Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
LA PROPOSTA DI MELONI AL “TRUCE” MATTEO: FDI È DISPOSTA A LASCIARE IL VENETO ALLA LEGA, MA A QUEL PUNTO LA REGIONE LOMBARDIA TOCCA A NOI (A FORZA ITALIA, IL SINDACO DI MILANO)
Scazzo dopo scazzo, tensione dopo tensione, il big bang nella maggioranza di governo
si avvicina: il vero Armageddon non è legato alle alleanze internazionali o al posizionamento dell’Italia tra Usa e Ue, quanto piuttosto dalla vile spartizione della torta del potere.
Saranno le Regionali, previste in autunno, a sancire il futuro del governo Meloni. Si vota in cinque regioni, quattro delle quali molto importanti: Veneto, Toscana, Campania, Puglia e, fanalino di coda, Marche.
A fare gola è soprattutto la Regione governata dal “Doge” Luca Zaia. Stroncata dalla Consulta l’ipotesi di un terzo mandato dell’ex ministro dell’Agricoltura – e qui ha prevalso la volontà della Fiamma di far suo il Veneto -, la Regione potrebbe tornare contendibile, qualora Zaia decidesse di chiamarsi fuori dai giochi politici romani, e convogliasse il suo bacino elettorale su un suo candidato nella Liga Veneta.
A quel punto, il voto del centrodestra si spacchetterebbe e l’opposizione potrebbe tentare il tutto per tutto convergendo su un candidato civico, e ripetere il “miracolo” Verona, dove nel 2022 vinse il moderatissimo Damiano Tommasi, in quota dem.
Un’ipotesi al momento 1-2-X, considerata l’altissima tensione tra il Pd di Elly e il M5S di Conte nella loro gara a chi è più ego-stronzo del reame. Certo, se i paragrillini con pochette ottenessero l’ok al loro candidato, Roberto Fico, per la Campania, la situazione potrebbe sbloccarsi in un batter d’occhio. Ma è un’ipotesi molto remota, vista la debolezza dell’ex presidente della Camera nei sondaggi fin qui svolti, che vedono un distacco insostenibile da una eventuale lista civica di Vincenzo De Luca, in chiave amti-dem.
L’unica certezza dal Veneto è che, senza Zaia, la destra non vince. Giorgia Meloni lo sa, ma allo stesso tempo è intenzionata a “riequilibrare” la spartizione delle amministrazioni locali (il Carroccio malconcio di oggi non può permettersi di governare due regioni come Veneto e Lombardia).
La proposta meloniana al Er Truce” Salvini è questa: se la Lega tiene il Veneto, di sicuro non potrà mantenere anche la Lombardia, nel 2028. La Ducetta sogna la doppietta: conquistare il Pirellone, motore della regione più ricca d’Italia, e il potere finanziario della Madunina attraverso l’operazione Mps-Caltagirone-Milleri per sbancare Mediobanca e prendersi il forziere di Generali
Lo schema è semplice: Lombardia a Fratelli d’Italia, Comune di Milano a Forza Italia, e il Veneto può restare alla Lega. Se Salvini si impunta? S’attacca e tira forte! E Fratelli d’Italia si prende tutto. Ma, a quel punto, le conseguenze sull’alleanza potrebbero risultare fatali per il primo governo Meloni…
Ps. Ci sarebbe solo un piccolo dettaglio: trovare un candidato. Salvini spinge il suo fedelissimo, Alberto Stefani, mentre Zaia punta sul sindaco di Treviso, Mario Conte, ma una quadra (magari in cambio di qualche strapuntino per il Governatore) si trova sempre…
(da Dagoreport)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
LO STIPENDIO MEDIO NEGLI STATI UNITI TOCCA QUOTA 80MILA DOLLARI, IN ITALIA È DELLA METÀ… IL VERO GUAIO È LA DISUGUAGLIANZA: I RICCHI SONO SEMPRE PIÙ RICCHI, I POVERI SEMPRE PIÙ POVERI. E TRUMP VUOLE SCARICARNE LA RESPONSABILITÀ SUGLI ALTRI
Il simbolo dell’America è un’Aquila dallo sguardo severo, dominatore. Donald Trump, invece, ci sta raccontando il Paese più potente come se fosse un volatile impacciato, spiumato da tutti gli altri governi del pianeta. Non solo dagli avversari cinesi, ma anche dagli alleati storici, gli europei «parassiti» e irriconoscenti.
E persino dal piccolo e anonimo Lesotho, colpevole di fornire, sotto costo secondo Trump, il denim, il cotone che serve a confezionare i jeans, come quelli della Levi’s. Il mondo descritto da Trump tocca le vette della manipolazione.
A suo modo è un capolavoro della comunicazione. Ma le cose non stanno proprio così.
Basta esaminare alcune cifre elaborate dalla Banca Mondiale per scoprire che negli ultimi decenni sono stati gli Usa a guadagnare quote di mercato, ad arricchirsi più di altri e anche a spese degli altri.
Nel 2008 il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti era pari a quello dell’Eurozona: circa 14 mila miliardi di dollari. Quindici anni dopo, nel 2023, il Pil americano è balzato a quota 27 mila miliardi di dollari, quasi il doppio di quello dell’Eurozona, rimasto inchiodato a 15 mila miliardi.
Ancora, nel 1990, il salario medio annuo americano si aggirava intorno ai 53 mila dollari, diecimila in più rispetto alla media dei 38 Paesi raccolti nell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Nel 2023 la forbice si è ulteriormente allargata: lo stipendio medio Usa ha
toccato quota 80 mila dollari, quello dell’Ocse è salito a un ritmo molto più lento, attestandosi a 58 mila dollari.
Infine il dato forse più sorprendente, aggiornato al 2024. Il reddito pro capite dello Stato più povero degli Usa, cioè il Mississippi, è pari a 53 mila dollari, una cifra superiore a quella di Regno Unito (52,420 dollari), Francia (48.010 dollari), Italia (40.290 dollari), Spagna (35.790 dollari). Solo la Germania va un po’ meglio del fanalino di coda degli Usa.
Le statistiche ufficiali smentiscono alla radice la rappresentazione trumpiana. Eppure questi numeri non fanno breccia nel dibattito interno. Solo qualche analista, come Fareed Zakaria, li ha evocati di recente, sulla «Cnn». In fondo sarebbero un buon argomento nelle mani dell’opposizione democratica: l’America non è affatto svantaggiata; anzi ha progredito più di tutti, quindi non c’è bisogno di alcuna rivincita, di alcuna guerra commerciale o economica.
La corsa americana comincia da anni lontani. Il dibattito è aperto. I repubblicani dicono con Ronald Reagan (1981-1989); i democratici con Bill Clinton (1993-2001). In ogni caso la grande trasformazione dell’economia americana inizia tra gli Ottanta e i Novanta, con la formidabile spinta della finanza, della tecnologia digitale, mentre la manifattura tradizionale piano piano si ridimensiona. Come abbiamo visto aumenta la ricchezza in termini assoluti e anche pro capite; lievitano i salari.
Il problema, però : come sono state distribuite, nel concreto, in modo capillare, le risorse aggiuntive tra la popolazione? Per rispondere ci viene in soccorso l’Indice di Gini, il parametro che misura il grado di disuguaglianza nella società. Funziona come una pagella, ma al contrario. Zero è il punteggio massimo: uguaglianza perfetta; 100% è il minimo: disuguaglianza totale.
Ebbene negli Stati Uniti ricchezza e squilibri nella distribuzione sono sostanzialmente cresciuti in parallelo. Nel 1981, anno primo dell’era reaganiana, l’Indice di Gini era pari a 35,5%; nel 1993, con Clinton alla Casa Bianca, era salito al 38%. Nel 2022, ultimo anno disponibile nella seria della Banca Mondiale, l’indice ha raggiunto il 41,3%.
i dati mostrano che oggi il livello di ineguaglianza negli Usa è simil
quello della Malesia, dell’Argentina, del Messico e, ironicamente, dello stesso Lesotho. I Paesi concorrenti devono affrontare squilibri minori. In Cina, il valore dell’Indice di Gini è 35,7%, in India, 32,8%, in Germania 32,4%, in Italia 34,8%.
Più un Paese è ricco, meno sono accettate le disuguaglianze. È la ragione che, forse più di altre, ha riportato Trump nello Studio Ovale. Ma il presidente, anziché affrontare il malfunzionamento strutturale della distribuzione interna del reddito, ne ha scaricato la responsabilità sugli altri Stati.
(da “Corriere della Sera”)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
IL “FINANCIAL TIMES”: “PECHINO POTREBBE PERDERE DOMANDA DAGLI STATI UNITI, MA PUÒ SOSTITUIRLA CON LA DOMANDA INTERNA. LA CINA PUÒ FARE A MENO DELLE IMPORTAZIONI DAGLI STATI UNITI. CINQUE ANNI DI CONTROLLI SULLE ESPORTAZIONI L’HANNO RESA MOLTO ABILE A PRODURRE BENI SENZA TECNOLOGIA AMERICANA”
Una settimana di traumi da dazi ha lasciato l’economia globale non molto peggio di
quanto fosse nel “giorno della liberazione” proclamato dal presidente Donald Trump.
Trump ha fatto marcia indietro rispetto alle sue minacce più estreme di dazi “reciproci”, ma restano in vigore un prelievo minimo del 10% su quasi tutte le importazioni statunitensi, dazi del 25% su acciaio, alluminio e automobili, e un tariffario esorbitante del 145% sulla Cina. […] qualsiasi piano del genere è destinato a fallire.
Per capire perché, bisogna prima comprendere cosa vuole davvero Trump dai dazi. Le motivazioni ufficiali — contrastare pratiche commerciali sleali, eliminare i disavanzi commerciali, reindustrializzare l’America, affrontare la Cina — non reggono. Trump invoca spesso questi obiettivi, ma essi si contraddicono a vicenda, sono smentiti da altre sue politiche sono evidentemente irrealizzabili.
Una spiegazione più coerente è che Trump sia mosso principalmente dal desiderio di accumulare ed esercitare potere, e che i dazi siano lo strumento migliore per farlo. Lo scopo della sua guerra commerciale generale è rimuovere i vincoli imposti dall’ordine economico globale all’esercizio unilaterale del potere statunitense, e in particolare al potere discrezionale del presidente.
I dazi sono lo strumento preferito per due ragioni. Primo, Trump è convinto da decenni che il resto del mondo sia disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di accedere al mercato americano. Secondo — e forse più importante — finché il Congresso non lo blocca, Trump ha l’autorità personale illimitata di imporre (o revocare) dazi a qualsiasi Paese, in qualsiasi momento, per qualsiasi ragione.
Quello che Trump desidera, più di ogni altra cosa, è ostentare dominio ed estorcere sottomissione. I Paesi che non hanno opposto resistenza attiva ai suoi dazi hanno ricevuto, per grazia presidenziale, esenzioni dalle tariffe più alte. Il Paese che ha osato sfidarlo è stato punito severamente.
Oggi la maggior parte dei Paesi ha capito che le varie giustificazioni economiche fornite dai consiglieri di Trump sono solo una facciata. Finché sarà lui al comando, gli Stati Uniti saranno inaffidabili, e nessun leader razionale si unirà a una crociata contro la Cina.
Un secondo motivo per cui la guerra commerciale di Trump contro la Cina fallirà:
La ritirata ignominiosa di mercoledì scorso dai dazi “reciproci” ha mostrato che è il mercato obbligazionario a stabilire l’ampiezza del bastone tariffario di Trump, ed esso è molto più piccolo di quanto lui credesse. Dopo una reazione negativa dei mercati, Trump ha dovuto fare marcia indietro.
Ha perso così la leva nei negoziati commerciali. Non può più alzare i dazi, perché il mercato dei Treasury si ribellerebbe nuovamente. La conseguenza è che la maggior parte dei leader globali cercherà accordi rapidi in cui si riducono i dazi in cambio di concessioni cosmetiche e segni esteriori di deferenza. Nessuno, però, accetterà di compromettere i propri rapporti commerciali con la Cina.
Terzo motivo per cui la guerra fallirà: la Cina stessa.
A un primo sguardo, la Cina sembra messa peggio degli Stati Uniti: ha perso l’accesso a uno dei suoi maggiori mercati di esportazione e appare isolata diplomaticamente. Ma in realtà, è ben preparata a sostenere una guerra di logoramento economico contro gli USA.
La Cina potrebbe perdere domanda dagli Stati Uniti, ma può sostituirla con la domanda interna dei consumatori, che è stata anormalmente debole a causa di una politica monetaria troppo restrittiva e di un’ossessione per il sostegno statale all’industria manifatturiera. Xi Jinping ha cambiato rotta e ora sembra seriamente intenzionato a stimolare la domanda interna.
La Cina può inoltre fare a meno delle importazioni dagli Stati Uniti. Cinque anni di controlli sulle esportazioni l’hanno resa molto abile a produrre beni senza tecnologia americana.
Nonostante alcuni timori sui mercati, la Cina può stabilizzare la propria economia senza una forte svalutazione della valuta. Pechino ha leggermente allentato i controlli sul renminbi per assorbire parte della pressione tariffaria, e potrebbe consentirne una svalutazione dell’1 o 2% aggiuntivo.
Ma una manovra credibile di stimolo alla domanda attirerà nuovi flussi di capitale, sostenendo il cambio.
Intanto gli Stati Uniti affrontano un’inflazione molto più elevata a causa delle tasse sui beni di consumo cinesi. La loro dipendenza da input industriali cinesi è tre volte superiore rispetto alla dipendenza della Cina da componenti statunitensi.
I prezzi più alti delle materie prime stanno già danneggiando gli investimenti aziendali. La Cina ha un problema di domanda, che può risolvere con una migliore politica macroeconomica. Gli Stati Uniti affrontano uno shock dell’offerta e un possibile scenario di stagflazione, risolvibile solo con un cambio di regime economico.
Se l’obiettivo della nuova guerra commerciale di Trump contro la Cina è costringere Pechino a piegarsi al potere statunitense, il risultato sarà solo frustrazione e delusione.
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
“A LIVELLO TERRITORIALE, È CHIARO COSA VUOLE: LE QUATTRO PROVINCE, PER INTERO. PUÒ AVERLE ANCHE SENZA GUERRA, A MIO AVVISO, TRATTANDO CON GLI USA. MA NON SI FIDA. CAPISCE CHE TRUMP È A CORTO DI TEMPO: DEVE OTTENERE UN RISULTATO PUR CHE SIA. E SICCOME NON SI FARÀ DETTARE LA FINE DELLE OSTILITÀ DA UN PRESIDENTE USA LUNATICO, STA FORZANDO LA MANO”
«Che orrore». Aleksej Venediktov ascolta in silenzio un rapido resoconto del massacro di Sumy. I media russi l’hanno presentato come un generico colpo inferto a un raduno di militari. Appena dieci giorni fa avevamo incontrato il settantenne fondatore di radio Eco di Mosca in un ristorante poco distante dal ministero degli Esteri. Mentre parlava a ruota libera, sono entrati gli uomini del Cremlino, gli assistenti personali di Vladimir Putin.
E tutti si sono avvicinati al nostro tavolo per salutare il vecchio amico e confidente del presidente, che nonostante sia stato dichiarato agente straniero per via della sua dichiarata contrarietà alla guerra, conserva intatta la sua agibilità sociale. Zona grigia, in purezza. Ma anche una conoscenza dei fatti unica
Non conta nulla il fatto che Trump ha ridato una centralità politica alla Russia?
«Il candidato alla Casa Bianca preferito dal Cremlino non era Kamala Harris, e non era Trump. Il candidato ideale è sempre il signor Caos. Forse, Putin avrebbe preferito un presidente democratico debole come Harris, con il Congresso repubblicano, quindi il caos. Invece si ritrova con Trump, che consegnò le armi letali all’Ucraina durante il primo mandato, che bloccò
Nord Stream. Non Obama, non Biden, gente facile da “gestire”, ma uno che così come ha staccato gli aiuti all’Ucraina, così li ha riattaccati. E cosa potrebbe togliere alla Russia, non lo sa nessuno».
Lei crede che questi negoziati porteranno a qualcosa?
«Qualche risultato arriverà. Steve Witkoff si occupa allo stesso modo sia di Israele, sia del conflitto armeno-azero, sia della Russia e dell’Ucraina. Su tutti questi scenari, essendo in buona sostanza disinteressati ai torti o alle ragioni, gli Usa conoscono solo una strategia: il congelamento. Se lo chiede a me, credo che ne verrà fuori una partizione mai risolta e mai ufficiale, una specie di Cipro del Nord».
Intende il Donbass o l’intera Ucraina?
«Mi riferisco all’intera Ucraina, purtroppo. Quanto al Donbass, il problema principale è la gente del luogo. Lugansk più Donetsk: sono cinque milioni di persone. Due milioni stanno in Russia, già da prima dell’inizio della guerra; un milione e mezzo stanno in Ucraina: sono profughi. Lasciando da parte eventuali linee di confine: che ne sarà di questa gente?»
Putin non sembra avere intenzione di fermarsi.
«Con la semplice tregua, non finirà nulla. Bisogna separare i sogni dalla realtà. Putin non vuole la pace, e secondo me neppure Zelensky. Per ragioni diverse, ovviamente. Putin non ha raggiunto i suoi obiettivi, e quindi sta accelerando. Sta cercando una via più veloce, con altre armi, magari con una mobilitazione camuffata».
E Zelensky?
«Per lui è diverso. È il suo popolo che non vuole la tregua. Qui in Russia, Putin non dipende dall’opinione pubblica, se la disegna lui da solo. Zelensky invece dipende dalla popolazione ucraina. E da tutti i sondaggi emerge che la gente non desidera alcun accordo con il Cremlino sanguinario. Trump lo sa, e infatti si rivolge al Cremlino».
Quindi bisogna aspettare che Putin si prenda tutto quello che pretende?
«A livello territoriale, è chiaro cosa vuole. Le quattro province, per intero. Può averle anche senza guerra, a mio avviso, trattando con gli Usa. Ma non si fida. E quindi bombarda, e accelera. Perché si rende anche conto che il suo tempo è limitato».
Ma se ha settant’anni ed è certo di rimanere presidente fino al 2036«Una volta Mikhail Gorbaciov mi disse: “Alyosha, al Cremlino non ci sono ingenui”. La missione che si è dato Putin è inattuabile. Non riuscirà a creare un impero come quello cinese o quello americano. Ma lui non lo sa, e si sente in ritardo sulla tabella di marcia. In più, capisce che Trump è a corto di tempo: deve ottenere un risultato pur che sia. E siccome non si farà dettare la fine delle ostilità da un presidente Usa lunatico, sta forzando la mano».
(da “Corriere della Sera)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
TRA LORO FORZE DELL’ORDINE, FUNZIONARI DELLA PREFETTURA E DUE MAGISTRATI… CHIESTE 13 MISURE CAUTELARI
Cominceranno mercoledì davanti alla gip Silvia Carpanini e andranno avanti fino alla
fine di aprile gli interrogatori dei 13 indagati (tra ufficiali della capitaneria di porto e dipendenti della società marittima Cin-Tirrenia) per i quali il pm Walter Cotugno ha chiesto la misura cautelare a vario titolo per i reati di frode, falso e corruzione nell’ambito dell’inchiesta che ha portato al sequestro di tre traghetti Cin.
L’inchiesta partita due anni fa per i componenti dei motori non a norma
L’indagine era nata nel 2023 da un’ipotesi di frode nelle pubbliche forniture in relazione a parte dei fondi che Cin ha ottenuto dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per garantire la continuità territoriale con i propri traghetti sulla linea Genova-Porto Torres. Secondo l’accusa le navi della società (acquisita dalla Cin della famiglia Onorato nel 2015) erano prive dei requisiti fissati dalla normativa internazionale in materia
ambientale. Secondo gli inquirenti, alcuni componenti dei motori principali e dei diesel generatori di corrente sarebbero stati manomessi o sostituiti con pezzi di ricambio non originali e, quindi, non conformi alle norme, che sarebbero state aggirate con attestazioni fasulle riportate sui registri o attraverso la contraffazione dei segni di autenticazione di competenza delle autorità pubbliche.
Così la compagnia, secondo chi indaga, avrebbe evitato il fermo della navigazione fino a quando le irregolarità circa un anno fa non sono venute alla luce. A quel punto la compagnia ha collaborato con gli inquirenti e sanato la situazione (oggi i traghetti sequestrati possono navigare anche perché risultano in regola con le normative, ma l’azienda non può disporne commercialmente) e per questo oggi si dice “stupita” della richiesta di misure cautelari.
Le richieste del pm: due arresti e 11 misure interdittive
Le richieste fatte dal pm alla gip che, in base alla nuova legge sulla custodia cautelare, prevedono che l’interrogatorio preceda l’emissione della misura, sono di due arresti domiciliari e di undici di misure interdittive con contestazioni che riguardano il falso ma anche la corruzione perché i militari del nucleo di polizia economica e finanziaria e la stessa guardia costiera hanno scoperto che in diversi casi in cambio ai funzionari compiacenti sarebbero stati regalati i biglietti per viaggi in Sardegna o in Sicilia.
Almeno 40 indagati tra cui due magistrati
Ma l’inchiesta non riguarda solo i dipendenti dell’azienda e la capitaneria. Scavando sui titoli di viaggio regalati dalla compagnia gli investigatori hanno scoperto una lunga lista di “gratuità” destinata a pubblici ufficiali di vario tipo: un elenco che comprendere almeno 40 persone.
Tra questi ci sono due magistrati – per i quali il pm ha già trasmetto gli atti alla Procura di Torino per competenza – e diversi funzionari della Prefettura e della Questura.
L’ipotesi di reato è l’articolo 318 del codice penale, vale a dire la corruzione nell’esercizio della funzione, vale a dire l’aver ricevuto od essere disposti ad accettare denaro o altri favori mettendo in cambio il proprio ruolo di pubblico ufficiale a disposizione per favorire la compagnia.
(da Genova24)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
GLI INIZI DA OPERAIO IN UNO ZUCCHERIFICIO, I GIORNI TRAGICI DELLA PRIGIONIA DI ALDO MORO, GLI ANNI DA SOTTOSEGRETARIO DI BERLUSCONI CON LA MEDIAZIONE TRA IL CAV E NAPOLITANO E LA BATTAGLIA PER PORTARE ALLA PRESIDENZA DELLA RAI LA SUA PROTETTA SIMONA AGNES
Non è poi così difficile incontrarlo, a Roma. A un convegno, alla presentazione di un libro. Mai in ritardo, eleganza curata e sobria, portamento eretto, incedere affabile. Se poi capita di essere tra i pochissimi che non ne riconoscono il volto, niente paura, basta aspettare il suo turno, tra gli oratori.
Se parla a braccio, sempre in piedi, senza un appunto, senza incespicare, senza allungare le vocali per cercare le frasi giuste, al massimo con un libro da aprire per leggere il passo di uno scrittore, o di uno storico, probabilmente per vezzo perché, c’è da giurarlo, lo conosce a memoria, ecco, allora quello è Gianni Letta.
Se poi un ragazzo di 18 anni entra come operaio nello zuccherificio della sua Avezzano per poi presto diventare il capo del reparto chimico, se poi bussa al quotidiano Il Tempo per poi uscirne dopo tre lustri da direttore, se quindi incontra un eterno giovanottone e ne diventa consigliere e sottosegretario alla presidenza del Consiglio senza aver mai preso una tessera di partito, quello è ancora lui, Gianni Letta, che domani, 15 aprile, compirà 90 anni.
Nel 2010, rievocando i giorni tragici della prigionia di Aldo Moro,
raccontava: «Spesso ci incontravamo con Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli, forse ho imparato allora il valore del dialogo sereno, pacato, serio, costruttivo, anche da posizioni distanti e differenti». Pare sempre dar ragione al suo interlocutore, ma senza lo spirito truffaldino del fregapiano. Neologismo romanesco per indicare chi ti blandisce per poi lasciarti a piedi.
Non gli appartiene, troppo volgare, anche se poi a volte capita che il risultato sia lo stesso.
Indispensabile nel suo ruolo di mediatore felpato, difficilmente imitabile, anche se, non appena appare nella politica la meteora di un nuovo leader di successo, tutti si chiedono subito chi sarà mai il suo Gianni Letta.
Note alle cronache le rasoiate tra Silvio Berlusconi presidente del Consiglio e Giorgio Napolitano Capo dello Stato.
Ma Letta si preoccupa di smentire che mai ci sia stato un golpe bianco ordito contro il Cavaliere, perché «poteva essere difficile quella convivenza, ma da tutte e due le parti non venne mai meno la volontà e la forza di mantenersi nei binari della correttezza istituzionale. Mi piace l’idea che possano chiarirsi lassù».
Può apparire una frase all’insegna del «vogliamoci bene che non ci costa niente», ma non è così, perché la difesa del presidente della Repubblica è assolutamente nelle corde di Letta. Tanto da esprimersi pubblicamente contro il premierato: «La riforma costituzionale fatalmente ridurrebbe i poteri del capo dello Stato, mentre la sua figura sta bene così. Non la attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate».
Gentiluomo di sua Santità, gran cerimoniere del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, sua e di sua moglie Maddalena Marignetti la crostata per cercare un’intesa o un inciucio tra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, agile nel muoversi da un capannello all’altro nel salotto di Maria Angiolillo, dove si gettavano le basi per un accordo, per un affare o per una nomina, sua una candidatura al Quirinale, voluta dal Cavaliere, che raccolse 369 voti, un rapporto di stima e ammirazione per Giulio Andreotti.
Un numero impressionante di presidenze, di ruoli da consigliere, di partecipazioni a consigli d’amministrazione, di Fondazioni e quant’altro. E c’è da credere che mille associazioni di ogni tipo di cui non fa parte, farebbero carte false pur di averlo. Maestro nell’arte di soprassedere, di lui scrisse Giuliano Ferrara negli anni del governo: mentre io mi chiedevo che cosa fare, Gianni sapeva sempre che cosa non fare.
Morbido e bene educato sempre, ma anche tagliente alla bisogna. Dopo aver taciuto alla morte di Berlusconi spiegò in una lettera a Il Messaggero: «Ho scelto il silenzio anche per la sensazione che tanti lo celebravano per celebrarsi».
Poi un’eccezione alla sua regola di non presenziare ad appuntamenti di partito, ai trenta anni di Forza Italia: «I figli del Cavaliere mi hanno chiesto di essere qui, di portare la testimonianza della loro convinta partecipazione, come il papà voleva». Quindi l’investitura a leader di Antonio Tajani, ricordando le parole di Berlusconi: «In tanti anni che ho avuto Antonio al mio fianco, non ha mai sbagliato un intervento o una dichiarazione».
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, sta cercando di mettere a punto un modo per festeggiarlo a Palazzo Madama, domani, nel giorno del suo compleanno, magari con un pranzo.
(da Il Corriere della Sera)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
“IL PASSO INDIETRO SUI DAZI? NON CREDO ABBIA FATTO CALCOLI DI MERCATO. LUI PASSA MOLTO TEMPO DAVANTI ALLA TV: È RIMASTO COLPITO DALLE DICHIARAZIONI DURISSIME DI PERSONAGGI CHE STIMA. E’ STATA DISTRUTTA LA CREDIBILITÀ DELL’AMERICA”
«Circondato da yes men che, anziché frenarlo, hanno incoraggiato la scelta folle di
dichiarare guerra contemporaneamente ad amici e nemici, alleati militari e partner commerciali, nonché all’opposizione politica interna, Donald Trump ha inferto danni gravi agli Stati Uniti e all’economia mondiale. Ma non fino al punto da cambiare in profondità gli equilibri geopolitici: il riavvicinamento tra Europa e Cina, se ci sarà, sarà limitato».
Secondo il politologo di Eurasia Ian Bremmer, con la sua insipienza il presidente americano ha aperto le cateratte di una crisi con conseguenze negative per la leadership degli Stati Uniti che andranno misurate su un arco decennale, non nei prossimi sei mesi.
Xi Jinping cerca di sfruttare gli errori di Trump e la perdita di credibilità degli Stati Uniti, per presentarsi ai Paesi europei come un partner più affidabile e amichevole. Può riuscire?
«Solo in parte: nonostante Trump abbia fatto di tutto per alimentare la rabbia dei suoi alleati, rimane il fatto che in tutti i settori più avanzati e strategici — tecnologie informatiche, intelligenza artificiale, tutte le produzioni industriali per la difesa — gli Stati Uniti rimangono l’unico partner possibile per l’Europa e gli altri Paesi occidentali.
Impensabili partnership, ad esempio in campo militare, con Pechino. Negli altri settori mi aspetto, invece, una spinta cinese, magari basata su una riduzione dei dazi, finalizzata a rafforzare i legami commerciali con la Ue.».
In pericolo anche il dollaro e la leadership Usa in campo finanziario?
«Non nell’immediato. Ma con i suoi gesti politici scriteriati Trump ha distrutto un capitale di credibilità del sistema America […]».
In che modo se non sarà la Cina ad avvantaggiarsene?
«Se l’America e il dollaro non verranno più percepiti come approdi sicuri, assisteremo al fiorire di accordi bilaterali e a un’intensificazione dei rapporti finanziari diretti tra Unione europea e altre parti dell’Occidente: Canada, Giappone, Corea del Sud».
«Questa è una crisi diversa da quella del 2008: allora democratici e repubblicani lavorarono insieme per evitare che la recessione diventasse depressione. […] anche la Cina si adoperò per limitare la diffusione del contagio. Stavolta non possiamo contare su nessuno di questi fattori per attutire gli effetti della crisi».
Però lei stesso riconosce che i danni verranno limitati dalla moratoria sui dazi e dall’esenzione di microchip, smartphone e altri prodotti tecnologici dalle sanzioni nei confronti della Cina.
«Vero, ma partivamo da misure catastrofiche. E ora, anche con tutti i ridimensionamenti annunciati da Trump negli ultimi giorni, quella attuata nel suo secondo mandato rimane la manovra protezionista più pesante nella storia americana: è entrato comunque in vigore il prelievo del 10% su tutto quello che entra negli Usa. E poi, escludendo i prodotti elettronici, i dazi imposti da Trump sull’import dalla Cina sono talmente elevati da configurarsi come un vero e proprio embargo».
L’esenzione per smartphone e semiconduttori non può essere un inizio di disgelo?
«non credo a un improvviso rasserenamento dei rapporti tra le due potenze: quello può essere frutto solo di un confronto diretto fra i due presidenti. E Xi in questa fase non ha interesse ad andare a negoziare direttamente con Trump: sarebbe una prova di debolezza».
Trump ha sorpreso tutti col dietrofront sui dazi. Cosa lo ha spinto a un atto contrario alla sua filosofia che è quella di non fare mai un passo indietro, non ammettere mai un errore? Spaventato dai mercati che, nei momenti di crisi della Borsa, tendono a rafforzare il dollaro, mentre stavolta biglietto verde e obbligazioni sono andati in picchiata insieme ai valori azionari
«Non credo abbia fatto calcoli di mercato. Ma lui passa molto tempo davanti alla tv: è rimasto colpito dalle dichiarazioni durissime di personaggi che stima come il capo della banca JP Morgan Chase, Jamie Dimon. E dall’azione dello stesso Elon Musk, molto attivo nel premere sul presidente pubblicamente e dietro le quinte».
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE CINESE HA IL COLTELLO DALLA PARTE DEL MANICO: GLI STATI UNITI HANNO REGALATO A PECHINO IL MONOPOLIO DELLA FABBRICAZIONE DEI LORO PRODOTTI DI PUNTA (IPHONE IN PRIMIS). E ORA S’ATTACCANO AL DAZIO
Con l’intensificarsi della guerra commerciale tra Usa e Cina, Pechino ha sospeso l’export di diversi elementi critici delle terre rare, metalli e magneti, minacciando il blocco delle forniture all’Occidente di componenti essenziali per l’industria bellica, elettronica, automobilistica, aerospaziale, dei semiconduttori e di una vasta gamma di beni di consumo.
Il governo cinese, ha riferito il New York Times, sta elaborando un nuovo sistema di regolamentazione che, una volta entrato in vigore, potrebbe impedire definitivamente alle forniture di raggiungere alcune aziende, tra cui gli appaltatori militari americani.
La Cina prova a interpretare l’ultima marcia indietro di Trump sui dazi come un vero ripensamento. E ad indicargli una strada per invertire l’escalation commerciale. Le esenzioni su smartphone, computer, chip e altri prodotti elettronici annunciate sabato da Washington sono «un piccolo passo per correggere le sue errate pratiche multilaterali», ha commentato ieri il ministro del Commercio di Pechino.
Aggiungendo però che serve «un grande passo», cioè «abolire del tutto le tariffe reciproche e tornare al giusto metodo di risolvere le differenze attraverso rispetto reciproco e dialogo tra uguali».
Molta dell’elettronica esclusa sabato dalle tariffe è prodotta in Cina, da aziende locali ma anche americane come Apple: con tariffe al 145% il colpo sarebbe stato enorme. Secondo alcune stime le esenzioni salvano circa un quarto delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti, per un valore di oltre 100 miliardi di dollari.
La risposta cinese è significativa, sia nella forma che nella sostanza.
Nella forma perché il ministero del Commercio ha colto la palla al balzo, uscendo dai tradizionali canali di comunicazione di regime e pubblicando una serie di “domande e risposte” sul proprio sito. E nella sostanza perché […], configura un […] passetto verso la Casa Bianca: per premere il pulsante reset Pechino chiede a Trump di eliminare solo le tariffe reciproche, a cui ha replicato dazio su dazio, e non il precedente 20% applicato come punizione per la mancata collaborazione nell’arginare il traffico di oppioidi.
La replica cinese si basa in ogni caso su un presupposto molto ballerino: cioè che lo stop di Trump segnali davvero un cambio di strategia rispetto al divorzio economico dalla Cina. La versione ufficiale della Casa Bianca infatti è che l’esenzione sui beni elettronici sia solo temporanea, in attesa di mettere a punto uno specifico pacchetto settoriale
Ieri lo ha ribadito il segretario al Commercio Lutnick, spiegando che il pacchetto potrebbe arrivare «entro un mese o due», e che è ferma volontà dell’amministrazione riportare negli Stati Uniti le produzioni tecnologiche scappate negli anni verso l’Asia. Anche se è improbabile che i dab smartphone e chip alla fine siano al livello monstre di quelli reciproci.
In ogni caso, memore del primo assalto commerciale di Trump, Pechino è convinta che i tempi per aprire un eventuale negoziato, e a maggior ragione per chiuderlo, saranno lunghi. Ritiene di avere gli strumenti […] per gestire meglio dell’avversario gli effetti negativi dell’escalation. E la mini apertura di ieri conferma uno dei pilastri della sua strategia di resistenza, cioè mostrarsi ferma ma anche moderata e responsabile
Quanto sia importante questo fronte internazionale è evidente dall’agenda del gran capo Xi Jinpin. La scorsa settimana il presidente cinese ha teso un ramoscello d’ulivo al premier spagnolo Sanchez, perché tutta Europa intenda.
Mentre ai vicini asiatici lo recapiterà a domicilio, con una visita di Stato, la prima dell’anno, che inizierà oggi e farà tappa in Vietnam, Cambogia e Malesia. Obiettivo ottimistico e di lungo periodo: consolidare la sfera di influenza cinese in Asia.
Obiettivo minimo e urgente: assicurarsi di non essere isolata e circondata da Trump, cosa che renderebbe la resistenza assai più ardua.
Il Sudest asiatico è una geografia chiave per Pechino. Il “giardino di casa” con cui negli ultimi anni, proprio in chiave di autonomia “regionale”, la Cina ha stretto sempre di più i rapporti economici.
Dal 2018, anno della prima offensiva commerciale di Trump, la quota di esportazioni verso gli Usa è progressivamente scesa, mentre saliva quella verso l’area Asean, ora la più alta in assoluto. Molte aziende cinesi hanno stabilito in quei Paesi basi produttive, anche per aggirare eventuali dazi Usa, investendo e creando posti di lavoro.
Il viaggio di Xi è stato preceduto da una sessione di Partito sulla “diplomazia di vicinato”.
E non a caso il leader farà tappa in due Paesi come Vietnam e Cambogia che sarebbero colpiti in maniera durissime dalle tariffe reciproche di Trump, rispettivamente al 46 e al 49%.
Ma se l’idea era arruolarli in un fronte antitrumpiano la pausa di tre mesi concessa dalla Casa Bianca a tutto il mondo, Pechino esclusa, cambia lo scenario. Nessuno ha applicato ritorsioni, molti si sono precipitati a chiamare per prenotare un negoziato. E il timore è che a quel tavolo negoziale sia Washington ad arruolarli nel contenimento della Repubblica Popolare, chiedendo di limitare investimenti e triangolazioni di merci cinesi.
Del resto il rapporto dei Paesi asiatici con l’ingombrante vicino non è facile. La sua crescente potenza fa paura, anche quando mostra la faccia
gentile. E spaventa l’eccesso di capacità produttiva contestato anche da Stati Uniti ed Europa
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2025 Riccardo Fucile
LA MAPPA DI “NEWSWEEK” CON IL MONDO DIVISO IN TRE SFERE DI INFLUENZA: IL “DAZISTA” DELLA CASA BIANCA SI STA RITIRANDO STRATEGICAMENTE NELL’EMISFERO OCCIDENTALE, PECHINO CONTROLLERÀ IL “SUO” MARE (COMPRESA TAIWAN) MENTRE “MAD VLAD” CONTINUERÀ AD ESPANDERSI IN EUROPA… I “PROBLEMI”: LE POSSIBILI FRATTURE TRA MOSCA E PECHINO PER L’ASIA CENTRALE E L’INFLUENZA CINESE IN AMERICA LATINA
Il tentativo del presidente Donald Trump di coinvolgere Vladimir Putin per porre fine
alla guerra in Ucraina si inserisce in una più ampia partita geopolitica in cui le grandi potenze si contendono sfere d’influenza, mentre la Cina cerca di consolidare il proprio potere globale. Una mappa pubblicata da Newsweek mostra come potrebbe evolvere questa complessa scacchiera mondiale.
Secondo Vessela Tcherneva, vicedirettrice del Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR), il processo negoziale ricorda la conferenza di Yalta del 1945, durante la quale Stati Uniti, Regno Unito e URSS tracciarono la divisione dell’Europa nel secondo dopoguerra.
«Yalta riguardava le grandi potenze che decidevano il futuro dell’Europa orientale», ha spiegato a Newsweek. «È esattamente ciò che sta accadendo
oggi con l’Ucraina».
«Decidere il futuro dell’Ucraina senza l’Ucraina significa anche decidere il futuro dell’Europa senza l’Europa», ha aggiunto.
Secondo Stefan Wolff, docente di sicurezza internazionale all’Università di Birmingham, il rifiuto di Trump di fornire garanzie di sicurezza all’Ucraina ricorda l’atteggiamento di appeasement verso Hitler alla conferenza di Monaco del 1938. Per Wolff, l’attuale presidente americano concepisce il mondo come uno spazio diviso tra grandi potenze, con sfere di influenza che non si devono sovrapporre.
«Probabilmente vedremo le superpotenze — Cina e Stati Uniti — spartirsi il globo», ha detto. «Resta da capire se la Russia sarà ancora un attore autonomo o finirà per diventare ancor più dipendente da Pechino».
A Monaco si è svolto anche il discusso discorso del vicepresidente USA JD Vance, che ha attaccato duramente le democrazie europee […]. Un intervento che ha ricevuto l’elogio di Dmitry Medvedev, alleato di Putin ed ex presidente russo.
Il discorso è seguito alle parole del segretario alla Difesa Pete Hegseth, secondo cui ripristinare i confini dell’Ucraina precedenti al 2014 sarebbe irrealistico, e che i Paesi europei dovrebbero fare di più per la propria difesa, mentre gli Stati Uniti devono concentrarsi sul contenimento della Cina nel Pacifico.
Secondo Tcherneva, l’approccio dell’amministrazione Trump suggerisce che l’Europa orientale rischia di essere abbandonata, il che è preoccupante vista l’influenza che la Russia esercita nella politica interna di diversi Paesi della regione, tra cui Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania e Polonia.
«La Russia sta cercando di minare le democrazie dell’Europa orientale e di orientare le società verso un nuovo consenso politico che oggi, nell’era Trump, trova terreno fertile», ha dichiarato.
Lo spettro di Putin è emerso in numerose elezioni e proteste negli ultimi mesi in Europa orientale. In Moldavia, politici filo-occidentali accusano Mosca di interferenze nel referendum pro-UE e nelle elezioni presidenziali. In Romania, le elezioni sono state annullate dopo che il candidato di estrema destra Calin Georgescu, accusato di legami con la Russia, ha vinto il primo turno.
Proteste si sono registrate in vari Paesi europei contro governi percepiti come troppo vicini al Cremlino. A Bratislava, i cittadini sono scesi in piazza contro una legge che limita le ONG, paragonata a quella sugli “agenti stranieri” in vigore in Russia. Il premier Robert Fico è stato
criticato per i suoi rapporti con Mosca.
Nel Caucaso, la Georgia è scossa dalle proteste contro il partito di governo Sogno Georgiano, accusato di legami con Mosca e di voler rafforzare il controllo su un Paese strategicamente fondamentale per l’accesso al Mar Nero.
Secondo alcuni analisti, l’Asia Centrale potrebbe diventare un campo di contesa tra Russia e Cina.
Un segnale importante è arrivato a settembre, quando Putin è stato accolto calorosamente in Mongolia, primo Paese membro della Corte penale internazionale (CPI) a riceverlo dopo il mandato di arresto per crimini di guerra. La Mongolia dipende dalla Russia per carburante ed elettricità, e dalla Cina per gli investimenti nel settore minerario.
Wolff sottolinea come sia significativo che la prima visita all’estero di Xi Jinping dopo la pandemia sia stata in Kazakistan, il cui presidente, Kassym-Jomart Tokayev, ha preso le distanze dall’invasione russa dell’Ucraina.
«A Nur-Sultan (ex Astana), si teme da tempo di essere il prossimo obiettivo dell’espansionismo russo», ha detto Wolff, riferendosi alla significativa minoranza russa nel nord del Paese.
«I kazaki sono diffidenti verso Mosca, ma sanno che la Cina non permetterà alla Russia di interferire con il Kazakistan settentrionale», ha aggiunto.
Trump ha più volte dichiarato di voler acquistare la Groenlandia, controllare il Canale di Panama, ha irritato il Canada definendolo “il 51° Stato” e ha persino rinominato il Golfo del Messico in chiave sovranista.
Secondo Wolff, Trump si sta ritirando strategicamente nell’emisfero occidentale, ma potrebbe scontrarsi con la crescente influenza cinese in America Latina.
«Questo probabilmente spingerà Trump a concentrarsi ancora di più sull’America e ad abbandonare quelle che considera liabilities inutili altrove», ha concluso.
(da agenzie)
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