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GIORGIA MELONI ROSICA E SABOTA: IL NO DELLA DUCETTA ALLA PARTECIPAZIONE AL VIDEOSUMMIT DEI VOLENTEROSI, PREVISTO PER SABATO, AGITA LE CANCELLERIE EUROPEE: MACRON È RIMASTO STUPITO DALL’ATTEGGIAMENTO DELLA PREMIER ITALIANA

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

DALL’ELISEO MALIGNANO: “È INSOFFERENTE ALL’IDEA CHE IN PRIMA LINEA CI SONO FRANCIA E REGNO UNITO” … IL NO ALLA RISOLUZIONE SULL’UCRAINA CONSIDERATA ANTI-TRUMP E SALVINI CHE PREPARA IL TRAPPOLONE IN PARLAMENTO

Se Giorgia Meloni, con i suoi distinguo e suoi insistenti posizionamenti pro-Trump, rischierà di incrinare l’unità europea lo si capirà nelle prossime ore. Quando e se ufficializzerà la decisione di sfilarsi dal vertice convocato da remoto dal premier britannico Keir Starmer per questo sabato.
La logica della strategia di Meloni non è completamente chiara ai partner europei. In una carambola di comunicazioni avvenute a livello di diplomazie, sono giunte fino al governo italiano le perplessità di Emmanuel Macron sulla premier. Il presidente francese sarebbe rimasto abbastanza stupito dall’atteggiamento di Meloni durante i vertici di Parigi e di Londra.
Più in generale l’impressione che si è diffusa all’Eliseo è che la presidente del Consiglio stia cercando di ritagliarsi una parte nelle più ampie e articolate trattative sull’Ucraina, insofferente all’idea che quando le relazioni internazionali si declinano sulla base della forza e delle prospettive militari, a essere in prima linea sono sempre Francia e Regno Unito, perché sono potenze nucleari e perché siedono al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
L’Italia storicamente ha meno margini negoziali, e ha quasi esclusivamente un ruolo di spalla. La domanda che si fanno i leader europei è fino a che punto Meloni abbia davvero intenzione di strappare e restare spettatrice di iniziative altrui, senza farsi coinvolgere.
Intanto, fonti di Palazzo Chigi, confermano l’indiscrezione de La Stampa sulla propensione della premier di non partecipare al “vertice dei volenterosi” organizzata in videocall da Starmer per questo sabato.
Meloni ne fa una questione di principio e con i suoi è piuttosto netta: l’Italia non parteciperà ancora a riunioni che all’ordine del giorno avranno solo l’invio di truppe in Ucraina. In realtà, anche in questo caso vanno interpretate le sfumature interne al governo. Meloni continua a dire di essere poco convinta dell’ipotesi di una missione militare, anche se Palazzo Chigi, ministero degli Esteri (e cioè il vicepremier Antonio Tajani) e il ministero della Difesa (e cioè Guido Crosetto) confermano che sotto mandato Onu l’Italia non si sottrarrà all’invio dei soldati.
Al momento nessuno, infatti, ha dato un’indicazione che le truppe andranno o meno a compiere operazioni di peacekeeping, anche senza una risoluzione Onu: di certo, quest’ultima potrà essere accettata dalla Russia solo dopo un solido accordo sul cessate il fuoco.
Meloni lo reputa comunque un buon argomento per smarcarsi da Macron e da Starmer.
Attorno a lei si propende di più a sottolineare come positive le mosse di Donald Trump e gli accordi di Gedda con Volodymyr Zelensky, mentre si attendono le repliche russe alle ultime evoluzioni.
Il pressing diplomatico su Meloni è però fortissimo. Sfilarsi dai “volenterosi” è un gesto che in molti in Europa leggerebbero come una rottura. Per questo la premier […] è in attesa di capire quali Paesi realmente parteciperanno alla videochiamata e, soprattutto, quale sarà il menù finale del vertice. Se il tavolo dei “volenterosi” fosse esteso anche a un più generico tema “difesa”, Meloni potrebbe ripensarci.
La fase, insomma, è piuttosto confusa. E lo è anche all’interno della maggioranza. I partiti di centrodestra ieri a Strasburgo hanno espresso nuovamente tre posizioni diverse sul rinnovo del «sostegno incrollabile» all’Ucraina. Con FI favorevole, la Lega contraria e FdI astenuta.
I meloniani hanno provato fino all’ultimo a modificare la risoluzione per favorire il ruolo che Trump si è ritagliato nei negoziati, rifiutandosi infine di sottoscrivere la mozione che sottolinea come l’Ue «esprime profonda preoccupazione per l’apparente cambiamento di posizione degli Stati Uniti nei confronti della guerra di aggressione della Russia». Una scelta che Palazzo Chigi ha anticipato alla presidenza di Kiev spiegando come questo punto – il numero 5 del testo – sia in realtà un affronto vero e proprio contro il presidente americano e, quindi, non faccia realmente gli interessi ucraini.
La Lega ha già cominciato a piantare i suoi paletti in vista delle comunicazioni della premier prima del Consiglio Ue di giovedì prossimo. Il lavorio per la stesura di una mozione unitaria è appena cominciato e i leghisti, per sostenere le parole della premier, già chiedono che Meloni […] non faccia riferimento al piano di Ursula von der Leyen. Oppure, in alternativa, specifichi che gli investimenti per la difesa […] non saranno impiegati per l’invio di nuovi armamenti all’Ucraina.
(da la Stampa)

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“L’ISTANTANEA DELL’ITALIA CHE ESCE DAL VOTO DI IERI A STRASBURGO SULLA DIFESA COMUNE E SUL SOSTEGNO ALL’UCRAINA È QUELLA DI UNA NAZIONE LACERATA E CONFUSA”

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

MASSIMO FRANCO: “LA POLITICA ESTERA TENDE A RICOMPATTARE L’UE MA SPACCA L’ITALIA, VITTIMA DELLE CREPE IDEOLOGICHE CHE L’‘EFFETTO TRUMP’ STA PRODUCENDO. IL RISULTATO È DI MARCARE L’IMMAGINE DI UN’ITALIA INCAPACE DI ASSUMERE UNA POSIZIONE NETTA IN UN PASSAGGIO FONDAMENTALE. QUANTO AL PD DI SCHLEIN, TENTATA ALL’INIZIO DA UN ‘NO’, CON LA SUA INVOLUZIONE RINUNCIA A PRESENTARSI ALMENO PER ORA COME CREDIBILE FORZA DI GOVERNO”

L’istantanea dell’Italia che esce dal voto di ieri a Strasburgo sulla difesa comune e sul sostegno all’Ucraina è quella di una nazione lacerata e confusa.
Il «sì» alla proposta di Ursula von der Leyen sul riarmo ha raccolto il 62,6 per cento dei voti: una prova di sostanziale compattezza. Ma l’appoggio delle forze politiche italiane si è frantumato: nella maggioranza di governo e tra le opposizioni.
La politica estera tende a ricompattare l’Ue ma spacca l’Italia, vittima delle crepe ideologiche che l’«effetto Trump» sta producendo. Il partito di Giorgia Meloni ha votato a favore del «libro bianco» sul riarmo e si è astenuto sull’altra risoluzione: quella sull’Ucraina, per un testo considerato tale da «scatenare odio verso gli Usa invece di aiutare l’Ucraina». Il Pd ha fatto di peggio.
Dieci europarlamentari hanno votato a favore del riarmo. Ma undici, dunque la maggior parte, si sono astenuti. A trainare l’approvazione sono stati i Popolari, dei quali fa parte FI, il partito del vicepremier Antonio Tajani; gran parte di Ecr, i conservatori ai quali aderisce FdI; i liberali e i Verdi. Contro si sono schierati i Patrioti europei di estrema destra ai quali aderisce la Lega di Matteo Salvini, l’altro vice-Meloni; una minoranza di Ecr, il M5S e Avs. Ma a colpire è stata soprattutto la posizione di Elly Schlein, risucchiata sulle posizioni «pacifiste» dei post-grillini.
Il risultato è di marcare l’immagine di un’Italia incapace di assumere una posizione netta in un passaggio fondamentale. Può darsi che creda davvero di accreditarsi come «ponte» tra Ue e Usa. I distinguo, tuttavia, rischiano di essere valutati come ambiguità o, peggio, furbizia di corto respiro. I 419 «sì», i 204 «no» e le 46 astensioni dicono che la volontà di trovare una strategia comune è maggioritaria. Nel fronte avverso o scettico si annidano invece contraddizioni crescenti: una deriva che promette di indebolire il peso non tanto della premier ma dell’Italia. Quanto al Pd di Schlein, tentata all’inizio da un «no», con la sua involuzione rinuncia a presentarsi almeno per ora come credibile forza di governo.

Massimo Franco
per il “Corriere della Sera”

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LA LINEA SCHLEIN, CHE AVEVA INVITATO A NON VOTARE SUL PIANO DI RIARMO, VIENE SCONFESSATA DALL’ALA RIFORMISTA DEL PARTITO (COMPRESO IL PRESIDENTE BONACCINI CHE ROMPE IL PATTO DI NON BELLIGERANZA CON ELLY). RISULTATO? PARTITO SPACCATO, 10 DEM SU 21 VOTANO SI’

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

NEL PARTITO SOCIALISTA EUROPEO SOLO I DEM HANNO MOSTRATO TENTENNAMENTI, LA FRONDA RIFORMISTA CRESCE E CHIEDE L’APERTURA DI UN CONFRONTO INTERNO

Dove sta il Pd? Il voto in Europa sul riarmo ha investito il partito democratico producendo una drammatica spaccatura. Undici eurodeputati hanno seguito la linea della segretaria Schlein e si sono astenuti, gli altri dieci hanno votato a favore del piano von der Leyen, «in coerenza con la posizione dei socialisti europei». Per il partito è uno dei passaggi più dolorosi da quando Schlein ha vinto le primarie oltre due anni fa.
L’ala riformista, dopo mesi di malumori e retroscena, esce allo scoperto contro il Nazareno. Persino il presidente Stefano Bonaccini, per la prima volta, si schiera contro la linea ufficiale e rompe quello che finora era sembrato un patto di non belligeranza con Schlein. Gli altri nove “ribelli” sono Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli e Raffaele Topo.
I “fedeli alla linea” sono uno in più: Nicola Zingaretti, Annalisa Corrado, Alessandro Zan, Brando Benifei, Dario Nardella, Matteo Ricci, Sandro Ruotolo e Camilla Laureti. E anche gli indipendenti Cecilia Strada e Marco Tarquinio, che erano pronti a votare “no”, alla fine vanno in soccorso della segretaria. È proprio Tarquinio a svelare la partita interna che si è giocata nel voto di Strasburgo: «Mi sono astenuto per sostenere Schlein, altrimenti la sua posizione sarebbe finita minoritaria». Era proprio questo l’incubo del Nazareno, una sfiducia di fatto della leader su un tema fondante come il posizionamento europeo. Per questo, nelle ore precedenti al voto, da Roma era partito un pressing ad ampio spettro per convincere i dubbiosi. La riunione del gruppo a porte chiuse, prima dell’aula, cristallizza però le posizioni dei due campi, con il responsabile esteri Beppe Provenzano che, in video-collegamento da Roma, predica invano unità nell’astensione. Niente da fare. I riformisti, con in testa Pina Picierno, non arretrano: «Il voto favorevole permetterà di non isolarci dal resto del gruppo dei socialisti e democratici».
Lo tsunami di Strasburgo arriva anche a Roma. Si torna a chiedere un congresso per definire la linea. «Un partito non può astenersi — afferma Lia Quartapelle — deve dire dove sta. È nei grandi cambiamenti che si misura lo spessore della proposta politica che tu hai o che non hai». Luigi Zanda va a Otto e mezzo per affondare il colpo: «Non metto in discussione la segretaria Schlein, ma piuttosto non mi sembra che sia ancora giunto il momento che si possa presentare come candidata presidente del Consiglio».
A margine del voto, il capodelegazione Nicola Zingaretti aggiunge un punto di vista importante in vista della piazza di sabato: «In quel documento c’è troppo poco federalismo. Non è l’Europa di Spinelli, la parola difesa comune non compare mai. Ed è un po’ ingenua l’idea di chi pensa che questo sia il primo passo e poi vedrete».
Dal Nazareno fanno anche notare che la tesi dell’isolamento del Pd nella famiglia socialista è un falso problema. «Tra i partiti socialisti — osserva uno degli uomini della segretaria — il Pd è quello più in salute anche per le posizioni nette assunte in questi due anni. In Germania la Spd come è andata?».

(da agenzie)

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IL PAESE DEGLI INAMOVIBILI: L’87ENNE CARLO SANGALLI HA OTTENUTO LA QUINTA CONFERMA ALLA PRESIDENZA DI CONFCOMMERCIO

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

IN CARICA DA 19 ANNI, È STATO DEPUTATO DAL 1968 AL 1994, E SOTTOSEGRETARIO NEL TERZO GOVERNO ANDREOTTI

Venticinque minuti di discorso programmatico e 19 anni di mandato alle spalle sono bastati a Carlo Sangalli, ieri, per ottenere la quinta conferma alla presidenza di Confcommercio. Ancora un’altra elezione per acclamazione, questa volta su proposta del presidente dei Giovani, Matteo Musacci, accolta unanimemente dai 167 soci con diritto di voto presenti a Roma (pari al 94% del totale).
Sangalli, lombardo di Porlezza, mette così sulle proprie spalle, alla soglia degli 88 anni, la sfida di un altro lustro alla guida dei 700 mila associati che gli rinnovano la fiducia ormai dal 2006.
Il presidente ha rivelato di essersi chiesto a lungo se ricandidarsi. «La risposta me l’avete data voi — ha detto, rivolto ai presenti — quando sono cominciate ad arrivare decine di lettere di sostegno.
Quasi l’80% dei voti assembleari hanno alla fine sostenuto la mia candidatura». Una blindatura, quella che ha consentito a Sangalli di succedere di nuovo a se stesso, garantita da uno stile, nella conduzione della confederazione, “democristiano”. «Non so se si può ancora dire — tentenna Sangalli, a margine dell’elezione — ma è la verità: ho molto imparato facendo politica nella vecchia Dc».
Un’esperienza da deputato durata dal 1968 al 1994, culminata nel sottosegretariato nel terzo governo Andreotti. E se si chiede a qualcuno degli associati in che cosa consista questo stile Dc, al riparo dell’anonimato, qualcuno spiega: «Grandissima capacità di trasmettere la forza della leadership e oculata gestione del potere».
Il 29 aprile prossimo Confcommercio celebrerà 80 anni e lo slogan sarà “Ricordare il futuro”. Che, secondo il presidente, significa, tra l’altro, «assumersi la responsabilità di condividere il cammino, senza cadere nell’illusione di un uomo solo al comando».
Poi tra una citazione di Churchill e una di Dickens, Sangalli traccia alcune linee programmatiche: «Regolamentare l’intelligenza artificiale, rilanciare i consumi, contrastare il caro-energia, combattere la desertificazione
commerciale». Tanto da fare, ma il neopresidente è sicuro di tenere botta in virtù di una “grazia di stato” che lo sorregge. Malgrado l’età. «Ma su quello – ribatte scherzando – c’è un errore all’anagrafe…».

(da Il Corriere della Sera)

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“È UN ERRORE FIDARSI DI PUTIN, PRENDERA’ TEMPO PER ATTACCARE DI NUOVO L’UCRAINA”: L’EX CONSIGLIERE PER LA SICUREZZA NAZIONALE DI TRUMP, JOHN BOLTON, BOCCIA SU TUTTA LA LINEA LA POLITICA ESTERA DEL TYCOON

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

“FAR ACCETTARE AGLI UCRAINI IL CESSATE IL FUOCO PRIMA DI SAPERE SE I RUSSI CONCORDANO È UNO MODO STRANO DI NEGOZIARE. ZELENSKY CHIEDE GARANZIE DI SICUREZZA E TRUMP LE RIFIUTA: È UN INVITO AI RUSSI PER TORNARE AD ATTACCARE”… “L’USCITA DEGLI USA DALLA NATO? PENSO SIA MOLTO REALE”… “I DAZI? UNA FOLLIA, DISTRUTTIVA ALL’INTERNO DEGLI STESSI STATI UNITI”

John Bolton non si fida: «Forse Putin accetterà il cessate il fuoco in via di principio, ma solo per prendere tempo. Anche se firmasse la pace, il suo obiettivo dichiarato è ricostituire l’impero sovietico, e appena sarà pronto lancerà la terza invasione dell’Ucraina». Quindi l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump lancia un avvertimento agli europei: «Il rischio dell’uscita dalla Nato è reale. L’Europa deve riarmarsi, ma senza creare strutture parallele all’Alleanza che darebbero la scusa al presidente per abbandonarla».
Come giudica l’accordo di Gedda?
«Serviva a riparare il fiasco dello scontro nello Studio Ovale. […] Far accettare agli ucraini il cessate il fuoco prima di sapere se i russi concordano è uno modo strano di negoziare».
Bloccare gli aiuti ha consentito a Mosca di riprendere il Kursk?
«Uno sbaglio. Il pericolo per Kiev è che la linea di demarcazione del fronte diventi il nuovo confine permanente con la Russia».
Putin sta avanzando, ma non vuole urtare Trump. Come risponderà?
«Potrebbe dire che accetta il cessate il fuoco in linea principio, ma vuole sedersi con gli ucraini per discuterne i dettagli. Così guadagnerebbe del tempo, in cui molto può accadere sul terreno».
Trump ha sbagliato a fare concessioni prima ancora di trattare?
«Errore enorme, oltre al capovolgimento della posizione Usa, che aveva sempre previsto l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Molto rivelatore dei veri sentimenti di Trump, che sono con la Russia».
Se Putin accettasse, poi tornerebbe a minacciare Kiev e la Nato?

«Sì. Nel 2005 disse alla Duma che considera la disgregazione dell’Urss la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo secolo. Sta cercando di ricostruire l’impero russo. Ha perso molte risorse e uomini in questa guerra, ma appena sarà di nuovo pronto, fra 3, 4 o 5 anni, lancerà la terza invasione dell’Ucraina. Perciò Zelensky chiede garanzie di sicurezza, ma Trump le rifiuta. È un invito aperto ai russi per tornare ad attaccare».
Lei come negozierebbe la pace?
«Applicando pressione ad entrambe le parti. Ci sarebbe molto margine per rendere le sanzioni più efficaci».
Vede il rischio che Trump lasci la Nato?
«Penso sia molto reale, nel 2018 ci era andato assai vicino. Ma anche senza uscire potrebbe fare danni sufficienti, come ritirare le truppe dall’Europa, per rendere la Nato inefficace».
Fanno bene gli europei a riarmarsi?
«Sì, ma dovrebbero farlo come singoli paesi. Se usassero un meccanismo Ue, che per alcuni è la base su cui costruire una struttura alternativa alla Nato, allontanerebbero gli Usa dall’Alleanza Se Trump fosse un partner affidabile, dovrebbero farlo acquistando armi americane, ma lui sta bruciando la fiducia, e la guerra commerciale peggiorerà la situazione».
Come giudica i dazi?
«Una follia, economicamente distruttiva all’interno degli stessi Usa. Trump potrebbe avere ragione a denunciare gli squilibri, ma dovrebbe parlarne a porte chiuse con gli alleati per correggerli. Il vero problema nei commerci è la Cina, ma così rende molto difficile creare un fronte comune per contrastarla».
Ha fatto bene a scrivere a Khamenei per il negoziato nucleare?
«No, perché l’Iran non ha preso la decisione strategica di rinunciare all’atomica. Anzi, accelera.».

(da la Repubblica)

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ALTRO SCANDALO AL PARLAMENTO UE, SOLDI E BIGLIETTI DELLO STADIO A 15 EUROPARLAMENTARI

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

LA REGIA DI UN ITALIANO: ARRESTATI LOBBISTI DI HUAWEI IN BELGIO

Offrivano migliaia di euro, cellulari, biglietti esclusivi per partite dell’Anderlecht e altri vantaggi ad almeno 15 deputati – passati e attuali – del Parlamento europeo in cambio di una promozione nell’emiciclo di Bruxelles degli interessi di Huawei. Al centro del caso, secondo Le Soir, ci sarebbe Valerio Ottati, 41enne dirigente dell’azienda che in passato avrebbe lavorato per 10 anni come assistente di almeno due eurodeputati italiani, uno dei socialisti (S&D) e uno del Partito popolare europeo (Ppe). All’alba di oggi, giovedì 13 marzo, una retata della polizia belga ha portato all’arresto di una serie di lobbisti legati al colosso cinese, che si sospetta abbiano interferito con le operazioni dell’Europarlamento. Le accuse a loro carico vanno dalla corruzione, al riciclaggio di denaro fino alla falsificazione. Le operazioni, condotte a Bruxelles ma anche in Vallonia, nelle Fiandre e in Portogallo, sono state condotte in concomitanza a 21 perquisizioni. Due anni dopo lo scoppio del cosiddetto Qatar-gate, il Parlamento europeo è investito da un nuovo scandalo di corruzione e interferenza internazionale.
Il ruolo di Ottati: migliaia di euro tramite il Portogallo e biglietti dello stadio
Il ruolo di Ottati all’interno della rete tra Huawei e Parlamento Ue è ancora da chiarire.
Il 41enne belga-italiano, originario del comune di Woluwe-Saint-Pierre nella regione di Bruxelles-Capitale, sarebbe entrato a far parte di Huawei nel 2019. Proprio il momento in cui il colosso stava intensificando la sua attività di lobbying in risposta alle pressioni degli Stati Uniti perché l’Europa abbandonasse le apparecchiature cinesi per il 5G. Stando al quotidiano belga Le Soir, il 41enne «avrebbe assunto conoscenze» e si sarebbe occupato di «organizzare molti incontri con i deputati» e «invitare le persone agli eventi», che Huawei avrebbe finanziati per quasi 2 milioni di euro. Questa posizione “organizzativa” sarebbe solo una parte del suo compito, una facciata «legale» a operazioni di corruzione portate che avrebbe portato avanti tramite complici. In particolare, merce di scambio erano oggetti di valore (tra cui cellulari della marca Huawei), biglietti per partite di calcio (soprattutto per lo stadio dell’Anderlecht, dove l’azienda cinese ha una tribuna privata), spese di vitto e alloggio e trasferimenti di migliaia di euro. Questi ultimi, iniziati nel 2021, avvenivano attraverso una lunga serie di intermediari a partire da una società portoghese, anch’essa perquisita.
Le indagini, gli arresti e la posizione di Huawei in Europa
La maxi-operazione, ordinata dalla procura federale e dal giudice, è scattata alle prime ore della mattina di giovedì 11 marzo. Perquisizioni e fermi a danno di una serie di lobbisti e dipendenti della multinazionale cinese Huawei. Lo schema operativo, secondo gli inquirenti, sarebbe identico a quello dello scandalo di due anni fa: promesse di vantaggi i cambio di un’intercessione, da parte dei parlamentari, in favore degli interessi commerciali dell’azienda in Europa. Oggetto della strategia del colosso cinese sarebbero state varie persone «influenti» all’interno del Parlamento europeo, su tutti eurodeputati e assistenti. Huawei al momento risulta regolarmente iscritta al Registro per la trasparenza dell’Unione europea, dove sono inserite tutte le aziende che partecipano dietro le quinte ai lavori di Bruxelles. Secondo il codice di condotta dei deputati al Parlamento Ue, qualsiasi regalo fatto da terzi di valore superiore a 150 euro deve essere dichiarato e inserito pubblicamente nel registro dei regali.
I sospetti su Huawei e i legami con Pechino
La presenza di Huawei nel mercato europeo, e in generale occidentale, ha destato più di un sospetto. Non solo all’interno dell’Unione europea, con la Commissione che ha già espresso le sue perplessità, ma anche nella Casa Bianca. L’azienda è ritenuta produttrice di apparecchiature ad alto rischio, dato che sarebbe strettamente intrecciata e connessa con il governo di Pechino. L’utilizzo di sue componenti in Europa, dunque, esporrebbe le infrastrutture alla minaccia di spionaggio, accusa negata con forza da Huawei. Gli inquirenti, dunque, stanno tentando di capire se gli sforzi dei lobbisti cinesi abbiano travalicato il limite della legalità – sfociando in corruzione. E se dietro a questi sforzi presunti illegali ci sia la mano dello Stato cinese, che tenta da lontano di influenzare le decisioni europee sul tech. Il Parlamento Ue si è detto disposto a «collaborare sempre e pienamente”

(da agenzie)

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IN UN MODO O NELL’ALTRO, LE ELEZIONI IN CAMPANIA SARANNO DECISE DA DE LUCA

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

LE GRANDI MANOVRE NELLE DUE COALIZIONI

Lo danno tutti per spacciato, eppure lui è in piena campagna elettorale: Vincenzo De Luca, presidente uscente della Regione Campania, è scatenato, organizza inaugurazioni, presenta progetti e conta di rifilare un bel pesce d’aprile a centrodestra e centrosinistra.
Il prossimo 9 aprile è fissata l’udienza della Corte Costituzionale sulla legge approvata lo scorso novembre dal Consiglio regionale della Campania che consente a De Luca di ricandidarsi per un terzo mandato alle elezioni del prossimo autunno. La legge regionale è stata impugnata dal governo guidato da Giorgia Meloni per la gioia di Elly Schlein, che non vede l’ora di togliersi dai piedi l’ingombrante figura dello “sceriffo”.
Se La Consulta darà torto a De Luca, avremo in campo un candidato di centrosinistra e uno di centrodestra; se gli darà ragione, in Campania sarà corsa a tre, con De Luca a capo di una sua coalizione civico-partitica e il centrosinistra e il centrodestra con i loro rispettivi candidati.
In realtà c’è anche una terza ipotesi: la Consulta, così come è successo per l’Autonomia differenziata, potrebbe passare la palla al Parlamento invitando Camera e Senato a fare chiarezza su una questione in effetti contorta.
La stessa legge regionale impugnata dal governo per la Campania, che recepisce una legge quadro nazionale del 2004, è stata infatti approvata in Veneto (e infatti Luca Zaia sta portando a termine il suo terzo mandato, dopo aver vinto le elezioni nel 2010, nel 2015 e nel 2020); in Piemonte (Alberto Cirio potrà ricandidarsi addirittura per altri due mandati dopo aver vinto le elezioni nel 2019 e nel 2024); e nelle Marche (Gian Marco Spacca, dopo due mandati consecutivi dal 2005 al 2015, si ricandidò per un terzo, ma perse le elezioni).
Il centrodestra campano non lo può confessare per evidenti ragioni, ma spera che la Consulta non fermi la corsa di De Luca. Il motivo è estremamente semplice: con due candidati di centrosinistra in campo, essendo le regionali a turno unico, il centrodestra potrebbe sperare in una vittoria clamorosa.
Elly Schlein, Giuseppe Conte e la premiata ditta Bonelli&Fratoianni infatti hanno già archiviato De Luca: il candidato in Campania sarà un esponente del M5s, e in pole position c’è il presidente della Camera, Roberto Fico. E’ questa la contropartita che la Schlein ha promesso a Conte in cambio del sostegno dei pentastellati nelle altre regioni e pure in vista delle politiche del 2027.
Fico, sussurrano in molti nel Pd e non solo, è stato lanciato in campo con largo anticipo per rosolarlo a dovere e sostituirlo al momento opportuno. Immaginare che un ex grillino “duro e puro” possa guidare una coalizione con dentro Clemente Mastella, Carlo Calenda e Matteo Renzi è effettivamente complicato. Non a caso nelle retrovie sgomita Sergio Costa, pentastellato assai più moderato, che spera di subentrare a “Robertino caggia fa”, il soprannome appioppato a Fico da Beppe Grillo lo scorso dicembre in un video nel quale l’ex elevato sbotta contro l’accordo Pd-M5s, ricordando la famosa foto dell’ex presidente della Camera che raggiungeva in autobus il suo ufficio a Montecitorio: “Io ti appoggio il candidato Pd in Liguria e Emilia Romagna”, dice Grillo, “e tu mi appoggi il caggia fa con l’autobus e la scorta in Campania”.
A quanto risulta a Panorama, Costa, attuale vicepresidente della Camera e Generale di corpo d’armata dei Carabinieri, si dice certo che su di lui potrebbe convergere addirittura De Luca.
Onnipresente De Luca: Elly Schlein ha intimato ai suoi colonnelli campani di ufficializzare il nome del candidato del campo largo prima del 9 aprile, perché sa perfettamente che con una sentenza favorevole in tasca l’attuale presidente manterrebbe dalla sua parte molti consiglieri regionali uscenti de campo largo e pure qualcuno dello stesso Pd. Pure Luigi De Magistris, ex acerrimo avversario di De Luca, sarebbe pronto a candidarsi con lui.
Manco a dirlo, Elly non sarà accontentata: prima del 9 aprile nessuno muoverà un dito, tutt’al più verrà convocato il tavolo di coalizione. Non tutti i Dem all’ombra del Vesuvio sono infatti disposti a giocare una partita “a perdere” contro De Luca da una parte e il centrodestra dall’altra, sacrificando un seggio in consiglio regionale sull’altare del patto tra la Schlein e Conte
Identico stallo c’è nel centrodestra, che aspetta di capire se De Luca sarà in campo o meno. Se la Consulta boccerà il terzo mandato, il centrosinistra libero da De Luca tornerà unito (salvo qualche defezione), e quindi nel centrodestra ci sarà molta meno ansia di conquistare la candidatura a presidente. Se De Luca resterà in campo, invece, con il centrosinistra spaccato in due e lacerato dalla guerra interna, la candidatura farà gola a tutti.
Fratelli d’Italia schiera il viceministro agli Affari esteri Edmondo Cirielli; la Lega il deputato Giampiero Zinzi e Forza Italia l’eurodeputato Fulvio Martusciello, che sta incontrando diversi consiglieri regionali “deluchiani” pronti a candidarsi in Forza Italia se il loro leader verrà stoppato dalla Consulta.
Intanto c’è già chi questa partita l’ha vinta: il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi. L’ex rettore della Federico II e ex ministro dell’Università, a Napoli guida una coalizione più larga di ogni campo largo immaginabile: lo sostengono tutti, da Avs ai centristi passando per il M5s, e ha pure ottimi rapporti con il governo nazionale di centrodestra.
Panorama è in grado di rivelare che la Schlein e Conte la scorsa estate gli hanno chiesto di candidarsi a presidente della Regione, ma lui ha declinato ed è diventato leader dell’Anci. Elly e Giuseppi, ma pure Matteo Renzi e Nicola Fratoianni, lo consultano in continuazione: gli hanno affidato la regia della coalizione per le regionali, e potete essere certi (lui lo è) che quando Fico verrà impallinato (politicamente parlando) torneranno a chiedergli di candidarsi.
Il sindaco però non cede: vuole concludere il suo mandato (ottobre 2026) e poi capire se ci saranno le condizioni per un impegno alle politiche del 2027. Manfredi punta in alto, anche a Palazzo Chigi: se il campo largo cerca un federatore, ne ha già uno pronto in casa.

(da Panorama)

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QUEI DISTINGUO DI MELONI: “BASTA ATTACCHI A TRUMP”. IRRITAZIONE DEI VOLENTEROSI

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

IN EUROPA NON APPPREZZANO LE AMBIGUITA’ DEL GOVERNO ITALIANO

Se Giorgia Meloni ha dato ordine ai suoi eurodeputati di non votare a favore della risoluzione per il sostegno all’Ucraina, ma di astenersi — mossa del tutto inedita per FdI — è perché il testo concertato da popolari e socialisti, per la premier, sarebbe stato zeppo «di insulti contro gli Usa e Donald Trump».
Così ragionava ieri la premier, sentendosi di continuo, dalle prime ore della mattina, con i suoi colonnelli a Strasburgo. I quali hanno prima chiesto il rinvio del voto sul testo per Kiev, per tenere conto delle intese di Gedda. Poi hanno provato a far votare al Ppe un emendamento che facesse da contraltare ai passaggi più critici nei confronti degli Stati Uniti, in cui si rilanciava l’idea della premier di un vertice urgente Ue-Usa, per rafforzare la cooperazione transatlantica.
Entrambe le mosse si sono infrante davanti al muro dei popolari, in asse con il Pse. A quel punto la presidente del consiglio ha deciso di sfilarsi dal sì, pur di non votare un atto che considera polemico con gli Usa e con l’inquilino della Casa bianca. E che secondo i meloniani avrebbe finito per «delegittimare anche gli sforzi diplomatici di Zelensky». E a proposito: Meloni non ha sentito direttamente il presidente ucraino, ieri, ma secondo fonti governative ci sarebbero comunque stati contatti con Kiev, con l’obiettivo di chiarire la posizione italiana nel pallottoliere di Strasburgo. E il distinguo dei Fratelli. Secondo fonti governative, ci sarebbe stato anche un nuovo contatto con la Casa bianca, dopo il summit di Gedda, ma Palazzo Chigi non conferma.
Le ultime mosse della premier hanno irritato altre cancellerie dell’Ue. Sia Parigi che Londra. Meloni ha fatto sapere al collega britannico Keir Starmer che non sarà alla call dei “volenterosi” convocata per sabato, se non cambierà l’ordine del giorno, per ora incentrato sull’ipotesi di inviare contingenti di pace a Kiev. Solo se cambiasse il perimetro del summit, allargandolo alla difesa in generale, potrebbe ripensarci ed apparire in video.
Chiusa la partita dell’Eurocamera, a destra va trovata la soluzione a un tetris decisamente più complicato. Entro martedì le forze della coalizione devono presentare un testo unitario da far votare in Parlamento in vista del consiglio europeo del 20-21 marzo.
Le posizioni in maggioranza sono distanti, quasi opposte, sul Rearm Eu. Matteo Salvini ancora ieri picconava Bruxelles, «impegnata a rompere le palle» e che sarebbe «il più pesante dei dazi». Ecco perché secondo fonti di primo piano di FdI e di governo si starebbe lavorando a una risoluzione stringatissima. Una riga: «Sentite le comunicazioni del presidente del consiglio, il Parlamento approva». Senza precisazioni o impegni di merito. Sarebbe Meloni, nel suo discorso alle Camere, a tentare una difficile sintesi, rifacendosi alle tesi espresse dal ministro leghista dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, secondo cui non si può procedere al riarmo a scapito di sanità e servizi e che la strada non può essere unicamente (e pesantemente) quella di indebitarsi di più a livello nazionale. Servono garanzie europee che smuovano investimenti privati. Anche di questo la premier ha discusso ieri con il leader olandese, Dick Schoof, ricevuto a Chigi.
La Lega però, nelle prime interlocuzioni di queste ore, ha fatto capire di non gradire una risoluzione così concisa e asettica. Vorrebbe specificare alcuni punti. Per esempio che l’Italia non manderà più armi a Kiev. Salvini ne discuterà oggi, nel consiglio federale convocato a tema «pace», che limerà anche gli ultimi regolamenti sul congresso di aprile.
Probabile che la premier e il vice del Carroccio, dopo le telefonate dei giorni scorsi, discutano della risoluzione a quattrocchi, a margine del Cdm convocato per le 17.30. L’altro vicepremier, Antonio Tajani, non ci sarà: nella notte è atterrato in Canada, per il G7 degli Esteri. Oltreoceano, domani avrà un bilaterale con il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, per discutere di Kiev, ma anche dei dazi che preoccupano e della postura dell’Ue, che per Meloni non deve cercare il muro contro muro. In linea generale, Tajani proverà a rilanciare l’idea della premier del vertice Ue-Usa, che per ora non ha il placet di Donald Trump, e soprattutto, in un summit in cui rischia di allargarsi ancora la frattura tra Washington e i partner europei, chiederà, come raccontava ieri in aereo, di «rinforzare la collaborazione tra gli Stati Uniti, l’Italia, la Germania, la Francia e il Giappone, l’Ue, perché abbiamo bisogno di grande coesione per costruire la pace».

(da La Repubblica)

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SOTTOSEGRETARI E COMMISSIONI, TENSIONE IN FRATELLI D’ITALIA E TRA GLI ALLEATI

Marzo 13th, 2025 Riccardo Fucile

LA COMMISSIONE BILANCIO AL CENTRO DELLO SCONTRO: FDI VUOLE LUCASELLI, MA FORZA ITALIA NON INTENDE MOLLARE

La squadra di governo va completata. La consapevolezza si è consolidata a palazzo Chigi: bisogna riempire le caselle vacanti, dal viceministro delle Infrastrutture al sottosegretario della Cultura. «La nomina dei sottosegretari mancanti è una necessità perché servono interlocutori sui vari provvedimenti», spiegano – off the record – fonti di area meloniana. Insomma, deve esserci un cambio di passo di Giorgia Meloni, che su questo dossier, normalmente, preferisce prendere tempo.
La questione si intreccia con il puzzle delle presidenze delle commissioni parlamentari, da rinnovare o confermare a metà legislatura. Una scadenza ormai arrivata. Il ruolo è molto ambito: garantisce potere e soprattutto mette a disposizione un plafond di oltre 5mila euro per l’assunzione di staff fiduciario. Era circolata l’idea di anticipare l’operazione entro febbraio per evitare un possibile stillicidio. Al Senato non cambierà nulla, diverso il discorso alla Camera.
Ma «le intese politiche devono essere prima raggiunte», spiega un parlamentare di Forza Italia, a microfoni spenti. La questione, già portata all’attenzione a gennaio, sarà ricordata a breve in una conferenza dei capigruppo. Le tensioni non mancano. FI non vuole perdere peso, la Lega vorrebbe acquisirlo. Senza dimenticare le ricadute interne agli stessi partiti.
Uno dei profili considerati in bilico nelle conversazioni in Transatlantico è quello di Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura, che non convince più nemmeno Fratelli d’Italia, dopo le inchieste di Domani su possibili conflitti di interessi. Mollicone chiede la conferma. Anche perché tiene molto a quella posizione. Raccontano che usi il “logo” della presidenza della commissione per gli inviti a vari eventi. Alla fine potrebbe evitare il siluramento per scongiurare ulteriori scontri dopo le dimissioni di Manlio Messina da vicecapogruppo.
Il giro dei nomi è vorticoso. Spiccano la deputata di FdI Ylenja Lucaselli, che ambisce a una promozione dopo essere stata accostata (vanamente) a vari
incarichi, e Marco Osnato, attuale presidente della commissione Finanze a Montecitorio, molto apprezzato anche dalle opposizioni in questa veste. C’è poi Marco Perissa, leader romano di Fratelli d’Italia, indicato come sottosegretario alla Cultura (al posto di Vittorio Sgarbi), benché sia più un profilo con grandi relazioni nel mondo dello sport. Perissa è accostato pure alla presidenza della stessa commissione, nel caso dovesse saltare Mollicone.
La battaglia del Bilancio
La sfida più intricata si gioca sulla commissione Bilancio della Camera. L’attuale presidente (di Forza Italia) Giuseppe Mangialavori è finito nel mirino del capogruppo di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, per la gestione dell’ultima legge di Bilancio. Anche se fonti governative difendono Mangialavori: «Se l’è cavata bene». Ma Bignami vuole andare avanti: punta ad avere il controllo di questa commissione, fondamentale per l’esame dei provvedimenti più importanti (che muovono risorse economiche), facendo il paio con l’organismo gemello, guidato dall’altro meloniano Nicola Calandrini.
Al posto di Mangialavori era molto gettonato il nome di Luca Cannata, attuale vicepresidente. Ma l’esplosione del partito in Sicilia ha fatto crollare le sue quotazioni. Così viene segnalato un certo attivismo di Lucaselli, che da capogruppo di FdI in Bilancio è profonda conoscitrice dei meccanismi della commissione. Vanta titoli ed esperienza per ambire al ruolo. Solo che i forzisti sono pure disposti a sacrificare Mangialavori, ma non vogliono perdere la poltrona. I nomi spendibili sono quelli di Mauro D’Attis, parlamentare pugliese molto attivo su vari dossier, e Roberto Pella, abilissimo a districarsi nei reticoli dei provvedimenti economici più delicati.
Il piano B prevede lo spostamento alla commissione Bilancio di Marco Osnato, attuale presidente della commissione Finanze. A quel punto FI potrebbe scegliersi il nome per la Finanze, che fa gola alla Lega con Alberto Gusmeroli, l’uomo del fisco di Matteo Salvini. Il capogruppo azzurro Paolo Barelli è pronto alle barricate. Quindi Osnato resta il profilo adatto per rinforzare l’organico al Mef. Dopo la cattiva gestione della manovra, si vocifera di un nuovo sottosegretario di rito meloniano. L’attuale esponente di FdI a via XX Settembre, Lucia Albano, ha molti detrattori nel partito.
Ancora vuoto il posto al ministero dell’Università di Augusta Montaruli, che ha dato le dimissioni da sottosegretaria dopo la condanna definitiva (due anni fa) per l’uso dei fondi regionali in Piemonte. Qui il rebus è tutto da sciogliere.
Trasporti e turismo
Chi sembra in rampa di lancio per un nuovo ruolo è Salvatore Deidda, presidente della commissione Trasporti alla Camera, benedetto da Fratelli d’Italia come nuovo viceministro ai Trasporti al posto di Bignami. Il passaggio di Deidda al Mit può favorire la promozione alla presidenza della commissione di Fabio Raimondo, capogruppo di Fratelli d’Italia in Trasporti.
Sullo sfondo resta il dossier Santanchè: il rinvio a giudizio sulla presunta truffa all’Inps porterebbe la ministra alle dimissioni con l’avvicendamento al dicastero Turismo. Il principale candidato è il capogruppo al Senato, Lucio Malan, che ha scavalcato Gianluca Caramanna, consigliere della ministra in carica. Per la presidenza dei senatori di FdI è pronto da tempo Raffaele Speranzon, attuale numero due del gruppo a palazzo Madama, garanzia di melonismo doc.

(da editorialedomani.it)

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