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QUEI RAGAZZI CHE VIVONO NELLE VISCERE DI ROMA: BAMBINI E ADOLESCENTI INVISIBILI, MIGRANTI E ITALIANI, INTEGRATI NELLA DISPERAZIONE

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

ECCO COME VIVONO NEGLI EDIFICI ABBANDONATI E NEGLI ANFRATTI DI UNA CAPITALE CHE NON SI ACCORGE DI LORO (NEANCHE LA SEDICENTE DESTRA SOCIALE)

Quaranta gradini sotto la città .
Inclina la tanica con fatica, con una mano raccoglie un filo d’acqua e si bagna il viso. La luce dei fari delle auto filtra da un’apertura ricavata tra il sottopasso e un cartone.
Fuori il rumore dei clacson, di chi litiga per passare prima. Una finestra sul Muro Torto, una delle strade più trafficate di Roma, scavata sotto Villa Borghese e la Dolce Vita che fu.
Dentro quella che era stata costruita come via di fuga in caso di incidenti, due materassi, una confezione (vuota) di sottilette, stracci sporchi di melma.
«Mi lavo qui sotto, così non mi vedono». Maria fissa immobile quello che era un cartellone, due gambe che pubblicizzano una crema idratante. Lo alza, scansa bottiglie rotte. «È buono per dividere lo spazio», spiega.
Maria ha quindici anni e i capelli neri a caschetto. Arriva da Napoli. Ha preso un treno la settimana scorsa e s’è fermata qui.
Un gradino alla volta, l’odore di urina diventa sempre più acre. «La strada m’ha imparato che pure se sto da sola non sto sola», si sente dalla cima delle scale. La sigaretta rischiara un volto acerbo e i denti incisivi spezzati. Anna è romana, ha diciassette anni e il pancione. Aspetta una bambina. È al settimo mese.
Una tavola di legno adibita a letto
Anna è uno degli adolescenti nascosti nelle viscere di Roma, alla ricerca di un posto dove salvarsi. Incistati tra le mura sbrecciate di case in rovina, abbandonati come gli edifici in costruzione, dove dormono vestiti, arrotolati nelle coperte: in tre su un materasso, due distesi e uno di traverso.
Esistenze condivise con i topi.
In fuga da famiglie che non ci sono, assistenze pubbliche che non assistono, carenze di personale, controlli che latitano, centri che dovrebbero accoglierli e li considerano come cambiali da riscuotere.
Uno entra; un altro esce. Italiani e migranti, integrati nella disperazione.
«Dicono che la casa famiglia è un posto in cui ti senti in famiglia, ma io non mi ci sono mai sentita». Anna, si accarezza la pancia e scuote il “chiama angeli”, un ciondolo per infondere calma e armonia al nascituro. Se l’è fatto da sola. Prendendo un campanellino da un vestito rotto.
Ha vissuto con la madre fino a tredici anni, il padre l’ha visto poco: «non ci siamo mai piac…». Si interrompe, quasi a non poter ammettere la realtà . «Mia madre dicono che ha problemi di emotività ». È proprio lei a chiedere aiuto ai servizi sociali. La portano in una casa famiglia e per un po’ le cose sembrano andare bene.
«Poi un giorno l’operatrice mi ha detto una cosa brutta: che mia madre non poteva decidere nulla di me. Ho aperto la porta e sono andata via».
Scappa, viene ritrovata dalla Polizia e inizia il suo peregrinare. Approda finalmente in un posto in cui si sente accolta, ma dopo un mese e mezzo la spostano. Non sa il perchè. Spedita fuori Roma. Pochi giorni e la rintracciano addormentata su una panchina. Da lì ancora dentro una struttura. E subito dopo di nuovo in strada. «Piangevo, guardavo la televisione e non sapevo che fare. Non ho ancora preso la terza media. Alla fine ci rinunci: è normale. Ti viene spontaneo, ti butti per strada».
Tre anni di vita ai margini. La madre quando la incontra le dà  tutto quello che ha: qualche euro e un abbraccio.
«Mi campo da sola», sentenzia come a voler tenere lontano quel mondo di grandi che per lei non c’è.
Maria dei genitori invece non parla. Se ne sta seduta a terra e mangia una merendina presa con due euro al distributore. «La famiglia l’ho trovata in giro. Qui devi stare attenta alle tue cose, se hai soldi in tasca te li rubano. Però se ho fame i miei amici mi aiutano». Qui sotto la breccia di Porta Pia. Accanto all’ambasciata inglese. A due passi dal ministero dei Trasporti e da quello dell’Economia. Lungo via XX Settembre, sempre affollata di turisti con il naso all’insù.
«Vedi: anche gli italiani sono come noi; dormono per strada». Mohamed ha la camicia a scacchi, sempre la stessa, e le scarpe consumate.
È arrivato da solo in Italia, a 13 anni. «Spaccio solo hashish. Lavoro; non rubo», ci tiene a specificare. Poi chiede: «Dov’è Ahmed?». «L’hanno arrestato», risponde Tommaso. Lui è rom e ha una sua regola: «Rubare va bene, ma non gli scippi. Gli scippi si fanno con violenza, i borseggi invece con destrezza».
Tommaso ha anche una famiglia e prova pena per questi ragazzini infagottati in mezzo alla strada. Vive in un container a Castel Romano, fuori dalla città . Un campo regolare, voluto dal comune di Roma, con la sorveglianza gestita dai Casamonica ai tempi di mafia Capitale e l’acqua potabile che manca da sei mesi.
Il centro di pronta accoglienza per minori disagiati lo conosce bene: «le guardie mi hanno portato tante volte. Ti fanno le foto, ti lavi, che fa comodo, e poi esci». Una farsa.
Dopo poche ore il cancello elettronico si apre e loro scappano. E intanto le casse del Comune sborsano 60 o 70 euro al giorno per ogni minore. Per garantirgli un posto sicuro e un percorso educativo.
«Uno è costretto a spacciare, a fare piccole truffe per mangiare», racconta Anna. Mohamed annuisce e dice: «Se mi prendono io glielo dico che preferisco il carcere». Melatonina schiacciata venduta come se fosse droga. «Ne voleva per 60 euro, ma gliene ho data solo per 45; non so mica che effetti gli fa».
Mohamed divide i soldi: 25 per sè e 20 per quello che l’ha rimediata. Stasera ha un posto confortevole dove dormire: per 30 euro un cinese affitta camere senza documenti a due passi dal giardino davanti alle Terme di Diocleziano.
Nel luogo esatto in cui L’Espresso aveva denunciato     già  nel febbraio 2016, la presenza di minori stranieri non accompagnati, costretti a rubare e prostituirsi per mangiare. Intontiti da psicofarmaci per sopravvivere a fame e dolore.
Il buco sotto la grata dove avevano trovato rifugio Fathi e Abdul è stato chiuso dall’Ama, la municipalizzata dei rifiuti.
L’altro, dove c’erano i bagni e che qualcuno aveva trasformato in dormitorio, è stato incendiato. Restano un tavolino con i vetri infranti, un paio di forbici aperte, una guida di Roma stracciata, coperta da uno slip con su scritto “uomo”. Nessuno dorme più qui. Alcuni bambini sono in casa famiglia, altri in carcere, altri ancora si sono semplicemente spostati poco più in là .
«La storia si ripete. Per essere più forti dell’indifferenza dobbiamo coinvolgere tutte le istituzioni e le organizzazioni che possono fare la differenza per Anna e sua figlia, per Maria, Mohamed, Ibrahim. Sono esseri umani che rendiamo invisibili con la nostra noncuranza. Così non difendiamo la nostra presunta civiltà , ma la distruggiamo», si arrabbia Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia.
Restano gli orchi che abusano di loro. La polizia si dà  da fare per prenderli. Ma anche quando li colgono in flagrante è la legge che li rimette in libertà .
È successo per l’ingegnere americano in pensione che durante le sue vacanze dell’orrore romane comprava i loro corpi. Il motivo? Un vuoto legislativo: il ragazzino abusato aveva 13 anni e nessun genitore disposto a sporgere querela.
«Io ci ho sofferto. Persone che ho voluto bene le ho viste con loro.   Perchè sono costretti a farlo? Perchè non hanno soldi e quelli gli danno 100 euro», spiega Anna.
Dietro l’angolo spunta il suo ex fidanzato, il padre della bambina che ha in grembo. È egiziano, arrivato da minorenne, ma ora maggiorenne. Si arrabbia con lei. La prende per un braccio e la trascina. Lei si guarda la pancia e esclama: «Soffro perchè nascerà  senza papà  come me».
Anna ha le braccia con ancora i segni dei tagli e sedici punti in testa che mostra con dignità . «Me l’hanno rotta. L’amore è cieco. Ti mena, poi ti chiede scusa. Io non ho chiamato le guardie, se no dicono che sono un’infame, però quando mi menavano nessuno si metteva in mezzo e non potevo chiamare mamma. Piangevo e basta». Veronica è una sua amica, italiana anche lei. Ha quindici anni, le snikers colorate e s’è fidanzata con un egiziano che ha il divieto di dimora a Roma. E a Roma sta. Le tocca la pancia: «Vado a prenderti qualcosa di dolce, così se lo mangi la bambina si muove».
In fondo alla strada tre ragazzi scappano, uno resta a terra, l’hanno accoltellato.
Ibrahim li guarda e non si muove. È arrivato da un giorno e sulla mano ha impresso un morso. Dice di avere 14 anni, ne dimostra anche meno. Anna si avvicina e gli parla in arabo. «L’ho imparato per strada, sentendo gli amici. Lui è egiziano, non come Mohamed che è tunisino», spiega.
Ibrahim non vuole mangiare, si scusa perchè non ha i soldi. Lei tira fuori 5 euro dal reggiseno, compra falafel da un siriano dietro la basilica di Santa Maria Maggiore e spiega: «Se io aiuto, dopo ci sarà  qualcuno che aiuterà  me».
Come fosse una mediatrice, gli spiega che può andare alla polizia, chiedere di farsi portare in una casa famiglia. Ibrahim al commissariato Viminale entra da solo, con in mano il foglietto preparato da Anna per farsi capire. Lei ad andare al commissariato non ci pensa proprio. L’hanno già  presa una volta. Arrestata per due giorni: «piangevo come una matta».
Anna si siede per terra. È stremata dalla fatica. Vomita e nessuno si avvicina. Ha paura. Paura che le portino via la figlia. «Non è giusto», dice con un filo di voce. «Vorrei tanto dire al giudice che nessuno mi ascolta. Questa bambina m’ha cambiato la vita, m’ha evitato de sta’ per strada, de fumà  le canne, de fa’ tante cose che facevo prima e non faccio più».
Ora la sera torna a casa dalla mamma; qualche volta dorme da amici. Sogna «de anna’ a vede’ un lavoro, de fa’ una vita come fanno tutti. Di riuscire a prendere la terza media». Desideri di una bambina ormai donna, che si fanno disperazione davanti al rischio che la sua storia si ripeta.
Sullo status di WhatsApp ha messo la data di nascita prevista per la bambina tra due cuoricini. Ha deciso. La chiamerà  Malek, «perchè in arabo vuole dire angelo».
I rifiuti di oggi volano giù e finiscono insieme a quelli di ieri. Inghiottiti nel sottopasso. Maria e gli altri sono già  scesi.

(da “L’Espresso”)

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AUTISTA DI CHINNICI: “RIINA? UN PEZZO DI MERDA, PORTO SULLA PELLE LE FERITE CHE MI HA PROVOCATO”

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

GIOVANNI PAPARCURI E’ L’UNICO SOPRAVVISSUTO ALLA STRAGE IN CUI PERSE LA VITA IL GIUDICE: “NELLA VITA SI PUO’ SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE, IO HO SCELTO LA GIUSTIZIA, ORA LUI TORNA A ESSERE NESSUNO”

“La sua morte? Mi lascia totalmente indifferente. Queste persone vanno dimenticate, l’unica cosa che meritano è l’oblio”. Giovanni Paparcuri era l’autista del giudice Rocco Chinnici ed è l’unico sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico, a Palermo, in cui – nel 1983 – furono uccisi il giudice, gli uomini della sua scorta e il portiere della casa dove il magistrato viveva.
Con queste parole ha commentato con l’AdnKronos la morte di Totò Riina.
“Io porto ancora sulla mia pelle le ferite che mi ha provocato, 15 schegge in testa e una protesi alla mano. Per me Riina era un pezzo di m…, un mafioso come un altro che noi con le fiction e i servizi a lui dedicati abbiamo fatto diventare il capo dei capi. Adesso torna a essere nessuno”, ha continuato Paparcuri.
L’uomo, che oggi cura il museo dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che si trova all’interno del Tribunale di Palermo, ha aggiunto: “Nella vita si può scegliere da che parte stare. Riina ha scelto di vivere da latitante, di uccidere innocenti e di portare nella tomba i suoi segreti. Io, invece, ho scelto la giustizia, ecco perchè per me lui non era nessuno”.
Con la scomparsa del capomafia, la criminalità  organizzata non morirà . Ne è sicuro Paparcuri, che conclude: “La mafia non muore con Riina, non illudiamoci, c’è sempre un ricambio generazionale e forse adesso si aprirà  la guerra per la successione. Quello che succederà  adesso è tutto da decifrare”.

(da “Huffingtonpost”)

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IL TRISTE SPETTACOLO DI QUELLI CHE INNEGGIANO A TOTO’ RIINA SU FB

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

CHI NE TESSE LE LODI E CHI LO RITIENE UN ESEMPIO PER TUTTI GLI UOMINI D’ONORE

Qualche tempo fa, quando si venne a sapere che Totò Riina era gravemente malato, in molti iniziarono a discutere sul fatto che forse era il caso di revocare il 41bis al Capo dei Capi di Cosa Nostra.
La tesi era che ormai Riina era anziano — e per di più in precarie condizioni si salute — e che quindi non avrebbe più potuto far male a nessuno.
C’è chi ha chiesto che a Riina venissero dati i domiciliari mentre la maggior parte si sarebbe accontentata di un regime carcerario “più blando”.
Il punto che è sfuggito a tutti è che il regime carcerario al quale era sottoposto Riina non aveva a che fare con la sua salute nè influiva negativamente sulla possibilità  di ricevere cure.
Prova ne è il fatto che Riina sia morto oggi non in una cella senza luce dove veniva nutrito a pane e acqua e tenuto in catene ma nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma dove nei giorni scorsi aveva subito due interventi chirurgici.
Ieri quando ormai era chiaro che le sue condizioni erano disperate, il ministro della Giustizia ha concesso ai familiari un incontro straordinario col boss.
Non si può quindi dire che a Riina sia stato negato alcun diritto tra quelli previsti alle persone nella sua condizione. Che era duplice: da un lato quella più “umana” di persona anziana, malata e in fin di vita. E quella di detenuto al 41bis: Riina stava scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del ’92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino e quelli del ’93, nel Continente.
Stragi e crimini per i quali Riina non ha mai mostrato alcun segno di pentimento. Riina non si è mai pentito e ha addirittura negato di aver mai sentito parlare di un’organizzazione criminale come Cosa Nostra.
Al di là  dei suoi crimini la sua vita in carcere ha sempre rappresentato un esempio di come si dovrebbero comportare gli “uomini d’onore”. Quelli che non parlano mai, anche quando lo Stato ti giudica, ti condanna e ti rinchiude in carcere.
E che Riina non si sia pentito e non abbia parlato è la sua “qualità ” più nota e apprezzata in certi ambienti.
Ma non sono solo quelli di Cosa Nostra, dei mafiosi e dei criminali, perchè la cultura del silenzio e dell’omertà , del non essere infami va ben oltre i confini — giuridici e non — di chi viene accusato di associazione mafiosa
Quelli che piangono la morte di Zù Totò
Non deve sorprendere quindi che i giudici ritenessero che Riina fosse ancora in grado — se messo nelle condizioni di farlo — di guidare Cosa Nostra.
E non sorprende quindi nemmeno che in molti oggi abbiano deciso di rendere omaggio al Boss.
Quasi tutti ricordano la caratteristica principale del Riina mafioso: il suo silenzio “d’oro”, l’essere un vero uomo che ha a insegnato ai posteri come si muore in cella. Senza fare nomi, senza chiedere scusa, senza pentirsi.
Riina avrà  ammazzato anche tantissima gente innocente “ma stava per cambiare l’Italia”. Anzi, se non l’avessero arrestato “a quest’ora stavamo meglio”.
C’è chi però, pur rendendo omaggio al Boss si sente in dovere di distinguersi e ci fa sapere che “non condivido l’uccisione di quel bimbo nell’acido”.
Il bimbo è Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino Di Matteo, ex mafioso e collaboratore di giustizia che fu punito da Riina per “aver parlato”.
L’uccisione di Di Matteo, dalla quale alcuni utenti fanno sapere di voler prendere le distanze perchè “contro la legge della Mafia”, è stata funzionale al mantenimento del “codice d’onore” e del silenzio al quale Riina ha aderito fino al suo ultimo giorno di vita.
Magari ci fossero altri grandi uomini come Totò Riina, scrive qualcuno mentre altrove si piange la dipartita del “super boss” che ha fatto la storia.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’idolatrare una figura come quella di Riina. Soprattutto perchè chi lo fa sa benissimo — e non lo nega nemmeno — quali sono i crimini di cui si è macchiato Zu Totò.
Crimini che Riina non ha mai ammesso di aver compiuto. L’Italia è più sicura ora che Riina è morto? No. E non è nemmeno un Paese “meno mafioso”.
Ma questo non toglie che Riina sia stato il protagonista di un periodo storico in cui la Mafia uccideva alla luce del sole.
Paradossalmente i meriti riconosciuti sui social a Riina sono proprio quelli che lo hanno reso inviso ad una parte importante di Cosa Nostra, quella che non voleva che sull’organizzazione si facesse troppo clamore, che temeva che “per colpa delle stragi” i mafiosi non potessero fare affari tranquillamente.
Finita la stagione delle stragi la Mafia non è scomparsa e non è stata sconfitta. È stato sconfitto Riina, ma quell’organizzazione di cui lui giurava di non aver mai nemmeno sentito parlare — se non dai giornali — ha continuato a prosperare, in Sicilia e nel resto del Paese.

(da “NextQuotidiano”)

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SI APRE LA CORSA ALLA SUCCESSIONE DI RIINA: CON UN UNICO CANDIDATO CHE PERO’ A LUI NON PIACEVA TROPPO

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

24 ANNI DI CARCERE DURO SENZA PENTIRSI DI NULLA

Totò Riina è morto senza pentirsi e si porterà  nella tomba tutti i segreti della sua carriera criminale. Secondo la DIA il capo dei capi continuava a rimanere al vertice dell’organizzazione criminale, «a conferma dello stato di crisi di una organizzazione incapace di esprimere una nuova figura in sostituzione di un’ingombrante icona simbolica». 26 ergastoli e 24 anni di 41 bis non sono riusciti a fiaccare la volontà  di Totò u’ curtu.
Il Messaggero racconta di un’intercettazione in cui si nominavano lui e Bernardo Provenzano:
Qualcuno ha anche pensato a un rilancio, immaginando la fine naturale dei due anziani capimafia come l’unica possibilità  per “rinascere”. E i carabinieri del Ros ne hanno trovato conferma in una intercettazione registrata circa un anno fa: a parlare era Santi Pullarà , figlio di Ignazio, reggente del clan di Santa Maria di Gesù. «Minchia — dice hai visto Bernardo Provenzano? Sta morendo, mischino. Se non muoiono tutti e due, luce non ne vede nessuno: è vero zio Mario?».
E lo “zio”, alias Mario Marchese, considerato l’ultimo boss di Villagrazia: «Lo so, non se ne vede lustro — mostra di essere d’accordo — e niente li frega. Ma no loro due soli, tutta la vicinanza». Come dire che per rilanciare Cosa nostra, dovrebbero morire Riina e Provenzano, ma anche gli altri padrini storici.
Qualche mese fa, durante una visita in carcere con la moglie Ninetta ha ribadito: «Io non mi pento… a me non mi piegheranno. Io non voglio chiedere niente a nessuno, mi posso fare anche 3000 anni, no 30 anni».
I suoi ordini, spiega oggi Giampiero Calapà  sul Fatto, gli sopravvivono: anche i 200 chili di tritolo ordinati per Nino Di Matteo, rimarranno in attesa.
Ma la cupola non si riunisce più dal 15 gennaio 1993, data del suo arresto. Secondo i magistrati di Palermo in questi ultimi anni in Cosa nostra non ha davvero prevalso la strategia della “sommersione”, ma più semplicemente la “piovra” è ancora in difficoltà  dal punto di vista militare dopo la repressione dello Stato negli anni 90; ma i capi mandamento sono alla finestra per capire l’evoluzione politica del Paese, da che parte schierarsi cercando sponde o come e quando attaccare.
Non c’è però discussione sul suo successore: Matteo Messina Denaro ha già  raccolto idealmente il testimone di Riina, che non ebbe nemmeno Bernardo Provenzano a cui i capi mandamento si sono sempre rifiutati di obbedire.
D’altra parte, proprio dal carcere, il16 novembre del 2013, giorno del suo compleanno come ieri, tre anni prima di entrare in coma, Riina pronuncia la sua sentenza di morte contro Nino Di Matteo: “Organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non parliamone più ”.
Già  qualche giorno prima,il 26 ottobre, aveva detto al suo compagno di passeggiate nell’ora d’aria, riferito a Di Matteo: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono”.
Perchè “ne dovrebbero nascere mille l’anno come Totò Riina ”(18 agosto 2016), ma così non è, sostiene, ed è per questo motivo che il boss di Corleone non ha mai passato davvero la mano. L’erede al trono, però, Matteo Messina Denaro, “è l’unico che adesso può reclamare il potere su tutti i capi mandamento”, spiega più di un inquirente al lavoro sulle mafie.
Il 4 settembre 2013 Riina in carcere dice: “Una persona responsabile ce l’ho e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo, che io non so più niente. L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perchè era dritto… Non ha fatto niente… un carabiniere… io penso che se n’è andato all’estero”.
Una sorta di scomunica per l’unico in grado di prendere le redini di Cosa Nostra, che però resta l’unico e adesso ne avrà  la vera occasione. Di Cosa Nostra e delle altre mafie, perchè proprio Riina negli anni 80 affilia a Cosa Nostra famiglie di Napoli (come prima aveva già  fatto Luciano Liggio con i Nuvoletta) e “perchè dal punto di vista simbolico era percepito — spiega un’altra fonte —come una sorta di vertice di tutte le organizzazioni mafiose”.
Il capo dei capi, appunto.

(da “NextQuotidiano“)

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“ESTRANEO AI FATTI CHE MI CONTESTATE”: MA FINI NON CONVINCE I PM

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

“NON SAPEVO CHE CI FOSSE MIO COGNATO DIETRO L’ACQUISTO DELLA CASA DI MONTECARLO E NON CONOSCEVO I SUOI RAPPORTI CON CORALLO”… I PM “ERA PERFETTAMENTE CONSAPEVOLE, FECE APPROVARE LEGGI AD HOC”

«Non ho commesso alcun riciclaggio. Sono totalmente estraneo ai fatti che mi contestate. Assolutamente innocente». Si è difeso così l’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini ieri pomeriggio davanti al procuratore aggiunto della Dda di Roma, Michele Prestipino e al pm Barbara Sargenti che gli contestano il reato di concorso in riciclaggio insieme a sua moglie Elisabetta Tulliani, al padre della stessa, Sergio, e al fratello di Elisabetta e cognato di Fini, Giancarlo arrestato dieci giorni fa a Dubai con l’ipotesi di aver veicolato all’estero denaro proveniente da presunte operazioni illecite del “re delle slot”, Francesco Corallo.
L’interrogatorio di oggi è l’ultimo atto del procedimento, per il quale la procura di Roma ha già  notificato l’avviso di chiusura delle indagini preliminari, provvedimento solitamente propedeutico alla successiva richiesta di rinvio a giudizio.
L’inchiesta della Dda di Roma nasce da alcuni accertamenti sull’imprenditore dei videogiochi Francesco Corallo (anche nei suoi confronti oggi la procura ha notificato la chiusura indagini).
L’indagine ruota principalmente attorno al famoso appartamento di Montecarlo (che una contessa aveva lasciato in eredità  ad An) che Giancarlo Tulliani acquistò con i soldi di Corallo attraverso la creazione di due società  off-shore, la Printemps e la Timara: poco più di 300 mila euro nel 2008 quando la cessione dell’immobile nel 2015 fruttò un milione e 360 mila dollari.
Un’operazione di compravendita che Fini avrebbe autorizzato senza sapere (così si è giustificato davanti ai pm quando venne interrogato) che dietro c’era suo cognato.
L’ex leader di An ha anche spiegato a suo tempo di essere all’oscuro dei legami finanziari esistenti tra il «Re dello slot», Corallo e la famiglia Tulliani, ma le sue parole non sembrano aver convinto i magistrati.
Secondo i magistrati, invece, un ‘fiume’ di denaro sarebbe entrato nelle tasche dei Tulliani grazie a Corallo, la cui attività  imprenditoriale sarebbe stata agevolata da leggi ‘ad hoc’ approvate quando il partito di Fini era al governo. E che l’affare immobiliare, realizzato «alle condizioni concordate con Corallo ed i Tulliani», venne deciso proprio dall’esponente politico «nella piena consapevolezza di tali condizioni».
Inoltre con decreto del gip erano state sequestrate due polizze vita del valore di quasi un milione di euro a Fini, e beni per oltre 7 milioni di euro ai Tulliani.
Secondo il capo d’imputazione il «re delle slot» Francesco Corallo e l’ex parlamentare di An, Amedeo Laboccetta si sarebbero associati in maniera illecita tra loro con la complicità  di Theodoor Baetsen, Alessandro La Monica, Arturo Vespignani, e Lorenzo Lapi per commettere reati quali il peculato e il riciclaggio.
Secondo l’accusa dunque l’associazione si sarebbe appropriata di oltre 85 milioni di euro riciclandone poi circa la metà  dalla società  di Corallo (Atlantis/BPlus) verso un conto corrente estero (nelle Antille Olandesi) sempre riferibile al gruppo Corallo.

(da “La Stampa”)

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FINISCE A QUERELE L’IMBARAZZANTE FOTO DELLA MELONI CON UNO DEGLI SPADA

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

TONINELLI (M5S): “MELONI E LA SUA CANDIDATA A OSTIA VICINO AGLI SPADA, PER QUESTO NON HA PARTECIPATO ALLA MARCIA PER LA LEGALITA'”… MELONI: “LO QUERELO PER DIFFAMAZIONE, SPADA SI E’ INFILATO NELLO   SCATTO O L’HA MANDATO QUALCUNO”

Mentre in piazza Anco Marzio i cittadini manifestano per la libertà  di stampa e contro le mafie, è scontro tra i partiti dei due candidati al ballottaggio in programma domenica, M5s e Fratelli d’Italia, su foto e presenze degli Spada su Facebook. L’immagine contesa è quella in cui appare Giorgia Meloni con Silvano Spada.
La Meloni si difende: “Tra le centinaia di foto che ogni giorno faccio in giro per l’Italia c’è anche questa foto, scattata quando ho visitato ad Ostia la sede di un’associazione che si occupa di disabili, che mi ritrarrebbe con una persona (che come chiaramente si vede si è infilata nella foto come fosse il Paolini della situazione, se non è stato mandato da qualcuno) che dicono faccia ‘Spada’ di cognome”.
La foto non è passata inosservata ai grillini, che hanno rilanciato sui social l’immagine attaccando un po’ tutti del centrodestra, dalla candidata Monica Picca alla stessa Meloni. Che ha poi annunciato querela contro il deputato grillino Danilo Toninelli.
“Ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela. Delle sue illazioni diffamatorie e infamanti ne risponderà  in tribunale”, dice Meloni in riferimento al tweet in cui Danilo Toninelli scrive: “Avevamo ragione a dire che la Meloni e la sua candidata a Ostia fossero vicine agli Spada. Questa foto ne è la prova. Ecco perchè non si sono presentate alla marcia per la legalità  di alcuni giorni fa! Con che faccia possono chiedere il voto ai cittadini del X Municipio?!”.
Ma cosa dice l’interessato, ovvero Silvano Spada?
In parte smentisce la Meloni, nessuno l’ha mandato e non si è imbucato: “Erano sotto casa mia, ho chiesto di fare una foto, non vedo cosa ci sia di male”.

(da “La Repubblica”)

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CI MANCAVA LO SHOW DI DOMENICO SPADA IN TV A LA7 : “LA MAFIA NON SIAMO NOI, E’ LO STATO”

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

IL CUGINO DI ROBERTO, CONDANNATO A SETTE ANNI PER ESTORSIONE E USURA, PRIMA VA IN DIRETTA A PIAZZAPULITA. POI SU FB SI ARRABBIA PERCHE’ NON LO HANNO FATTO REPLICARE

Domenico Spada detto Vulcano, cugino di Roberto, pugile ed ex campione del mondo Silver, ieri ha partecipato in collegamento a Piazzapulita dopo l’intervento a La Zanzara di qualche giorno fa, e ha dato spettacolo successivamente sul suo profilo Facebook pubblicando un video in cui attacca Federica Angeli di Repubblica Roma e si lamenta perchè non l’hanno fatto replicare: «La mafia non siamo noi, è lo Stato. Ma la Angeli chi accusa? Gli Spada o quelli che non fanno il loro lavoro? È arrivata la paladina della giustizia; la Federica Angeli è una tristezza infinita»
Poi Domenico Spada mostra una fotografia che lo ritrae durante una premiazione con il ministro Graziano Delrio e dice che «dobbiamo combattere il bullismo. Mi hanno fatto aspettare ma non mi hanno fatto replicare. Vogliamo dire che La7 è appoggiata dai mafiosi? Ci ho lavorato per due anni come commentatore sportivo. Spero che mi invitino in studio a confrontarmi con Federica Angeli. Questa non è democrazia, ragazzi miei. Come devono crescere i miei vulcanini?».
Poi l’annuncio: «Per questo abbiamo fondato una lista civica meritocratica: dobbiamo dare a chi merita, non agli pseudogiornalisti, agli pseudo dello Stato…».
E ancora: «La Angeli è una millantatrice, una bugiarda… soltanto lei è la paladina di Ostia?». Il tutto in mezzo a un centinaio di appelli a condividere il video.
Addirittura alla fine interviene quello che sembra essere uno della troupe di La7 che dice che lavora da tanti anni nel settore e tutti si lamentano perchè non li fanno replicare in studio.
Durante il dibattito a Piazzapulita su La7, Domenico Spada, condannato in primo grado a sette anni per estorsione e usura e nipote di Vittorio Casamonica (quello del famigerato funerale a Roma, a cui lui non presenziò perchè agli arresti domiciliari), ha detto che ha condannato il cugino per la testata al giornalista ma ha sostenuto che a due secondi dalla testata “non si capisce cosa gli dice il giornalista”, volendo sostenere che ci fosse chissà  quale retroscena prima della testata. Roberto Spada però durante l’udienza che ha convalidato il suo arresto non ha detto di essere stato provocato con parole prima del colpo.
Secondo Domenico Spada gli arresti sono “una strumentalizzazione”. Ripete che il cugino “fa del bene” e ricorda che Sgarbi schiaffeggiò in tv D’Agostino. Se la prende con i finti applausi del pubblico e ricorda che Staffelli di Striscia la Notizia si è visto spaccare il setto nasale da Fabrizio Del Noce.
Poi sostiene che la polemica su Ostia serve a coprire il successo di Casapound sul litorale, dicendo che qualcosa del movimento gli piace: «Non ne faccio parte, ma fanno molto per il sociale».
Nel collegamento successivo Federica Angeli racconta del tentato omicidio di cui è stata testimone oculare e delle vittime di Spada, compreso l’interprete dal sinti che dopo aver ricevuto minacce non si è più presentato in udienza finchè non è stato protetto dalla procura.
L’intervento successivo di Spada verte tutto sulla Angeli: «Ma lei sta condannando gli Spada o anche lo Stato?». La Angeli risponde che lo Stato è da condannare per non essere presente a Ostia per le vittime degli Spada e lui: «Sì, ma anche questa è mafia, migliaia di poliziotti lei dice che non fanno niente e poi dice di essere la paladina della giustizia?».
Nell’ultimo intervento Spada mostra vecchi articoli di Repubblica che parlano di lui come campione di pugilato e sostiene che non li pubblicano più per colpa sua (?) e chiude, mentre l’audio viene sfumato, con un «Parlate di quello che ve pare, non è giusto».
Prima però Corrado Formigli gli fa un “in bocca al lupo” per il suo prossimo incontro.

(da “NextQuotidiano“)

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OSTIA, A FUOCO NELLA NOTTE IL PORTONE DEL CIRCOLO PD

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

IERI AVEVANO TAGLIATO LE GOMME ALL’AUTO DELLA TROUPE DE LA7

Il portone del circolo Pd di Ostia è andato a fuoco la notte scorsa. A darne notizia è il senatore democratico Stefano Esposito, commissario del partito sul litorale romano. “Ieri la bella manifestazione antimafia.
Stanotte – ha scritto su Twitter Esposito – hanno dato fuoco al portone del circolo Pd di Ostia”. Sul rogo del portone di via Gesualdo 1, a Ostia Antica, scoppiato intorno alle 2.40 e spento dai vigili del fuoco, indaga la polizia. Sul posto non è stato trovato nessun contenitore di liquido infiammabile.
La Procura di Roma ha aperto una inchiesta a carico di ignoti. Il procuratore aggiunto Francesco Caporale, ha affidato gli accertamenti alla Digos e al commissariato di polizia di Ostia.
L’incendio arriva all’indomani della manifestazione in piazza Anco Marzio contro le mafie e per la libertà  di stampa, indetta da Libera e Fnsi dopo l’aggressione al giornalista Daniele Piervincenzi e all’operatore Edoardo Anselmi da parte di Roberto Spada all’indomani del primo turno delle elezioni municipali. Centinaia di persone hanno partecipato al presidio, a cui hanno aderito anche Cgil, Cisl e Uil, e che ha raccolto adesioni bipartisan dal centrodestra al centrosinistra al M5S.
Al termine della manifestazione, però, era arrivata la denuncia della conduttrice della trasmissione di La7 L’Aria che Tira che aveva pubblicato su Twitter la foto di una gomma squarciata e spiegato: “Sono ad #Ostia con @GianmariaPica alla manifestazione organizzata da Libera FNSI e dall’Ordine dei Giornalisti. Ed ecco la sorpresa che abbiamo trovato tornando alla macchina della troupe…”.
Domenica a Ostia è in programma il ballottaggio per l’elezione del nuovo presidente del decimo Municipio. I cittadini del X municipio torneranno alle urne dopo il periodo di commissariamento per infiltrazioni mafiose. La sfida al ballottaggio è tra la candidata del Movimento 5 stelle, Giuliana Di Pillo, che al primo turno ha raccolto il 30,21% delle preferenze (19.777 Voti), e Monica Picca del centrodestra con il 26,68% (17.468 Voti).
Al circolo pd di Ostia ha manifestato vicinanza il ministro della Giustizia Andrea Orlando. “Solidarietà  al Circolo del Pd di #Ostia per la vile intimidazione. Non dobbiamo abbassare la guardia. Contro le #mafie serve una battaglia unitaria”, ha twittato Orlando.
“Vicini ai cittadini di ostia e agli attivisti del pd per questo ennesimo tentativo di intimidire tutte le persone perbene e oneste. Non ci riusciranno”, ha scritto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.
Solidarietà  anche dalla sindaca Virginia Raggi che ha twittato: “Tutti uniti nella condanna di un vile atto intimidatorio che non ci spaventa”. “Condanniamo questo grave atto così come abbiamo condannato i ripetuti episodi   dei roghi   dei cassonetti,   perchè la solidarietà  deve essere unanime quando si tratta di combattere i fenomeni di illegalità “, ha dichiarato la candidata alla presidenza del municipio X Giuliana Di Pillo. “Condanno con fermezza ogni fatto di violenza ed esprimo piena solidarietà  al pd di ostia antica, vittima di un vile atto intimidatorio”, dichiara la candidata di centrodestra Monica Picca.
“Non ci fermeremo”, scrive su Twitter Matteo Orfini, presidente Pd. “Si tratta, ha detto il segretario cittadino del Pd Andrea Casu, della “peggiore risposta possibile alla grande e bella manifestazione di ieri. Una ragione in più per tornare tutti a Ostia anche oggi al fianco delle democratiche e dei democratici del x municipio”. Appuntamento, dunque, “alle 18 davanti al circolo pd ad Ostia Antica”.

(da agenzie)

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“NON GIOISCO, MA NON PERDONO”: MARIA FALCONE SULLA MORTE DI RIINA

Novembre 17th, 2017 Riccardo Fucile

GRASSO: “LA PIETA’ NON FA DIMENTICARE IL SANGUE VERSATO” …. BINDI: “CON LUI NON MUORE LA MAFIA”

“Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonarlo. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato”.
Così Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia ha commentato la morte del boss Totò Riina.
“Per quello che è stato il suo percorso mi pare evidente che non abbia mai mostrato segni di pentimento”, ha aggiunto. “Basta ricordare le recenti intercettazioni in cui gioiva della morte di Giovanni Falcone”, ha concluso Maria Falcone riferendosi alle conversazioni registrate in carcere tra Riina e un compagno di detenzione in cui il capomafia rideva ricordando di aver fatto fare al magistrato “la fine del tonno”.
Bindi: “Con lui non muore la mafia”.
“La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità “. Lo ha detto il presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ricordando che “Totò Riina è stato il capo indiscusso e sanguinario della Cosa Nostra stragista. Quella mafia era stata già  sconfitta prima della sua morte, grazie al duro impegno delle istituzioni e al sacrificio di tanti uomini coraggiosi e giusti”.
Pietro Grasso: “La pietà  non fa dimenticare il sangue versato”. “Totò Riina, uno dei capi più feroci e spietati di Cosa nostra, è morto. La pietà  di fronte alla morte di un uomo non ci fa dimenticare quanto ha commesso nella sua vita, il dolore causato e il sangue versato. Porta con sè molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità  su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla”. Così il presidente del Senato Pietro Grasso su Facebook commenta la morte del capo mafia.
Grasso continua: “Iniziò da Corleone negli anni 70 una guerra interna alla mafia per conquistarne il dominio assoluto, una sequela di omicidi che hanno insanguinato Palermo e la Sicilia per anni. Una volta diventato il Capo la sua furia si è abbattuta sui giornalisti, i vertici della magistratura e della politica siciliana, sulle forze dell’ordine, su inermi cittadini, sulle persone che con coraggio, senso dello Stato e determinazione hanno cercato di fermarne il potere”.
Il presidente del Senato aggiunge: “La strategia di attacco allo Stato ha avuto il suo culmine con le Stragi del 1992, ed è continuata persino dopo il suo arresto con gli attentati del 1993. Quando fu arrestato, lo Stato assestò un colpo decisivo alla sua organizzazione. In oltre 20 anni di detenzione non hai mai voluto collaborare con la giustizia”.

(da agenzie)

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