QUEI RAGAZZI CHE VIVONO NELLE VISCERE DI ROMA: BAMBINI E ADOLESCENTI INVISIBILI, MIGRANTI E ITALIANI, INTEGRATI NELLA DISPERAZIONE
ECCO COME VIVONO NEGLI EDIFICI ABBANDONATI E NEGLI ANFRATTI DI UNA CAPITALE CHE NON SI ACCORGE DI LORO (NEANCHE LA SEDICENTE DESTRA SOCIALE)
Quaranta gradini sotto la città .
Inclina la tanica con fatica, con una mano raccoglie un filo d’acqua e si bagna il viso. La luce dei fari delle auto filtra da un’apertura ricavata tra il sottopasso e un cartone.
Fuori il rumore dei clacson, di chi litiga per passare prima. Una finestra sul Muro Torto, una delle strade più trafficate di Roma, scavata sotto Villa Borghese e la Dolce Vita che fu.
Dentro quella che era stata costruita come via di fuga in caso di incidenti, due materassi, una confezione (vuota) di sottilette, stracci sporchi di melma.
«Mi lavo qui sotto, così non mi vedono». Maria fissa immobile quello che era un cartellone, due gambe che pubblicizzano una crema idratante. Lo alza, scansa bottiglie rotte. «È buono per dividere lo spazio», spiega.
Maria ha quindici anni e i capelli neri a caschetto. Arriva da Napoli. Ha preso un treno la settimana scorsa e s’è fermata qui.
Un gradino alla volta, l’odore di urina diventa sempre più acre. «La strada m’ha imparato che pure se sto da sola non sto sola», si sente dalla cima delle scale. La sigaretta rischiara un volto acerbo e i denti incisivi spezzati. Anna è romana, ha diciassette anni e il pancione. Aspetta una bambina. È al settimo mese.
Una tavola di legno adibita a letto
Anna è uno degli adolescenti nascosti nelle viscere di Roma, alla ricerca di un posto dove salvarsi. Incistati tra le mura sbrecciate di case in rovina, abbandonati come gli edifici in costruzione, dove dormono vestiti, arrotolati nelle coperte: in tre su un materasso, due distesi e uno di traverso.
Esistenze condivise con i topi.
In fuga da famiglie che non ci sono, assistenze pubbliche che non assistono, carenze di personale, controlli che latitano, centri che dovrebbero accoglierli e li considerano come cambiali da riscuotere.
Uno entra; un altro esce. Italiani e migranti, integrati nella disperazione.
«Dicono che la casa famiglia è un posto in cui ti senti in famiglia, ma io non mi ci sono mai sentita». Anna, si accarezza la pancia e scuote il “chiama angeli”, un ciondolo per infondere calma e armonia al nascituro. Se l’è fatto da sola. Prendendo un campanellino da un vestito rotto.
Ha vissuto con la madre fino a tredici anni, il padre l’ha visto poco: «non ci siamo mai piac…». Si interrompe, quasi a non poter ammettere la realtà . «Mia madre dicono che ha problemi di emotività ». È proprio lei a chiedere aiuto ai servizi sociali. La portano in una casa famiglia e per un po’ le cose sembrano andare bene.
«Poi un giorno l’operatrice mi ha detto una cosa brutta: che mia madre non poteva decidere nulla di me. Ho aperto la porta e sono andata via».
Scappa, viene ritrovata dalla Polizia e inizia il suo peregrinare. Approda finalmente in un posto in cui si sente accolta, ma dopo un mese e mezzo la spostano. Non sa il perchè. Spedita fuori Roma. Pochi giorni e la rintracciano addormentata su una panchina. Da lì ancora dentro una struttura. E subito dopo di nuovo in strada. «Piangevo, guardavo la televisione e non sapevo che fare. Non ho ancora preso la terza media. Alla fine ci rinunci: è normale. Ti viene spontaneo, ti butti per strada».
Tre anni di vita ai margini. La madre quando la incontra le dà tutto quello che ha: qualche euro e un abbraccio.
«Mi campo da sola», sentenzia come a voler tenere lontano quel mondo di grandi che per lei non c’è.
Maria dei genitori invece non parla. Se ne sta seduta a terra e mangia una merendina presa con due euro al distributore. «La famiglia l’ho trovata in giro. Qui devi stare attenta alle tue cose, se hai soldi in tasca te li rubano. Però se ho fame i miei amici mi aiutano». Qui sotto la breccia di Porta Pia. Accanto all’ambasciata inglese. A due passi dal ministero dei Trasporti e da quello dell’Economia. Lungo via XX Settembre, sempre affollata di turisti con il naso all’insù.
«Vedi: anche gli italiani sono come noi; dormono per strada». Mohamed ha la camicia a scacchi, sempre la stessa, e le scarpe consumate.
È arrivato da solo in Italia, a 13 anni. «Spaccio solo hashish. Lavoro; non rubo», ci tiene a specificare. Poi chiede: «Dov’è Ahmed?». «L’hanno arrestato», risponde Tommaso. Lui è rom e ha una sua regola: «Rubare va bene, ma non gli scippi. Gli scippi si fanno con violenza, i borseggi invece con destrezza».
Tommaso ha anche una famiglia e prova pena per questi ragazzini infagottati in mezzo alla strada. Vive in un container a Castel Romano, fuori dalla città . Un campo regolare, voluto dal comune di Roma, con la sorveglianza gestita dai Casamonica ai tempi di mafia Capitale e l’acqua potabile che manca da sei mesi.
Il centro di pronta accoglienza per minori disagiati lo conosce bene: «le guardie mi hanno portato tante volte. Ti fanno le foto, ti lavi, che fa comodo, e poi esci». Una farsa.
Dopo poche ore il cancello elettronico si apre e loro scappano. E intanto le casse del Comune sborsano 60 o 70 euro al giorno per ogni minore. Per garantirgli un posto sicuro e un percorso educativo.
«Uno è costretto a spacciare, a fare piccole truffe per mangiare», racconta Anna. Mohamed annuisce e dice: «Se mi prendono io glielo dico che preferisco il carcere». Melatonina schiacciata venduta come se fosse droga. «Ne voleva per 60 euro, ma gliene ho data solo per 45; non so mica che effetti gli fa».
Mohamed divide i soldi: 25 per sè e 20 per quello che l’ha rimediata. Stasera ha un posto confortevole dove dormire: per 30 euro un cinese affitta camere senza documenti a due passi dal giardino davanti alle Terme di Diocleziano.
Nel luogo esatto in cui L’Espresso aveva denunciato già nel febbraio 2016, la presenza di minori stranieri non accompagnati, costretti a rubare e prostituirsi per mangiare. Intontiti da psicofarmaci per sopravvivere a fame e dolore.
Il buco sotto la grata dove avevano trovato rifugio Fathi e Abdul è stato chiuso dall’Ama, la municipalizzata dei rifiuti.
L’altro, dove c’erano i bagni e che qualcuno aveva trasformato in dormitorio, è stato incendiato. Restano un tavolino con i vetri infranti, un paio di forbici aperte, una guida di Roma stracciata, coperta da uno slip con su scritto “uomo”. Nessuno dorme più qui. Alcuni bambini sono in casa famiglia, altri in carcere, altri ancora si sono semplicemente spostati poco più in là .
«La storia si ripete. Per essere più forti dell’indifferenza dobbiamo coinvolgere tutte le istituzioni e le organizzazioni che possono fare la differenza per Anna e sua figlia, per Maria, Mohamed, Ibrahim. Sono esseri umani che rendiamo invisibili con la nostra noncuranza. Così non difendiamo la nostra presunta civiltà , ma la distruggiamo», si arrabbia Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia.
Restano gli orchi che abusano di loro. La polizia si dà da fare per prenderli. Ma anche quando li colgono in flagrante è la legge che li rimette in libertà .
È successo per l’ingegnere americano in pensione che durante le sue vacanze dell’orrore romane comprava i loro corpi. Il motivo? Un vuoto legislativo: il ragazzino abusato aveva 13 anni e nessun genitore disposto a sporgere querela.
«Io ci ho sofferto. Persone che ho voluto bene le ho viste con loro. Perchè sono costretti a farlo? Perchè non hanno soldi e quelli gli danno 100 euro», spiega Anna.
Dietro l’angolo spunta il suo ex fidanzato, il padre della bambina che ha in grembo. È egiziano, arrivato da minorenne, ma ora maggiorenne. Si arrabbia con lei. La prende per un braccio e la trascina. Lei si guarda la pancia e esclama: «Soffro perchè nascerà senza papà come me».
Anna ha le braccia con ancora i segni dei tagli e sedici punti in testa che mostra con dignità . «Me l’hanno rotta. L’amore è cieco. Ti mena, poi ti chiede scusa. Io non ho chiamato le guardie, se no dicono che sono un’infame, però quando mi menavano nessuno si metteva in mezzo e non potevo chiamare mamma. Piangevo e basta». Veronica è una sua amica, italiana anche lei. Ha quindici anni, le snikers colorate e s’è fidanzata con un egiziano che ha il divieto di dimora a Roma. E a Roma sta. Le tocca la pancia: «Vado a prenderti qualcosa di dolce, così se lo mangi la bambina si muove».
In fondo alla strada tre ragazzi scappano, uno resta a terra, l’hanno accoltellato.
Ibrahim li guarda e non si muove. È arrivato da un giorno e sulla mano ha impresso un morso. Dice di avere 14 anni, ne dimostra anche meno. Anna si avvicina e gli parla in arabo. «L’ho imparato per strada, sentendo gli amici. Lui è egiziano, non come Mohamed che è tunisino», spiega.
Ibrahim non vuole mangiare, si scusa perchè non ha i soldi. Lei tira fuori 5 euro dal reggiseno, compra falafel da un siriano dietro la basilica di Santa Maria Maggiore e spiega: «Se io aiuto, dopo ci sarà qualcuno che aiuterà me».
Come fosse una mediatrice, gli spiega che può andare alla polizia, chiedere di farsi portare in una casa famiglia. Ibrahim al commissariato Viminale entra da solo, con in mano il foglietto preparato da Anna per farsi capire. Lei ad andare al commissariato non ci pensa proprio. L’hanno già presa una volta. Arrestata per due giorni: «piangevo come una matta».
Anna si siede per terra. È stremata dalla fatica. Vomita e nessuno si avvicina. Ha paura. Paura che le portino via la figlia. «Non è giusto», dice con un filo di voce. «Vorrei tanto dire al giudice che nessuno mi ascolta. Questa bambina m’ha cambiato la vita, m’ha evitato de sta’ per strada, de fumà le canne, de fa’ tante cose che facevo prima e non faccio più».
Ora la sera torna a casa dalla mamma; qualche volta dorme da amici. Sogna «de anna’ a vede’ un lavoro, de fa’ una vita come fanno tutti. Di riuscire a prendere la terza media». Desideri di una bambina ormai donna, che si fanno disperazione davanti al rischio che la sua storia si ripeta.
Sullo status di WhatsApp ha messo la data di nascita prevista per la bambina tra due cuoricini. Ha deciso. La chiamerà Malek, «perchè in arabo vuole dire angelo».
I rifiuti di oggi volano giù e finiscono insieme a quelli di ieri. Inghiottiti nel sottopasso. Maria e gli altri sono già scesi.
(da “L’Espresso”)
Leave a Reply