Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
LA LOTTA CONTRO LA MAGISTRATURA NON FUNZIONA: NEI SONDAGGI, IL 68% DEI FRANCESI CONSIDERA “NORMALE” CHE UNA SENTENZA DI INELEGGIBILITÀ ABBIA EFFETTO IMMEDIATO. E IL 54% RITIENE CHE LA CONDANNA DI LE PEN DIMOSTRI “IL BUON FUNZIONAMENTO DELLA DEMOCRAZIA FRANCESE”
A parte che il Rassemblement national sperava in almeno 20 mila persone e stime
indipendenti ne indicano appena 6.000, ma place Vauban è chiaramente mezza vuota ed è un po’ poco per chiamarlo «il popolo di Francia».
A manifestare per Marine Le Pen «perseguitata dai giudici» […]ci sono giusto i fedelissimi, non la folla imponente che avrebbe dato un senso a questa manifestazione «in difesa della democrazia».
Bardella cerca di compensare alzando i toni della retorica: «La Storia ci ha dato appuntamento qui, in place Vauban, dove riposa Napoleone, gigante il cui solo nome fa vibrare il marmo delle nazioni». Da Napoleone passando per De Gaulle si arriva a Marine Le Pen: «Avete sempre potuto contare su di lei, ma oggi è lei ad avere bisogno di voi, di noi. Aiutatela! Aiutatela di fronte all’ingiustizia, ingrossando l’ondata patriottica ovunque in Francia!».
Un sondaggio di tre giorni fa (Cluster 17 per Le Point ) indica invece che la maggioranza dei francesi (61%) considera giustificata la condanna di Marine Le Pen a quattro anni di carcere (di fatto due con il braccialetto elettronico) e a cinque anni di ineleggibilità, pena accessoria che nel 2027 potrebbe impedirle la candidatura all’Eliseo
Se nell’ovest borghese della capitale il Rassemblement national tenta il richiamo alla Francia eterna, nell’est più popolare la sinistra radicale della France insoumise e gli ecologisti nello stesso momento tengono una contro-manifestazione perché «la legge è uguale per tutti».
Anche qui la folla raggiunge forse la metà dei 15 mila dichiarati dagli organizzatori, ma soprattutto emerge la divisione con i socialisti assenti, rendendo evidente la fine della coalizione del Nouveau Front Populaire, arrivata in testa alle elezioni anticipate della scorsa estate.
La vera sorpresa della giornata arriva forse dalla terza manifestazione, quella alla Cité du Cinéma organizzata dal partito macronista Renaissance per rilanciare il suo leader, l’ex premier Gabriel Attal.
Anche qui partecipazione sotto i 10 mila, ma maggiore entusiasmo e la voglia di Attal di riprendersi un ruolo di primo piano
Le Pen e i suoi alleati hanno cercato di presentare la sentenza di condanna come un attacco antidemocratico, richiamandosi ai suoi buoni risultati nei sondaggi presidenziali.
Il suo discorso sulla democrazia, però, non sembra convincere la maggioranza dell’opinione pubblica: secondo lo stesso sondaggio, il 68% degli intervistati considera “normale” che una sentenza di ineleggibilità abbia effetto immediato. Un’altra rilevazione, dell’istituto Odoxa, mostra che il 54% degli intervistatintervistati ritiene che la condanna dimostri «il buon funzionamento della democrazia francese, grazie alla separazione dei poteri».
(da agenzie)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
DA QUANDO E’ ALLA CASA BIANCA LA SITUAZIONE È PEGGIORATA: IN SETTE GIORNI MOSCA HA SPARATO 1460 BOMBE GUIDATE, 670 DRONI E 30 MISSILI BALISTICI. IERI È STATA COLPITA LA CAPITALE, KIEV
“Stiamo parlando con la Russia. Vorrei che” Vladimir Putin “si fermasse”: lo ha detto il presidente americano Donald Trump a bordo dell’Air Force One, dribblando però la domanda sullo stato dei negoziati per la pace in Ucraina.
“Non mi piacciono i bombardamenti. I bombardamenti continuano e continuano. Ogni settimana persone e migliaia di giovani vengono uccisi ed è una cosa orribile che non sarebbe mai dovuta iniziare, e non sarebbe mai iniziata se fossi stato presidente, al 100%”, ha aggiunto Trump
In genere le notti della capitale sono più tranquille che nel resto del Paese, specie nelle zone urbane vicino al fronte da Sumy, passando per Kharkiv sino a Zaporizhzhia e Kherson. Gli abitanti di Kiev sanno che qui sono concentrati i missili americani Patriot e il meglio delle difese contro i droni e i missili russi a garanzia dei loro sonni.
Ma ieri poco dopo l’una, nel silenzio totale imposto dal coprifuoco notturno, i consueti crepitii e scoppi dei colpi in uscita seguiti pochi minuti dopo dalle sirene dell’allarme non hanno significato il «fine pericolo». Tutt’altro, perché le esplosioni delle bombe in arrivo hanno fatto tremare i pavimenti e vibrare le finestre. Quindi, ancora una serie di boati profondi sono tornati ad echeggiare appena dopo le cinque di mattina.
Verso le otto abbiamo saputo che almeno tre quartieri erano stati presi di mira dai missili. I bilanci delle vittime civili sono di un morto e tre o quattro feriti. Visitando la zona industriale di Kurenivka, periferie nord di Kiev, abbiamo visto i danni a una quarantina tra aziende e laboratori. Non è escluso che tra i capannoni invasi dal fumo degli incendi ci fosse anche una fabbrica di droni, come dichiara Mosca.
Ma noi abbiamo visto soltanto operai e impiegati di ditte civili indaffarati a svuotare gli uffici, ripulire dai calcinacci, spostare i pannelli pericolanti dai muri. […] Zelensky denuncia con forza l’aggressione russa, che arriva dopo la ventina di civili ucraini morti e oltre 75 feriti sotto le bombe a Kryvyi Rih venerdì.
«La pressione sulla Russia è ancora insufficiente. Lo provano questi bombardamenti quotidiani. Abbiamo accettato la proposta Usa per il cessate il fuoco totale.
Ora ci aspettiamo la reazione dell’amministrazione Trump, che ancora non c’è stata».
La verità sul campo è che dall’inizio dei tentativi di dialogo voluti da Trump due mesi fa l’aggressione russa si è fatta più intensa. Zelensky sottolinea che solo nell’ultima settimana i russi hanno sparato 1.460 bombe guidate, 670 droni e 30 missili balistici.
Le fanterie russe cercano di passare il confine nella zona di Sumy. Mosca denuncia attacchi di droni, ma sembra che le vittime civili russe siano molto più limitate di quelle ucraine. I prossimi giorni dovrebbero vedere la ripresa dei dialoghi a Washington con i rappresentanti ucraini e russi.
Kiev manderà una delegazione per finalizzare l’accordo sullo sfruttamento delle risorse ucraine con gli americani.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
“LE AZIENDE CHE POTRANNO RINVIARE UN INVESTIMENTO, NELL’INCERTEZZA, LO FARANNO. STESSO DISCORSO PER I CONSUMATORI USA, CHE HANNO INVESTITO RISPARMI E FONDI PENSIONE IN BORSA, SI SENTIRANNO PIÙ POVERI. IL DOLLARO DEBOLE È UN BOOMERANG PER L’ECONOMIA AMERICANA: GLI USA NON POTRANNO SMETTERE DI IMPORTARE BENI, CHE CON UN DOLLARO DEBOLE COSTERANNO DI PIÙ”
Finché l’incertezza regnerà sui mercati, le Borse non risaliranno. Ne è convinto Matteo
Ramenghi, direttore degli investimenti di Ubs Wm Italia.
I mercati sono crollati per i dazi, come riapriranno oggi?«Giovedì e venerdì è crollato tutto in modo disordinato […] La reazione emotiva è stata esagerata e amplificata dagli algoritmi, dai fondi passivi che replicano l’indice, ma non mi aspetto che nei prossimi giorni gli investitori tornino a comprare. […]».
Quale impatto vi aspettate sull’economia reale?
«La Bce, prima dell’annuncio di Trump, aveva stimato che con i dazi al 25%, invece che al 20%, il Pil dell’Eurozona sarebbe calato dello 0,3%. Bankitalia invece con i dazi al 20%, venerdì ha stimato una contrazione del Pil tricolore dello 0,5% su tre anni. Ma oltre alle tariffe Usa, bisognerà tenere in conto la reazione degli altri Paesi e anche un effetto panico di imprese e consumatori.
Le aziende che potranno rinviare un investimento, nell’incertezza, lo faranno. Stesso discorso per i consumatori Usa, che hanno investito risparmi e fondi pensione in Borsa, si sentiranno più poveri. Lo stesso Trump, nel primo mandato, aveva stimato che un crollo del 10% dell’ S&P 500 equivale a un calo del Pil dello 0,6%. L’S&P è già crollato, ora bisogna capire se Trump resterà fermo sulle sue posizioni, o tornerà sui suoi passi».
Cosa potrebbe fare ora Trump?
«Trump fin da subito ha detto che queste erano le tariffe massime, lasciando intendere che era pronto al dialogo con i vari Paesi. Se invece rimanesse fermo sulle sue posizioni, potrebbe utilizzare gli introiti dei dazi per ridurre le tasse dando slancio all’economia».
Ma il dollaro debole, non è un boomerang per l’economia Usa?
«A certi livelli sicuramente sì, l’America non potrà smettere di importare beni, che con un dollaro debole costeranno di più. L’unica spiegazione razionale è che Trump scommetta su un calo del petrolio, che è una voce importante sull’inflazione, dato che un americano fa in media 60 km al giorno. Ma anche in questo caso, mancano pezzi del puzzle».
Piazza Affari ha perso più delle Borse Ue per i cali delle banche italiane. Perchè questo crollo?
«Per tre motivi: c’è il rischio che la Bce per sostenere l’economia Ue decida un taglio dei tassi più alto, e così facendo calerà il margine d’interesse delle banche. In secondo luogo, con il crollo dei mercati, caleranno anche le commissioni bancarie. Infine il credito è un’industria ciclica, se l’economia rallenta le aziende chiedono meno prestiti e le banche faranno meno affari».
(da agenzie)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
NEL PIENO DELLA GUERRA DEI DAZI, INVECE DI CRITICARE LE MOSSE DEL TYCOON, ATTACCA BRUXELLES: “TORNEREMO A CHIEDERE ALL’EUROPA DI RIVEDERE CON FORZA LE NORMATIVE IDEOLOGICHE DEL GREEN DEAL” – LA PREMIER SI ISOLA SEMPRE PIÙ IN EUROPA
Aspettando che la Casa bianca fissi la data per il bilaterale tra Giorgia Meloni e Donald Trump (probabile il 16 aprile, tanto che la nostra ambasciata negli Usa è già stata allertata), la premier cambia toni. Quelli più aspri non li riserva a Washington, ma a Bruxelles.
Scelta soprattutto mediatica, perché i contatti con Ursula von der Leyen sono costanti: proprio d’accordo con lei, proverà negli Usa a dimezzare i dazi. Ma alla premier serve coprirsi a destra, dove Matteo Salvini invoca addirittura la motosega di Milei contro l’Unione.
E allora, collegandosi proprio con il congresso leghista di Firenze, Meloni mette nel mirino l’Ue. Spiegando in un filmato registrato che «torneremo a chiedere all’Europa di rivedere con forza le normative ideologiche del Green Deal». La leader di FdI se la prende pure con «l’eccesso di regolamentazione ». Una combo che, a suo dire, «oggi costituisce dei veri e propri dazi interni che finirebbero per sommarsi in modo insensato a quelli esterni».
Però ora il problema c’è. Ed è in cima all’agenda. «Affronteremo anche il tema dei dazi — le parole della premier — senza allarmismi». La mossa di Trump, ripete, «non l’abbiamo ovviamente condivisa», ma ora c’è un mondo produttivo da rasserenare: «Siamo pronti a mettere in campo tutti gli strumenti, negoziali ed economici, per sostenere le nostre imprese».
Se ne discuterà oggi pomeriggio a Palazzo Chigi, dove sono convocati i ministri Giancarlo Giorgetti (Economia), Francesco Lollobrigida (Agricoltura), Tommaso Foti (Affari Ue), Adolfo Urso (Imprese), più i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, che in mattinata sarà in Lussemburgo al consiglio Ue sul commercio, per discutere dei dazi americani e cinesi.
Lì il ministro degli Esteri porterà la posizione concordata con Meloni: l’Italia è contraria a ritorsioni immediate contro gli Usa, confida che sia accantonato il “super-bazooka” di restrizioni all’export americano, ma se non ci saranno segnali negoziali da Washington alla fine non si metterà di traverso sui contro-dazi previsti dal 15 aprile.
Il governo stilerà un pacchetto di richieste per Bruxelles. Stop al Green deal. Sospensione del patto di stabilità, su cui però non c’è ancora intesa nell’Ue. Una deregulation. Più un fondo «compensativo europeo», di cui parlava ieri Urso, perché «per misure compensative nazionali vanno riviste le norme sugli aiuti di Stato».
La riunione servirà, secondo fonti di governo, anche per concertare la posizione in maggioranza. Per capire insomma se Salvini, dopo il congresso, abbasserà i toni. Anche per questo è in programma un incontro a tre fra i leader, dopo la riunione della task force. Meloni sa che la fase è delicatissima. «La più difficile dal Dopoguerra, sta succedendo di tutto», ammette nel video in cui parla di un momento «a tratti fisicamente molto impegnativo ». E certo l’impegno sbandierato è sempre quello: «Andremo avanti fino alla fine della legislatura». Ma con un mucchio di insidie.
Anche Lollobrigida ieri si è scagliato contro le «regole folli» dell’Europa. Ma ha riservato critiche anche a Trump: «Temo l’offensiva parallela che il presidente Trump vuole lanciare contro le nostre denominazioni d’origine»
(da Dagoreport)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
ECCO CHI SE NE VA PER TRASFERIRSI STABILMENTE ALL’ESTERO
Italia, addio. Quasi mezzo milione di persone hanno lasciato l’Italia tra il 2022 e il
2024 per trasferirsi stabilmente all’estero. Solo nel 2024 sono stati 191mila gli italiani che si sono cancellati dall’anagrafe, segnando un aumento del +20% rispetto al 2023 (158mila). Il dato più alto registrato negli anni Duemila. È quanto emerge dalle elaborazioni del Sole 24 Ore su dati Istat. L’aumento è dovuto in gran parte agli espatri di cittadini italiani (+36,5%), diretti soprattutto verso Germania, Spagna e Regno Unito. Il fenomeno si aggiunge in una fase di pieno inverno demografico, con effetti accentuati in alcune zone del Paese.
Differenze tra Nord e Sud
Le province di confine registrano i tassi più alti di emigrazione: Bolzano (18,4 emigrati ogni mille residenti) è la più colpita, seguita da Imperia, Trieste, Como e Sondrio. Anche Milano (33.814 emigrati in tre anni, 10,5 ogni mille) e Bologna (9.461, 9,4 ogni mille) figurano tra le città con numeri significativi. Un fattore chiave che potrebbe incidere su questo dato è il nuovo accordo fiscale Italia-Svizzera, in vigore dal 2024, che ha aumentato la pressione fiscale sui nuovi frontalieri. Spingendo molti a trasferire la residenza oltre confine. Altri motivi includono il caro affitti (come a Bolzano) o il minor costo della vita e degli studi in Austria e Svizzera. Al contrario, le province meridionali risultano meno coinvolte dal fenomeno, anche se Sud e Isole segnano comunque un calo complessivo della popolazione residente (-1,1% e -1,3% rispettivamente). Aggravato dalla scarsa natalità e da difficoltà economiche.
Fuga di cervelli
Dal punto di vista qualitativo, la fuga di capitale umano è evidente: tra il 2013 e il 2022, oltre 350mila giovani tra i 25 e i 34 anni sono emigrati, di cui oltre 132mila laureati, mentre i rimpatri sono stati di gran lunga inferiori. Il saldo negativo per l’Italia è stato di circa 87mila giovani laureati, un dato che evidenzia la difficoltà del Paese nel trattenere i propri talenti.
(da agenzie)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
LA TEEFONATA A MELONI E A PIANTEDOSI (CHE NON INTENDE MOLLARE LA POLTRONA)… IL PROBLEMA CON MUSK E STARLINK
Il Viminale in cambio delle Infrastrutture. Il leader della Lega Matteo Salvini è pronto a bere l’amaro calice del ministero dell’Interno, sacrificandosi per l’Italia e per la Lega. Dopo la richiesta “spontaneissima” del suo vicesegretario Andrea Crippa e
del capogruppo alla Camera del Carroccio Riccardo Molinari lo dice esplicitamente: Questo è un congresso di partito. È mio dovere ascoltare quello che i sindaci e gli elettori ci chiedono». E quindi «di quello che mi chiedete con serenità parlerò sia con lui (Piantedosi, ndr) che con Giorgia Meloni».
Non escludo il ritorno
Insomma Salvini, come Franco Califano, non esclude il ritorno al Viminale. Anche se il posto alle Infrastrutture durante le trattative per il governo Meloni lo ha chiesto lui stesso. E forse dopo essersi accordo che non si trattava soltanto di tagliare nastri con i soldi del Pnrr, ma era necessario anche far arrivare i treni in orario. E a onta di uno dei cavalli di battaglia della Lega: il ponte sullo Stretto di Messina che ora perderebbe il suo sponsor più caloroso nel posto più giusto. Il leader chiude con una frase sibillina. Parla dei giovani. Spiega che lavorerà pancia a terra per i prossimi quattro anni. E assicura che nel 2029 si presenterà al congresso «da militante semplice». Sembra l’annuncio di un passaggio di testimone. Quell’anno saranno 16 anni di segreteria.
L’assedio al Viminale
Lo schema di Salvini è semplice. Matteo Piantedosi si candida in Campania e vince dopo l’era di De Luca ormai al tramonto e lui trasloca al suo posto al Viminale. Peccato che l’attuale ministro abbia già detto no: «Pur essendo legatissimo alla mia terra, mi sento più utile alla Campania lavorando al Viminale. Inoltre il centrodestra esprime sul territorio dei bravi dirigenti su cui sarebbe giusto puntare». Salvini, all’indomani della sua assoluzione al processo di Palermo per Open Arms, aveva subito ipotizzato l’avvicendamento. Ma il centrodestra gli ribatte che le ambizioni sono troppo alte per un partito al 9%. La Stampa riporta anche una battuta attribuita a un esponente di Forza Italia: «Se Salvini si impunta, ma non lo farà, apriamo la crisi, andiamo dal presidente Mattarella e noi ci chiamiamo fuori».
Le telefonate
Repubblica dà anche conto di una serie di telefonate di Salvini a Meloni e Piantedosi. Fatte prima dell’intervento, per avvisarli. E anche per mettere sul piatto il ministero delle Infrastrutture. Che a questo punto andrebbe a un esponente di Fratelli d’Italia. Una trattativa un po’ curiosa, visto che notoriamente i ministri li nominano i premier e se Salvini molla l’incarico Meloni ha già il diritto di mettere chi vuole in quel posto. Salvini, insomma, per avere quello che vuole offre nella trattativa politica quello che non ha. C’è poi il problema Starlink. Visto che il Viminale ha competenza anche su quello e Meloni non vorrebbe avere cheerleader di Musk tra i piedi per un accordo che riguarda la sicurezza nazionale.
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
PER IL VECCHIO CONTINENTE SERVE IL RILANCIO DELL’UNITA’ POLITICA PER UNA RISPOSTA COMUNE
La «guerra dei dazi» è l’ultimo segnale di una crisi degli equilibri internazionali
sempre più vicina al punto di rottura. Una globalizzazione tecnico-economica in assenza di ogni guida politica non poteva portare che a questa situazione. Che mercato e libero scambio potessero da soli produrre benessere e pace faceva parte dell’armamentario ideologico liberista al quale si sono arrese dalla fine della guerra fredda tutte le «sinistre» del mondo. Peggio: quella ideologia presupponeva tacitamente che di fatto esistesse una sola guida del processo di globalizzazione, e che questa fossero gli Stati Uniti. La loro egemonia in tutti i fattori strategici, dal primato scientifico-tecnologico alla schiacciante superiorità militare, sembrava non essere in discussione. In questo quadro l’Europa era chiamata a un ruolo certo importante, ma sussidiario, né doveva indebolirne le fondamenta con azzardate aperture a Oriente.
Coloro che hanno la cattiva abitudine di collocare le vicende presenti sulle onde lunghe della storia capiscono che oggi proprio tale quadro entra in una crisi irreversibile. Che l’Occidente è chiamato a ripensarsi, a ripensare il proprio destino.
Al di là delle maschere da spaccone far west e delle retoriche populiste, Trump esplicita ciò che risultava già evidente dai fallimenti dell’Amministrazione Biden: l’America si è radicalmente indebolita nella competizione internazionale e deve concentrarsi sui propri interni problemi. Fare l’America grande di nuovo è lo slogan che copre questa amara realtà. Che le politiche messe ora in atto siano in grado di raggiungere lo scopo che si prefiggono è tutto da vedere, ma la loro intenzione è certa. Con esse gli Stati Uniti dichiarano di non poter più svolgere il ruolo di quella potenza guida su cui l’Occidente si è retto dalla fine della seconda Guerra mondiale.
La diagnosi temo sia esatta. La terapia forse sbagliata, anche per gli stessi interessi americani. I suoi critici, tuttavia, dovrebbero indicare quali sarebbero le alternative realistiche a fronte del costante aumento del deficit commerciale Usa e della perdita di competitività di tutti i suoi comparti manifatturieri. La «guerra dei dazi» si svolge su piani molto differenziati e la sua articolazione ne mette in lampante evidenza l’obbiettivo di fondo: il conflitto strategico con l’Impero cinese. E qui davvero il problema assume dimensione epocale. La crescita della Cina, malgrado le profezie sul suo arresto periodicamente ripetute nel corso degli ultimi quarant’anni (sarà bene ricordare che il Pil cinese alla fine degli anni ’80 era equivalente a quello di Paesi delle dimensioni del Belgio), continua a ritmi impensabili per economie mature e sembra essere ancora lontana, per disponibilità di risorse umane, infrastrutturazione, solidità politico-amministrativa, dall’”atterrare”. Da immensa piattaforma manifatturiera, accumulatore e assemblatore di energie e esperienze formatesi altrove la Cina è diventata da tempo una potenza innovatrice – e tale potenza crescerebbe esponenzialmente disponendo del “polo” di Taiwan. Né si tratta soltanto della Cina: si sviluppano in questo stesso senso altri grandi spazi economico-politici dell’Est, come il Vietnam. L’Impero dell’Occidente, gli Usa, è chiamato ad affrontare questa competizione strategica. L’aumento strepitoso dei dazi contribuirà a colpire la crescita cinese e ad arrestarne i programmi più innovativi (anche sul piano militare)? O piuttosto renderà ancora più precari gli equilibri interni, economici e sociali, dell’America? Dipenderà da molti fattori, impossibile prevederlo in base a mere estrapolazioni economiche. Dipenderà dalla tenuta della nuova élite trumpiana, ma anche dai contraccolpi della nuova situazione in seno a quella cinese. Dipenderà anche dalla posizione europea, se e in che misura l’Europa saprà produrre un contraccolpo di reale autonomia e unione nei confronti degli Usa.
Come dovrebbe configurarsi una tale reazione? Ripensando in termini autenticamente federali l’assetto delle alleanze che formano l’Occidente. L’epoca dell’indiscussa egemonia è finita, per dichiarazione dello stesso soggetto egemone. Ogni fattore del sistema delle alleanze deve perciò assumere il proprio ruolo e saperlo svolgere autonomamente. L’Europa ha interessi vitali a rappresentare il punto di mediazione tra Occidente, Oriente, Mediterraneo e Africa. Interessi vitali a porre termine a guerre civili al proprio interno e a conflitti armati ovunque si manifestino. Un’unità d’azione per fronteggiare l’attacco sui dazi che non si fondi su questa visione strategica varrà meno di un’aspirina. C’entra l’Unione per la Difesa in tutto questo? Certo che sì. Come potrebbe realisticamente concepirsi un’unità politica senza difesa comune? Ma ciò è esattamente l’opposto delle attuali grida al riarmo! Ciò significa bilancio comune per la difesa, programma di armamenti congiunto. Ciò comporta la decisione di farla finita con forze armate nazionali. Un esercito e un comando europei. Riarmarsi prima che questa strategia sia definita è come indebitarsi per l’automobile senza saper guidare. L’unico effetto sarà il riarmo tedesco a carico di tutti (sperando almeno che l’AfD, continuando così la politica europea, non giunga prima o poi a vincere).
La risposta ai dazi di Trump finirà con l’essere una risposta spezzatino, Paese per Paese, con un cappello von der Leyden di maniera, se non si inquadrerà in una volontà di rilancio reale dell’Unione politica. E questa non può prescindere dalla riaffermazione di alcuni principi sui quali è nata la sua stessa idea. E’ l’Europa dei diritti sostanziali, è l’Europa delle sue costituzioni democratiche progressive del Dopoguerra, che sembra conoscere un’inarrestabile decadenza. Un’Europa che non apre bocca di fronte al massacro quotidiano a Gaza, ma, anzi, tiene al suo interno governi che lo apprezzano, potrà trovare diecimila accordi favorevoli sui dazi con Trump, ma non sarà più Europa e alla fine conterà nel grande gioco degli equilibri tra Imperi ancora meno di quanto stia contando oggi.
Massimo Cacciari
(da lastampa.it)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
I GRUPPI CRIMINALI DIVENTERANNO PROTAGONISTI PER AGGIRARE I DAZI
Sappiamo già, e con certezza, chi guadagnerà più di tutti dai dazi voluti dal presidente Donald Trump, non le aziende americane e nemmeno gli operai di Portland e Detroit: i contrabbandieri.
Chi saprà far entrare le merci sottoposte a dazio in modo illegale avrà di fatto il ruolo di equilibratore economico, lascerà i dazi come un disegno formale permettendo alle merci di continuare a entrare senza costare di più (la merce di contrabbando aggira le tasse quindi in questo modo ammortizza il costo di trasporto criminale). Eppure il dibattito su dazi e contrabbando è marginale, fumoso, mal affrontato.
Un tempo era un riflesso istantaneo nel giornalismo, ora per qualche ragione non sembra accadere più. Il riflesso istantaneo cui faccio riferimento era la capacità nel dibattito pubblico di comprendere dietro una decisione politica, dopo una manovra economica, il suo immediato lato nascosto. La legge viene emanata ma quali saranno le strategie criminali che la aggireranno? Quali regole nella praxis economica reale che sostituiranno le leggi?
Il lato b dell’economia
Insomma il lato b dell’economia è la sua versione più vera, non affrontarla significa non permettere di capire le scelte politiche reali. Chiunque faccia impresa sa che non esiste un percorso onesto e uno disonesto, non sono dinamiche in conflitto, esistono invece scelte: quanto della propria attività può essere illegale per far profitto senza trasformarla in azienda criminale? Quanto allo stesso tempo un percorso criminale può provare invece a rendersi legittimo e legale?
Non esiste chi è completamente rispettoso delle leggi e non esiste chi sia completamente in grado di non rispettarle in nessuna sua parte. Questo è il capitalismo contemporaneo, mafiosizzato.
Le logiche di Cosa Nostra
Trump è un costruttore cresciuto dentro le logiche imprenditoriali di Cosa Nostra degli anni 80 e sa benissimo che se le aziende americane hanno per loro necessità di crescita bisogno di continuare a prendere prodotti da Paesi sotto dazio al prezzo precedente, se vogliono, riusciranno ad ottenerli. Molti prodotti europei e cinesi, indiani e vietnamiti, continueranno ad entrare negli Usa senza dazio con il contrabbando, entreranno dal confine col Canada, da quello messicano e dai porti di Philadelphia, di Miami, di Long Beach.
Le autorità americane sanno benissimo che accadrà e sanno benissimo che si stanno già organizzando i cartelli mafiosi. Per loro si sta aprendo un nuovo immenso mercato paragonabile, nella previsione, a ciò che fu il proibizionismo. Fare soldi con merci legali genera una complicità sociale allargata ben superiore al trafficare armi o metanfetamina. Trump ragiona e agisce come sempre ha fatto: da gangster. Lui stesso ha rivendicato più volte questa spietatezza d’azione dichiarando di averla appresa dal suo mentore Roy Cohn avvocato negli anni 80 e 90 di boss mafiosi come Galante, Gambino, Rattenni e «consigliori» della famiglia Genovese.
I canali d’azione
Ragionare come un gangster significa essere consapevole che quando agisci per colpire i tuoi nemici questa azione può danneggiare anche gli amici, ma questi ultimi sapranno aggirare il problema perché gli lascerai canali di azione.
La prima cosa che capiterà è il raggiro burocratico. Le merci cercheranno di essere «battezzate» in un Paese senza dazi anche se prodotte in luogo sotto dazio alto. La dinamica però non è così facile, non basta spostare la sede di una società per non essere sottoposto alla tassa. Per esempio San Marino ha dazi più bassi dell’Italia ma non basterà alle società italiane spostarsi a San Marino: per avere una pressione minore dovrebbero dimostrare di produrre proprio nel Paese per poter evitare il tributo.
Quello che succederà quindi non è fuga di società da un Paese all’altro, ma molte aziende faranno risultare che una parte sostanziale del processo produttivo avviene in un Paese senza dazi o con dazi minori. Se i pantaloni di fabbricazione cinese avranno un processo di realizzazione in Argentina questo può far cambiare la classificazione doganale e quindi entrare negli Usa senza i dazi che Trump ha imposto alla Cina. Questa ipotesi comporterebbe che i cinesi dovrebbero o realmente dislocare in Argentina parte sostanziale della produzione o corrompere fabbriche argentine che facciano risultare un importante intervento sul prodotto originario (non basta rifinitura o etichettatura).
I porti ombra
L’altra strategia sarà la sottovalutazione delle merci: una spedizione da 50 mila dollari viene dichiarata del valore di 10 mila. L’aumento di controlli doganali renderà lentissimo il transitare di merci, cosa che porterà a scegliere il porto ombra, per esempio merce indiana che passerà per i porti di Corinto, in Nicaragua, o di Acajutla, in Salvador, e in questi luoghi cambierà provenienza, risultando che è merce
proveniente dalla Turchia.
Contrabbando e manipolazioni burocratiche già sono un tema enorme mai affrontato davvero dalla politica. Abbiamo dei precedenti anche in Europa, come la benzina di contrabbando che viene introdotta da Malta, Slovenia, Montenegro: ufficialmente i camion trasportano latte, solventi, vernici, ma in realtà hanno benzina. Le navi che trasportano petrolio di contrabbando libico direttamente gestito dalle milizie sono uno di reali motivi di ostilità verso le navi ong, perché il loro presidiare il mare ne monitorerebbe i traffici tra nazioni, ma questa è un’altra storia che ci svela come Trump abbia inaugurato una nuova stagione imperiale per i gruppi criminali, che diventeranno protagonisti per aggirare i dazi e saranno i nuovi e privilegiati interlocutori delle imprese americane e di quelle asiatiche ed europee. Tutto con la benedizione di Donald, l’allievo di Roy Cohn
Roberto Saviano
(da corriere.it)
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Aprile 7th, 2025 Riccardo Fucile
CHI SI NASCONDE DIETRO A FINTI SARTI ITALIANI CHE VENDONO ABITI CINESI
La storia inizia con un messaggio a pagamento diffuso su Facebook il 12 gennaio 2025.
È una lunga lettera aperta di cui riportiamo la sintesi e i passaggi cruciali: dal 1987 tutte le mattine si alzano le serrande della boutique Svenna, in viale Italia 115 a Milano. A gestirla ci sono le sorelle Giulia e Sara, che però oggi sono costrette ad annunciare la chiusura del negozio per colpa della «concorrenza cinese a basso costo che svaluta il vero artigianato». Giulia e Sara proprio non ce la fanno a competere «con chi vende a prezzi irrisori e senza rispettare i produttori locali». Quindi, cari clienti «che avete significato molto per noi, inizia la liquidazione». Sul sito di Svenna Milano, tra le entusiaste recensioni di clienti e influencer, viene spiegato che, dopo quasi quarant’anni di lavoro, portati avanti «con coraggio e creatività tramandateci dalle nostre nonne» e sempre «riflettendo la moda e lo stile italiano» tutti i maglioni, le giacche, i pantaloni e i cappotti rigorosamente fatti a mano sono scontati «fino al 70%».
Persone, boutique: ci sono cascati in migliaia
Ci sono cascati in migliaia. Perché non c’è alcuna boutique Svenna, e viale Italia 115 a Milano neppure esiste: c’è corso Italia, ma si ferma al civico 68. E anche il negozio Semia Milano, che sul web vende abiti realizzati «con materiali pregiati», che poi sono gli stessi di Svenna, «abita» in viale Italia 115. La foto che invece ritrae le sorelle Giulia e Sara è con ogni probabilità costruita dall’intelligenza artificiale, ed è la stessa che compare pure sul sito di Essenza Milano. Altro inesistente atelier meneghino costretto a chiudere nonostante «incarni l’eleganza e lo stile italiano», dove però Sara stavolta si chiama Silvia. Le influencer sono inventate e le belle recensioni pure, mentre quelle vere parlano di «truffa» e «pubblicità ingannevole». I commenti entusiastici sono identici a quelli pubblicati online da Bottega Serrani: pure qui la bottega non c’è, ma sul web liquida tutto.
L’unica cosa reale sono proprio i siti di e-commerce, che però vendono qualcosa di molto diverso da come lo raccontano: la bella sartoria italiana, con quei «capi di alta qualità», in realtà sono abiti cinesi di bassa qualità e in vendita per pochi euro sulle piattaforme Taobao, Shein, Aliexpress. Per esempio il modello «Ilaria», un cappottino elegante che Svenna propone scontato a 54,90 euro, e che allo stesso prezzo Semia Milano mette in vendita come «modello Gaia», si trova su Aliexpress a 13 euro, su Taobao a 76,80 yuan (10 euro). Azienda produttrice: Yangjianghai
Jingchuang Industry, con sede a Guangdong
Una rete di siti truffa
Non c’è nulla di illegale nel vendere il prodotto di qualcun altro (dropshipping), guadagnando sull’attività di intermediazione. A condizione che venga dichiarato il nome del produttore e, naturalmente, che non venga spacciato per artigianato italiano di alta qualità l’abito uscito da un capannone cinese.
Altrimenti è una truffa, che alimenta quei 4,8 miliardi di danni causati ogni anno dal mercato del falso Made in Italy, con un consumatore su 5 che ammette di aver comprato online prodotti contraffatti credendoli autentici. Il nostro Dataroom parte da qui. Chi c’è dietro a questo filone di falsi artigiani in fallimento che sta popolando di svendite i social network? Ci aiuta Twin4Cyber, la start up di cybersicurezza fondata da Pierguido Iezzi, che ha seguito i gestori di questi siti, anche attraverso il deep web e il dark web.
Dove portano le tracce informatiche
Il sito Semia Milano viene registrato il 6 giugno 2024 a nome di Stefano M., un ignaro professore di liceo siciliano in pensione. In realtà le tracce informatiche portano a due fratelli olandesi, Tarik e Altan, che a novembre registrano anche un altro portale di e-commerce, con sede ad Amsterdam, dove vendono gli stessi abiti cinesi. I siti si somigliano tutti. Anche la registrazione della fantomatica sartoria Tagliabue di Bologna porta a un ragazzo olandese, che a fine 2024 pubblicava su siti filippini degli annunci per cercare «gestori di attività di dropshipping in Italia». La storia è sempre la stessa: su Facebook i fratelli Marco e Luca Tagliabue annunciano «con le lacrime agli occhi» la chiusura della sartoria perché «i grandi colossi» hanno avuto la meglio. Anche le parole sono le stesse usate nella lettera d’addio alla clientela da Anna e Marie dell’atelier Vittoria a Firenze, da Lorenzo e Francesca di Bottega Serrani, e dai fratelli Matteo e Lorenzo Sartori di Pelletteria Firenze. E dalla pagina Facebook di quest’ultima inesistente Pelletteria si finisce dritti sul sito di Svenna Milano, dal quale eravamo partiti. Tutti propongono i tessuti pregiati del rinomato artigianato italiano, ma agli acquirenti arrivano i soliti abiti cinesi. I truffati sono migliaia, e quando il cliente si accorge del raggiro è troppo tardi. C’è chi scrive all’indirizzo email lasciato dai venditori per lamentarsi, chi denuncia, chi scrive all’Antitrust. Ma uno dopo l’altro i siti chiudono, per riaprire poco dopo con nomi diversi.
Un’unica mente
Il raggiro non è nuovo (i primi casi risalgono al 2023), ma è piuttosto fondata l’idea che a tirare le fila di questa sfilza di negozi-fake ci sia un’unica organizzazione criminale con sede in Olanda. Invece i complici per la gestione dei profili Facebook e Instagram ci risultano in Italia, e quelli per lo sviluppo dei siti e delle pagine social in Asia. A dimostrarlo sono le impronte informatiche e il fatto che l’inganno si incardina sulla medesima matrice: la sartoria simbolo del Made in Italy, i titolari che ci mettono la faccia per raccontare la loro struggente storia di vittime di concorrenza sleale, con il cliente attratto dalla possibilità di fare una buona azione e contemporaneamente un buon affare. Che invece è un «pacco». Inoltre: i siti sono tutti registrati a partire dall’estate 2024, tutti realizzati con la stessa grafica, tutti vendono gli stessi prodotti agli stessi prezzi, e spesso sono pure uguali le recensioni e i testi per descrivere le policy su resi e privacy. Il sistema è completamente automatizzato, perfino la denominazione dei brand che richiamano all’italianità vengono scelti con Namelix, piattaforma di intelligenza artificiale che suggerisce i nomi più efficaci per ogni tipo di attività commerciale e che verifica la disponibilità dei relativi domini internet.
I negozi si appoggiano tutti a Shopify, piattaforma canadese che ospita 1,7 milioni di venditori da 175 Paesi e che lo scorso anno ha fatto ricavi per 8,9 miliardi di dollari. Shopify pensa a tutto, mettendo a disposizione le tecnologie che servono per gestire l’attività di dropshipping a cominciare dalle transazioni di pagamento. Su questa piattaforma – ce lo conferma la stessa Shopify – chiunque può iniziare a vendere senza dover aprire la partita Iva.
Chi indaga
Tre anni fa Shopify era finita nel mirino della Commissione europea «a seguito dei numerosi reclami», ma ne era uscita con un formale impegno a tutelare di più i consumatori. E allora, perché non ferma questa truffa? Di fronte alle lamentele dei clienti, ancora oggi risponde di non avere «alcuna voce in merito alla modalità con cui le attività commerciali sono condotte», però invita a segnalare: «Anche se per ragioni di privacy i risultati di eventuali indagini non sono divulgati, questo non significa che internamente non siano intraprese azioni». In sostanza qualora la piattaforma dovesse chiudere uno di questi negozi online, mai lo renderà pubblico. Intanto però i truffatori continuano a incassare. Da parte nostra abbiamo segnalato i fatti sopra esposti alla Polizia postale, che ci ha risposto di aver attivato verifiche e che il monitoraggio del fenomeno attraverso i propri Centri operativi per la sicurezza cibernetica è in corso. Speriamo bene.
Milena Gabanelli e Andrea Priante
(dacorriere.it)
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