI ESSERE FURBO

Sabratha non ci sta e i barconi riprendono il mare.
Il consiglio militare della città  della Tripolitania condanna l’invito dell’Italia a Khalifa Haftar, per il quale il generale è atteso a Roma il 26 settembre per incontrare il ministro della Difesa Roberta Pinotti, e alcuni alti ufficiali dello Stato maggiore. «Denunciamo l’invito giunto specie perchè la Corte penale internazionale ha chiesto ripetutamente l’arresto degli affiliati (del generale) colpevoli di aver commesso crimini di guerra», spiega in una nota il Consiglio militare di Sabratha.
Questa la reazione ufficiale di Sabratha.
Venerdì intanto, il Mediterraneo centrale si affollava di gommoni come non accadeva da tempo: 15 interventi di salvataggio in poche ore, cui si devono aggiungere alcuni del giorno precedente e altri di ieri: circa 1800 persone salvate nel fine settimana, con l’aiuto delle navi militari e di quelle delle poche Ong rimaste davanti al mare della Libia e il coordinamento della Guardia costiera italiana. Oltre agli «sbarchi fantasma».
«I due accadimenti non sono affatto slegati», spiegano fonti libiche a La Stampa secondo cui questa è la reazione «non ufficiale» di Sabratha alla notizia del «peggiore degli sbarchi» quello di Haftar a Roma, trapelata ad arte già  prima del fine settimana da Bengasi.
La città  costiera è considerata l’hub per eccellenza del traffico dei migranti diretti in Italia, da qui sono partite le decine di migliaia di persone in fuga dal «serbatoio africano».
Poi, a un tratto, il flusso è stato interrotto, in parte con la nuova missione italiana a sostegno della Guardia costiera libica. In parte con gli accordi «sotto traccia» tra italiani e figure di spicco che controllano quel tratto di costa (e di conseguenze i traffici che ospitano).
«I Dabbashi hanno riaperto i rubinetti dopo aver saputo dell’invito», ci spiegano in riferimento alla «famiglia» che controlla Sabratha.
Rispondono ad Ahmed Al Dabbashi, detto Al Amnu (lo zio), a cui sono legate la Brigata Anas Al Dabbashi (nome di martire di famiglia) che fa capo al ministero della Difesa, e la Brigata 48 che fa capo agli Interni.
Da loro dipende anche la sicurezza esterna dell’impianto libico dell’Eni di Mellita. Sono loro a fare il bello e il cattivo tempo a Sabratha come La Stampa ebbe modo di constatare, nell’aprile del 2016, incontrando proprio a Sabratha Fitouri El-Dabbashi, nipote dello zio che ebbe ruolo attivo nelle operazioni contro i rapitori dei quattro dipendenti italiani della Bonatti sequestrati dall’Isis.
«È chiaro che la ripresa dei flussi è stata agevolata da loro, e potrebbe non essere finita qui», spiegano fonti libiche secondo cui già  la missione lampo di Marco Minniti a Bengasi da Haftar aveva creato irritazione a Tripoli e Sabratha.
Da Roma giungono rassicurazioni: per l’unità  della Libia si dialoga con tutti, ma il Gna resta il governo riconosciuto e con cui il governo dialoga.
Ma anche in seno all’esecutivo c’è maretta: «L’invito ha spiazzato qualche ministro». Per di più alla vigilia dei lavori dell’Assemblea generale, dove la Libia rimane il primo dei dossier portati dall’Italia all’Onu.

(da “La Stampa”)

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LA ROTTA SEGRETA DEGLI SCAFISTI ITALIANI: “CON LORO NON RISCHI DI AFFONDARE IN MARE”

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

IL RACCONTO DEL VIAGGIO DI SARI VERSO LA SICILIA: “LE BANDE DI TRAFFICANTI IN TUNISIA SONO MOLTE”

Gli scafisti italiani sono una garanzia. “Con loro non rischi di affondare in mezzo al mare “. Gli scafisti italiani puntano sulla qualità . “Il gommone è nuovo, dentro è fatto di legno e ha un motore potente”.
Gli scafisti italiani viaggiano con un coltello lungo un braccio, e si sono messi in affari con criminali tunisini a cui non frega niente di chi portano in Sicilia. “Se fossi un jihadista “, osserva Sari, involontariamente lanciando un monito a chi si occupa di Antiterrorismo, “userei questa rotta per penetrare in Europa”.
IL CONTATTO COI TRAFFICANTI
Sari, per fortuna, un jihadista non è. È un quarantenne tunisino, intelligente e dai modi cortesi, che dopo la Primavera Araba si è convinto che l’unica soluzione sia lavorare in Italia, dove ha già  vissuto negli anni Novanta.
Parla bene la nostra lingua, ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca e non disdegna l’alcool: con calma ordina un paio di birre, al bancone di un bar di una cittadina del Basso Lazio, prima di attaccare il suo racconto.
“All’inizio dell’anno una mia conoscenza di Tunisi mi dice che ci sono italiani che stanno facendo le traversate fino in Sicilia con i motoscafi “.
È la rotta tunisina, la storica via dei contrabbandieri di sigarette e dei latitanti in fuga. E, da qualche tempo, anche la rotta di migranti irregolari come Sari.
“Trovo il contatto giusto, un mio connazionale che mi spiega come funziona: il viaggio costa 7.000 dinari (circa 2.400 euro, ndr) e i soldi li vogliono in anticipo. Se accetto, entro una settimana riceverò una telefonata e da quel momento avrò un’ora di tempo per presentarmi in un luogo prestabilito dove incontrerò l’italiano. Di lui non mi viene spiegato niente, solo che è un siciliano di poche parole “.
L’ITALIANO TACITURNO
Il cellulare di Sari squilla alle 18 di una serata tiepida della scorsa Primavera.
“Mi precipito all’appuntamento, portando uno zainetto con dentro il salvagente giocattolo di mia figlia. Appena mi vede l’italiano, un uomo grosso che avrà  avuto 35-40 anni, si incazza per lo zaino… ma che ci posso fare, non so nuotare! “.
Si ritrova in un gruppo di otto passeggeri, tutti tunisini: la comitiva vale quasi 20.000 euro. Un furgone senza finestrini li scarica su una spiaggia deserta, a un’ora di macchina da Tunisi.
“Credo fosse la zona di Plage Ejjehmi, perchè vedevo una collinetta con delle antenne. Il gommone era già  lì, smontato, nascosto nelle sterpaglie”.
Sari e gli altri, al buio, seguono gli ordini dello scafista italiano che ora è accompagnato da un tunisino che funge da traduttore: prima trasporteranno le taniche di benzina per una cinquantina di metri fin sulla battigia, poi il gommone, infine il motore. Insieme a loro, viaggeranno dodici scatoloni di sigarette di contrabbando che i due scafisti sistemano a prua.
IL VIAGGIO FINO A MARSALA
“Ci impongono di spegnere i cellulari e poco prima di mezzanotte partiamo. Il mare è piatto, neanche una motovedetta della guardia costiera mentre lasciamo la Tunisia”.
È l’italiano a pilotare il gommone. Davanti a sè ha messo una borsa frigo di plastica blu, il cui contenuto non è sfuggito a Sari: “Bottiglie d’acqua e un grosso coltello, forse un machete”. Il gommone accelera e rallenta di continuo. “L’italiano si orienta seguendo tre stelle “, intuisce Sari.
La notte sul Mediterraneo sembra non passare mai, gli otto passeggeri muti e intabarrati nei giacconi, i borbottii in dialetto siciliano dello scafista, il rumore del motore, il vento. “All’alba scopriamo che c’è una nave militare in lontananza, e per fortuna non ci avvista. L’italiano appoggia sulla borsa frigo una tavoletta di legno, con una bussola: l’ago punta tra i 58 e i 59 gradi. Il motore spinge al massimo, arriviamo nelle acque italiane che sono le 17, ma non attracchiamo: rimaniamo a largo, a motore spento, fino a dopo il tramonto.
Con l’oscurità  appaiono le luci delle automobili, sbarchiamo su una spiaggia dove ci sono delle persone. In un attimo i due scafisti riprendono il mare, io mi incammino solo tra gli alberi. Dopo qualche ora ho capito dov’ero: a nord di una città  chiamata Marsala. In Italia. In Europa”.
LA ROTTA DEI JIHADISTI
Chi fossero i due scafisti, e chi tra loro comandasse, Sari non l’ha capito. “Ma a Tunisi di bande di trafficanti formati da italiani e tunisini ce ne sono molte”, giura. Chi sono? Hanno legami con la Mafia? Trasportano terroristi? Una prima risposta l’ha data a giugno l’operazione della finanza “Scorpion Fish”, e non sono buone notizie. L’inchiesta del pool di pm palermitani Gery Ferrara, Claudia Ferrari e Francesca La Chioma ha portato all’arresto di 15 persone, tra cui diversi italiani, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contrabbando di tabacchi.
“Nella banda, che ha organizzato almeno cinque viaggi dalla Tunisia, gli italiani erano in posizione subordinata: pescatori, piccoli criminali non legati a Cosa Nostra”, sostengono gli inquirenti. I gommoni usati, al massimo della velocità , potevano coprire la tratta anche in meno di quattro ore
I vertici del gruppo, invece, avevano legami con sospetti jihadisti. Forse a qualcuno hanno anche fornito un passaggio. La rotta scoperta era esattamente la stessa percorsa da Sari.
Ce ne sono almeno altre due utilizzate, che partono dalle spiagge tunisine e arrivano a Mazara Del Vallo o più a est, nell’Agrigentino. Percorribili in poche ore. Sari mostra
sul telefonino filmati di suoi amici tunisini arrivati in tutta sicurezza, a bordo di questi gommoni moderni che non sono le carrette che partono dalla Libia, sono mezzi sicuri. Sembrano turisti, bivaccano e sorridono.
“Se fossi un terrorista – ribadisce Sari – utilizzerei questa rotta”.

(da “La Repubblica”)

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LE ZANZARE TIGRE CHE CI HA REGALATO IL COMUNE DI ROMA

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

LA MONTANARI HA DATO LE COLPE AD ANZIO, MA LA DISINFESTAZIONE MANCATA E’ COLPA SUA… COME I RITARDI NELL’ORDINANZA PER L’EMERGENZA A SETTEMBRE

«Roma è stata danneggiata dalle disinfestazioni inefficaci di altri comuni laziali»: quando non ci sono “amministrazioni precedenti” a cui dare la colpa il MoVimento 5 Stelle romano molla la storia e passa alla geografia: l’assessora Pinuccia Montanari, quella che non ha mai visto un topo a Roma, ha però scoperto di avere un grande spirito di osservazione e ha scaricato sul comune di Anzio la responsabilità  dell’emergenza chinkungunya con zanzara tigre annessa.
Durante il vertice di oggi la Regione chiederà  conto al Campidoglio del perchè dei ritardi nelle disinfestazioni partite dopo il 13 mentre la prima lettera della Regione è del 7, e perchè sulle 17 aree a rischio ne erano state fatte, almeno fino a un paio di giorni fa, 9.
La Regione ha chiesto pareri anche a tecnici dell’Istituto Superiore di Sanità  per capire se il metodo adottato è efficiente. Vuole sapere dove e come si è agito, se gli operatori Ama ad esempio sono intervenuti su tombini, nei canali.
«Roma con 2.875.364 abitanti ha subito 6 casi di contagio. Anzio, con 54.211 abitanti ha riscontrato 19 casi di contagio. Una parte dei cittadini romani che è risultata positiva alla Chikungunya era stata in vacanza ad Anzio. Mentre i nostri trattamenti preventivi a bassa tossicità  hanno funzionato molto meglio degli altri, ci chiediamo cosa hanno fatto le altre Amministrazioni per garantire la salute dei cittadini», ha detto la Montanari.
«I primi 3 contagiati non sono residenti ad Anzio, ma villeggianti di Roma — ha risposto Luciano Bruschini (FI), sindaco della cittadina — interventi straordinari larvicida e adulticida sono partiti la sera del 7, giorno in cui la Asl ci ha avvertiti per telefono del contagio: al contrario di Roma non abbiamo avuto bisogno di solleciti».
La verità : il comune di Roma ha sbagliato interventi
Chi ha ragione? L’ordinanza della sindaca per «la prevenzione e il controllo delle malattie trasmesse da insetti vettori ed in particolare la zanzara tigre» è del 26 aprile e fa seguito alla circolare 2017 del Ministero della Salute sul piano di sorveglianza e risposta alle arbovirosi (Chikungunya, Dengue e Zika).
Vengono prescritte limitazioni sui trattamenti adulticidi, contro le zanzare adulte. Non le larve, ma quelle che già  volano e pungono.
«Si può procede alla disinfestazione nelle aree verdi di pertinenza solo in presenza di manifeste condizioni d’infestazione con elevato disagio e comunque solo dopo aver effettuato idonei interventi preventivi».
Va dato un preavviso minimo di 7 giorni lavorativi prima di procedere all’adulticidio inviando un modulo al Comune con la scheda tecnica del prodotto utilizzato.
Prima di ottenere il permesso di nebulizzare le zone infestate quindi bisognava subire per giorni delle Aedes Albopictus di origine asiatica.
All’epoca uscirono articolo di sfottò nei confronti dell’amministrazione (“La Raggi vieta di uccidere le zanzare”, titolò Il Tempo) mentre Montanari & Raggi si vantarono della vittoria ottenuta al TAR sul ricorso delle imprese di disinfestazione.
Ma c’è di più: quegli interventi non sono mai stati eseguiti in quanto l’M5S ritirò la delibera di affidamento ad AMA per la derattizzazione e disinfestazione.
La verità : il Comune di Roma ha agito tardi
Ma c’è di più. Il Corriere Roma riepiloga oggi la cronologia degli eventi più recenti a partire dall’annuncio dell’epidemia di Chikungunya.
Il preallerta inviato dalla Regione al dipartimento tutela ambientale del Campidoglio è del 7 settembre, contemporaneamente all’accertamento di tre casi di malattia diagnosticati ad Anzio. Da allora è un ripetersi di notifiche di «casi sospetti di Arbovirosi» (la famiglia di malattie cui appartiene quella da Chikungunya) seguite da conferme di diagnosi con richiesta di «predisporre gli interventi di disinfestazione» indicati da una circolare del ministero della Salute.
Gli invii da parte della Asl Rm 2(quadrante sud e est di Roma) sono concentrati all’inizio della scorsa settimana. Nel fax dell’11 settembre l’oggetto è «urgentissimo». Viene richiesta «entro 24 ore la disinfestazione in un raggio di 200 metri dall’abitazione di via Lettopalena» dove risiede una persona che ha contratto l’infezione da Chikungunya.
La sindaca Virginia Raggi firma l’ordinanza che dà  il via agli «spruzzi» contro le zanzare adulte soltanto il 13 settembre pomeriggio, quando già  le autorità  competenti (Regione, centri trasfusionali, ministero)avevano deciso il blocco delle donazioni di sangue nella Asl Rm 2 oltre a restrizioni nelle zone non invase.
Già  il 6 settembre, dunque prima di Anzio, c’è traccia di «due casi autoctoni relativi a due componenti la stessa famiglia».
L’operazione è partita sistematicamente non prima del 14 mattina. Troppo tardi. Contro le Arbovirosi si deve agire entro poche ore.
C’è da segnalare che nella nuova ordinanza emessa dalla Raggi si va all’attacco delle zanzare adulte: in quella di aprile si segnalava come grande vittoria il fatto che venissero risparmiate.
In tutto ciò la Montanari continua a dire che ha ragione lei senza che le scappi da ridere, e questo è senz’altro un merito per l’assessora.
E ancora: attraverso la dirigente Rosalba Matassa, responsabile della direzione Benessere animali dell’assessorato, che comprende anche l’ufficio Specie problematiche, il Campidoglio ha spiegato a Repubblica le modalità  degli interventi di disinfestazione.
Le campagne contro le larve, partite ad aprile, sono effettuate con un prodotto biologico atossico, il bacillus thuringiensis. A questi interventi si aggiungono quelli mirati su segnalazione della Asl, che riguardano anche gli esemplari adulti della zanzara tigre. Niente bonifica diffusa, invece, delle aree verdi.
«Nelle aree verdi la zanzara tigre si rifugia di giorno, di notte torna ai tombini», ha sostenuto la dirigente.
Subito smentita da Alessandra Della Torre, docente di Parassitologia alla Sapienza: «Non è vero che di notte le zanzare si spostano nei tombini. Gli esemplari adulti vivono nelle aree verdi».
Quelle dove bisognava disinfestare.

(da “NextQuotidiano”)

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ROMA, L’EMERGENZA RIFIUTI A TOR BELLA MONICA E LE PROMESSE DELLA RAGGI

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

L’EMERGENZA CHE NON FINISCE MAI E LE STRADE SEMPRE SPORCHE

Anche il fiore all’occhiello della zona, viale Europa, da tempo è abbandonata al degrado. Come conferma il comitato di quartiere Vigna Murata: «Siamo preoccupati per il crescente stato di abbandono, non solo delle strade ma anche dei giardini pubblici. Abbiamo già  inviato diverse richieste di intervento ma a oggi non abbiamo ricevuto risposta».
Segnalazioni e richieste di intervento pure dal X municipio dove i residenti hanno più volte sollecitato gli enti competenti. «Da settimane viviamo con le strade sporche e le zone riservate alla differenziata ormai colme di spazzatura – , denunciano i responsabili del comitato di quartiere di Axa – Malafede Villa Fralana, – siamo esasperati. Abbiamo chiamato più volte sia l’Ama che il comune ma alle nostre richieste non è seguita alcuna risposta. Una vergogna». via flaminia
Ma la situazione più tragica è quella che il servizio del tg regionale ha mostrato a Tor Bella Monaca.
Qui, vicino ai palazzoni, gli abitanti del quartiere si lamentano dell’assenza della raccolta (“I camion passano ogni due o tre giorni”) e della condizione dimenticata dei parchi della zona, ormai trasformati in discariche abusive.
Tor Bella Monaca, dove vivono 28 mila romani, fa parte di una circoscrizione (Roma VI) di 300 mila abitanti.
Qui c’è il reddito pro capite più basso della capitale. Ma soprattutto, qui Virginia Raggi ha preso il 79% delle preferenze al ballottaggio contro Roberto Giachetti.
“Questa mattina sono arrivati subito i camion dell’Ama che hanno ripulito la zona, ma questo intervento deve considerarsi solo l’inizio”, diceva Raggi nel luglio scorso.
“Con Paola Muraro, con il presidente del Municipio e con l’assessore del Municipio abbiamo creato un piccolo pool per gestire questa situazione e dargli continuità  nel tempo. Non è più ammissibile che i nostri bambini siano costretti a vivere e giocare in queste condizioni: troppe persone, qui, come in altri quartieri della nostra città , vivono nel degrado. Ma attenzione, quello che ci chiedono i cittadini è di non fare la solita passerella”, sosteneva.
“Evidentemente sono abituati a questo, a politici che vengono, vanno, magari risolvono nell’immediatezza il problema e poi lasciano la città  comunque nel solito abbandono. Non è questo che dobbiamo e vogliamo fare, quindi partiamo da qui, dalle periferie, dalla Roma dimenticata, per ricominciare a ristabilire un po’ di ordine e normalità ”, annunciava.
Le periferie devono essere come il centro storico, aveva detto in un’altra occasione.
Questi sono oggi i risultati.

(da “NextQuotidiano”)

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ALLOGGI ABUSIVI: E’ NORMALE CHE ABBIANO LUCE, GAS E ACQUA?

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

COME IN ITALIA TUTTO E’ POSSIBILE

Provate a immaginare di entrare in un alloggio nuovo di vostra proprietà .
Aprite il gas e non arriva. Schiacciate l’interruttore della luce e non si illumina nulla. Girate il rubinetto e non scende l’acqua.
Un film dell’orrore? No, semplicemente questo dovrebbe essere lo scenario di uno che ha realizzato un alloggio abusivo.
E sì, perchè la legge non consente (ed è ovvio) di alimentare utenze al servizio di un fabbricato abusivo.
Lo prevede l’art. 48 del Testo unico in materia edilizia (D.p.r. 380/2001), che così recita: “E’ vietato a tutte le aziende erogatrici di servizi pubblici somministrare le loro forniture per l’esecuzione di opere prive di permesso di costruire, nonchè ad opere in assenza di titolo iniziate dopo il 30 gennaio 1977 e per le quali non siano stati stipulati contratti di somministrazione anteriormente al 17 marzo 1985. Il richiedente il servizio è tenuto ad allegare alla domanda una dichiarazione sostitutiva di atto notorio (…) indicante gli estremi del permesso di costruire”.
E allora cosa dobbiamo pensare?
Che uno che realizza un manufatto abusivo — a meno che non trasformi un magazzino o un rudere in villetta, nel qual caso le utenze già  le aveva — poi produca energia elettrica tramite un generatore a gasolio?
Che abbia una bombola del gas per farsi da mangiare, oppure cucini sopra una stufa a legna, che gli garantisce anche un minimo di riscaldamento?
Che abbia un pozzo da cui emunga l’acqua necessaria per cucinare, ma non certo per farsi la doccia, e così via?
Ovviamente non sarà  così. Dico “sarà ” perchè non conosco nessun furbastro che si sia costruito un alloggio in barba alle leggi.
Più facile immaginare che qualcosa non funzioni e che quell’abusivo riesca chissà  come a ottenere quei servizi che non dovrebbe avere, grazie alla superficialità  o alla compiacenza degli enti preposti.
E così possa usufruire tranquillamente di quella casa di cui — se tutto andasse invece come dovrebbe — non saprebbe che farsene. A questo caso si aggiunge, ovvio, anche quello che l’abusivo si allacci abusivamente, almeno per quanto riguarda l’energia elettrica.
Riassumendo.
Prima domanda: chi ha la disponibilità  di un immobile abusivo, come fa a ottenere le forniture?
Seconda domanda: ma gli enti preposti, una volta che la sentenza che accerta il reato è passata in giudicato ed è certo che l’abusivo è tale e non ha diritto alle forniture, gliele sospendono se gli sono state concesse, visto che sono fuori legge?
A maggior ragione se vi sono allacciamenti anch’essi abusivi.
Certo, la sentenza deve essere conosciuta dai soggetti gestori. Mi sono confrontato con un collega esperto di abusivismo che mi ha detto “la sentenza dovrebbe essere comunicata ai soggetti gestori dei rispettivi servizi, cosa che non viene fatta in genere. Dovrebbe essere il Comune che riceve la sentenza passata in giudicato, con l’ordine di demolizione e ripristino ambientale dalla Procura della Repubblica, a comunicare il fatto ai soggetti gestori, ma non viene fatto quasi mai”. Il perchè appare evidente: il sindaco ha semplicemente paura (ad essere benevoli) di lasciare degli abusivi senza le utenze, e quindi di rendere gli alloggi inutilizzabili.
Non mi paiono domande peregrine quelle che mi pongo sopra.
Nell’immaginario collettivo si dà  per scontato che una volta realizzato l’immobile se ne usufruisce a tutti gli effetti. Non è così, o, per lo meno, non dovrebbe essere così.
Si sarà  capito, a me la questione dell’abusivismo edilizio sta molto a cuore.
Anni fa partecipai alla nascita del coordinamento di Salviamo il paesaggio. Nonostante il diktat dell’Unione europea che fissa la data del 2050 per l’obiettivo “zero consumo di territorio”, nonostante l’Ispra che ci ammonisce circa il fatto che il consumo di territorio costituisce anche una perdita secca di denaro per la collettività , nonostante i morti delle alluvioni e dei terremoti dovuti in buona parte alla cattiva gestione del territorio, si continua a costruire.
E, soprattutto, si tollera che si costruisca in barba alle norme. E addirittura i politici, di qualsivoglia schieramento, sembrano voler tollerare o giustificare il fenomeno. Scusate la digressione e torniamo alle due domande di cui sopra.
Mi possono rispondere gli enti di servizio a vario titolo preposti?

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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QUEL MISERABILE ARROGANTE IN FERRARI CHE PARCHEGGIA NEL POSTO DEI DISABILI

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

VIA MONTENAPOLEONE, MILANO: IL PROPRIETARIO INSULTA E SPINTONA IL PADRE DEL RAGAZZO DISABILE PRIMA DI ANDARSENE

Una Ferrari blu che parcheggia nel posto riservato ai disabili di via Montenapoleone. Il proprietario che insulta e spintona il padre di un ragazzo disabile prima di andarsene.
L’auto ferma a cavallo di due posteggi che il tizio non voleva spostare davanti al civico 16.
La storia la racconta oggi il Corriere della Sera, che ci regala anche altre preziose informazioni su chi fosse l’uomo alla guida della Ferrari:
Storia miserabile di arroganza. Forse anche peggiore di quel cartello di offese gratuite lasciato a metà  agosto vicino a un posto per disabili, nel parcheggio di un centro commerciale a Carugate, in provincia di Milano (il cartello diceva: «A te handicappato che ieri hai chiamato i vigili per non fare due metri in più vorrei dirti questo: a me 60 euro non cambiano nulla, ma tu rimani sempre un povero handicappato»).
Stavolta il rigurgito di inciviltà  è esploso in strada,di persona, più sfacciato, se possibile anche più ignobile: tanto che qualcuno ha chiamato la polizia, segnalando l’aggressione. La Ferrari s’era già  allontanata.
Qualcuno però aveva annotato la targa.
Così i poliziotti si sono occupati prima di tranquillizzare il padre, e soprattutto di rassicurare il figlio, che era molto scosso.
Tra gli agenti arrivati in via Montenapoleone c’era un poliziotto esperto, Marcello Di Tana, al suo ultimo giorno di lavoro in Volante (ha da poco superato la selezione per passare a un altro reparto): si è staccato dalla divisa lo scudetto con «la pantera» e lo ha regalato al ragazzo.
Un gesto di umanità , racconta Gianni Santucci. Che poi ci parla del proprietario dell’autovettura:
La «FF coupè» aveva una targa svizzera, del Ticino. È intestata a un imprenditore milanese, 59 anni, residente a Lugano. Un nome con una storia che si sdoppia a cavallo del confine. Perchè in Italia l’imprenditore ha una serie di precedenti per lesioni, minacce, percosse, oltraggio a pubblico ufficiale. Non potrebbe guidare, perchè la patente gli è stata revocata (come il porto d’armi), anche se da un paio d’anni ha una licenza di guida svizzera.
proprio da Lugano partono altre tracce che portano nel mondo grigio della finanza internazionale: il nome dell’imprenditore e un paio d’aziende a lui collegate (con sede alla Isole vergini britanniche) compaiono infatti nei «Panama papers», il gigantesco archivio dello studio legale panamense «Mossack Fonseca», che per decenni ha creato e gestito decine di migliaia di società  offshore in cui sono confluiti patrimoni e ricchezze da mezzo mondo.
E’ probabile che fosse proprio lui a guidare in Montenapoleone, su quella macchina che costa più di 250mila euro.
Il padre di quel ragazzo aveva diritto a lasciare la sua auto in quel posteggio riservato,aveva chiesto semplicemente di spostare la Ferrari di qualche metro, ha ricevuto una risposta infastidita, è iniziata una discussione, finita con una violenta spinta. Il ragazzo era in auto e ha seguito l’aggressione a suo padre.

(da agenzie)

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UN DOCUMENTO CHOC ESCE DAL VATICANO: “OLTRE 483 MILIONI DI LIRE SPESI PER L’ALLONTANAMENTO DI EMANUELA ORLANDI”

Settembre 18th, 2017 Riccardo Fucile

SE VERO, APRE SQUARCI CLAMOROSI SULLA VICENDA… SE FALSO, SEGNALA UNO SCONTRO DI POTERE INTERNO

Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane.
Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l’obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. “Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati,” aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità , ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po’ tornai alla carica.
Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. “Te li do solo perchè credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia.”
Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro.
Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C’erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran.
Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un’altra sezione del dicastero della Curia romana che “più da vicino”, come spiega il sito del Vaticano, “coadiuva il Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione”.
Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l’estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi.
Il nome di Re era spuntato fuori già  dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997.
La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna.
Alla fine, l’autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, “come da richiesta”.
Leggo il testo della prima pagina tutto d’un fiato.
“Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città  del vaticano per le attività  relative alla cittadina emanuela orlandi (roma 14 gennaio1968),”, è il titolo.
“La prefettura dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività  svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi.
“La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda.
“Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell’impossibilità  di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso.
“L’attività  di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute.
“Il documento non include l’attività  commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al ‘Commando 1’, in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità  di denaro investita nell’attività  citata.
“I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità  di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate.”
La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997.
Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni.
Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire.
L’elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto.
La prima voce riguarda il pagamento di una “fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana”. La Orlandi, nell’ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire.
C’era un’altra spesa per la “preparazione all’attività  investigativa estera” costata altre 450.000 lire, uno “spostamento” da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le “rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra”.
Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l’indirizzo: a quello giusto c’è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini.
Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell’arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d’Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese).
La prima pagina si chiude con i costi per l’“indagine formale in collaborazione con Roma” (23 milioni) e con la misteriosa “attività  di indagine riservata extra ‘Commando 1′, direzione diretta Cardinale Casaroli”, per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all’inizio.
La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l’“allontanamento domiciliare” di Emanuela nel periodo “febbraio 1985-febbraio 1988”.
Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la “attività  investigativa relativa al depistaggio”, spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in “ginecologia”. Si parla di “un secondo” e di “un terzo trasferimento”, di decine di milioni di lire per “rette omnicomprensive” di vitto e alloggio.
Gli anni scorrono. Arrivo all’ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività  relative alla cittadina Orlandi e al suo “allontanamento domiciliare” si riferisce stavolta al periodo “aprile 1993-luglio 1997”.
Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con “il dettaglio mensile e annuale in allegato 22”) e ad altre “spese sanitarie forfettarie”, figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: “Attività  generale e trasferimento presso Stato Città  del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000”.
La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. “Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità  di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città  del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28.”
Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile.
Ma quasi incredibile nel suo contenuto.
Dunque, delle due l’una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede.
O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità  tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate.
In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante.
Perchè, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano.
Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto “interno” alla Città  Santa poteva conoscere così bene?
Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l’ha redatto con tale maestria, e chi l’ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?
Difficile rispondere ora a queste domande.
Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà  parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato.
O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri.
Ma se è così, perchè monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perchè ha parlato genericamente di carte “sgradevoli”?
È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, nè accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità  specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela.
Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica.
Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per “l’allontanamento domiciliare” della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti.
Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un’operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori.
La missiva è “presentata in triplice copia”, come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell’archivio dell’Apsa).
Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell’enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontifice commissioni.
Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983.
Perchè dimostrerebbe, in primis, l’esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato nè discusso con le autorità  italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina.
Perchè evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un’attività  investigativa propria, sia in Italia sia all’estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti.
Perchè il dossier citerebbe un fantomatico “Commando1” guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività  successive alla scomparsa della ragazza.
Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo “spostamento” la bellezza di 4 milioni di lire.
Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra.
Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese?
Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni “rette vitto e alloggio” elencate in un report che ha come titolo “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città  del Vaticano per le attività  relative alla cittadina Emanuela Orlandi” e per il suo “allontanamento domiciliare”?
Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra?
Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa WojtyÅ‚a, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, “presso la sede l. 21”, una “trasferta” da 7 milioni di lire?
Perchè e a chi, all’inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie — come segnala ancora l’estensore dello scritto — per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra?
Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla “dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology” dello stesso nosocomio un’ unica “attività  economica a rimborso” di cui il capo dell’Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i “dettagli in allegato 28”? (contattata da l’Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Eleonora)
La storia, secondo il documento, non sembra finire bene.
Perchè la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull’ “attività  generale e trasferimento presso Stato Città  del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali”.
Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perchè nel luglio 1997 la “pratica” di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa?
A metà  giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è ha conoscenza del documento misterioso.
La famiglia Orlandi ha infatti presentato un’istanza di accesso agli atti per poter visionare «un dossier custodito in Vaticano». Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività  inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento».
Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l’esistenza di qualsiasi carta riservata: «Abbiamo già  dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso». Anche il cardinale Re interviene, assicurando che «la Segreteria di Stato» di cui nel 1997 lui era sostituto «non aveva proprio niente da nascondere.
Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull “allontanamento domiciliare” di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità  che lui non ha.
L’inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: «Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone». Clic.
La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell’ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest’ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati.
Il test era monsignor Maurizio Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici.
La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell’ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014.
Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell’immobile e s’era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro.
A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda.
Il prelato spiega che nell’ufficio esisteva “un archivio riservato che era sotto la responsabilità  del segretario Balda”, custodito inizialmente “in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore”; aggiunge che “dopo il furto, l’archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo”.
Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte “portarono via soldi e delle monete, dall’armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell’archivio riservato… alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero”.
Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già  raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo.
Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal “Banchiere di Dio”, Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore — insieme a Licio Gelli — della loggia massonica deviata P2.
“Cosa c’era nel plico?” chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. “Documenti di dieci, vent’anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore,” risponde il prelato. “Nel riordinare i fogli dopo l’effrazione, vidi che gli atti contenuti nell’archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato,” ma a fatti che il monsignore definisce “sgradevoli”. “Sgradevoli,” ripeto tra me e me.
Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà  altre motivazioni.
Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte.
Cominciai a leggere il volume della Chaouqui…Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l’effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un’accusa pesantissima.
Balda, che era già  stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell’ufficio, ha sempre negato ogni addebito…
L’avvocatessa calabrese — che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione — è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l’effrazione.
E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti “sgradevoli”, la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: “Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C’è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un’eredità  ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese ‘politiche’ di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarność. C’è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C’è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta”…
Ora ho deciso di pubblicare il documento.
Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l’hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città  sacra.
Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta.
E gli impostori sarebbero loro.

E. Fittipaldi
(da “L’Espresso”)

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