A VENEZIA ACCADE L’INCREDIBILE: IL MOSE FUNZIONA, I MANOVRATORI NO
NON SOLO NON LO HANNO ATTIVATO MA E’ STATO ABBASSATO DOPO DUE GIORNI CHE LE PARATOIE ERANO STATE ALZATE
“La situazione è terribile, siamo sotto l’acqua in maniera drammatica. Il Nartece è completamente allagato e se il livello sale ancora andranno sotto anche le cappelle interne”, lancia l’Sos Carlo Alberto Tessein, procuratore della Basilica di San Marco. Sembra la drammatica serata di martedì 12 novembre 2019 quando il mondo vide affondare Venezia, invece è il pomeriggio dell’8 novembre di questo pazzo 2020.
A Venezia è accaduto l’incredibile, il replay della serie “facciamoci del male”.
Il sistema Mose, con la nuova piena in arrivo, non solo non lo hanno attivato, ma è stato abbassato dopo due giorni in cui le paratoie erano state alzate e per oltre 40 ore consecutive e anche notturne, avevano scongiurato alte maree e persino permesso la navigazione aprendo varchi.
Perchè è stato abbassato con previsioni meteo ancora da emergenza? Perchè non è stato azionato? Lo scopriremo.
Eppure il Mose, dopo decenni in sala d’attesa, ci aveva fatto tirare un respiro di sollievo. Nel Paese delle alluvioni e in permanente pandemia catastrofica da zona rossa, nell’Italia che non ci concede neanche il tempo di assorbire l’ultima settimana di tragedie e emergenze con morti e devastazioni come quelle da Bitti all’Alto Adige, mai come oggi abbiamo a disposizione risorse, tecnica e tecnologie.
Lo dimostrava Venezia, uno degli hot spot degli effetti del riscaldamento globale, dove almeno c’era una buona notizia per la città più fragile del Pianeta e per la sua delicata e complicata laguna: il mitologico MOSE funziona.
E fino a poche ore fa, finalmente, faceva il suo lavoro, bloccando l’acqua alta. Il sistema di barriere mobili aveva evitato che su Venezia si verificassero almeno due punte di acqua alta 130 centimetri.
Era la dimostrazione che la schiera di paratoie galleggianti sulla laguna funziona, e non è poca cosa per quelli che come noi speranzosi ma abbastanza disillusi e incazzati di fronte ad una storia industriale e tecnologica sicuramente geniale, ma pazzesca e tangentara.
A vedere per la prima volta il primo cassone giallo in mezzo alla laguna mi portò Franco Miracco, che allora collaborava con il Consorzio Venezia Nuova. A bordo di un motoscafo arrivammo alle bocche di porto e salimmo su una chiatta ormeggiata davanti al prototipo della prima gialla paratoia, un modulo sperimentale che lentissimamente riempito d’acqua si inabissava e poi lentissimamente svuotavano, facendolo risalire in superficie.
E raccontai sul giornale un progetto ingegneristico e idraulico avveniristico e unico al mondo. Eravamo affascinati dall’avventura del MOSE che sta per “Modulo sperimentale elettromeccanico”. Era l’estate del 1998.
Era martedì 12 novembre 2019, e abbiamo ancora negli occhi il grande spavento mondiale dell’entrata in laguna di acque alte 187 centimetri, la seconda alta marea di sempre, solo 7 centimetri in meno dell’Aqua Granda del 4 novembre 1966.
Quella terribile sera la marea granda trovò ancora sola e indifesa Venezia davanti a un Adriatico gonfio, spinto dal forte vento che soffiava a 100 km orari, e sommerse la città devastandola con una nuova alluvione epocale. L’acqua si prese tutto, con danni enormi, e lasciò il mondo sotto shock e il MOSE sempre sott’acqua.
Eppure la storia del MOSE era cominciata nell’anno dell’alluvione del secolo, il 1966, quando tutti ripetevano: “Non c’è tempo da perdere, bisogna salvare Venezia”. E cosa è stato fatto quando le acque si ritirarono, il fango si asciugò, i negozi riaprirono, i tavolini dei bar tornarono al loro posto al suono delle orchestrine nello scenario da favola di San Marco? Come ricorda sempre anche Gian Antonio Stella, i lavori a parole “urgentissimi” diventavano “urgenti”, poi “necessari”, poi diluiti nel tempo e quindi finiti in un ginepraio.
Per l’irripetibile patrimonio dell’umanità veneziano, il nostro Parlamento se la prese molto comoda e aspettò il 16 aprile 1973 per varare la legge speciale per Venezia, la numero 171, dichiarando “di preminente interesse nazionale” la salvaguardia della città e della sua complicata laguna. Lo Stato decise d’investire come per nessun’altra città od opera pubblica. Bene, molto bene.
Peccato che l’andamento restò molto lento e solo dieci anni dopo, con la legge 798 del 1984, istituirono il Consorzio Venezia Nuova, soggetto attuatore di un progetto davvero faraonico d’ingegneria civile, ambientale e idraulica. Ebbero l’idea suggestiva di chiamarlo MOSE, evocando il ritiro biblico delle acque del mar Rosso. Ma l’acronimo richiamava il “Modulo Sperimentale Elettromeccanico” che, con comodo, iniziarono a progettare solo a fine anni Ottanta.
Vista l’urgenza massima, i lavori urgentissimi iniziarono appena 37 anni dopo quella grande piena del Novecento: 37 anni fanno esattamente 13.505 giorni e anche 37 governi e cicli parlamentari della Repubblica!
Una lentezza insultante se pensiamo ai veneziani della Serenissima che scavarono un canalone di 8 chilometri per la deviazione titanica del “Taglio del Po” a Porto Viro in soli 4 anni; proposto nel 1556 portò l’immissione delle acque del fiume nella sacca di Goro e al mare il 16 settembre 1604, e salvò la città . L’impossibile con i mezzi di allora si realizzò in soli 4 anni, altro che i 42 del MOSE.
Era il 14 maggio 2003 quando iniziarono a lavorare sul progetto della chiusura contemporanea delle tre bocche di porto con 78 gigantesche paratoie mobili poste sul fondo che devono, al salire della marea, sollevarsi. Sono trattenute al fondo da cerniere, vincolate a 20 cassoni di alloggiamento nei fondali collegati tra loro da tunnel per ispezioni tecniche.
Poi ci sono altri sei cassoni di spalla, con dentro impianti e tutto il necessario al funzionamento del sistema più avanzato di quello che sbarra la foce della Schelda per proteggere Amsterdam, o delle Thames Barriers che oppongono paratie alte come palazzi di sei piani alle alte maree dalla foce del Tamigi.
Il costo progetto è passato dagli iniziali 3,4 miliardi di euro a quasi 6 miliardi, di cui 5.493 milioni di euro spesi più 221 messi in conto, salendo fino alla cifra di circa 8 miliardi se consideriamo tutte le opere di contorno, compreso il miliardo tra fondi extracontabili e schifose tangenti e la vergogna del maxiscandalo trasversale venuto a galla nel giugno 2014, con l’ampio sistema di corruzione, sprechi e mazzette e manette per 35 persone.
Abbiamo poi visto di tutto, da allora: stallo dei cantieri, abbandono al loro destino delle parti già realizzate che, senza più manutenzione, sono rimaste esposte a deterioramento e corrosione dei materiali, con fessurazioni dei cassoni sommersi. Più si ispezionava la struttura subacquea, più emergevano paratoie aggredite dalla ruggine, un paio fuori dai cassoni per sedimenti sabbiosi, cerniere corrose, scarsi controlli e caos di competenze nella gestione con doppioni e “triploni” di commissari, commissari speciali, ordinari, straordinari.
Dopodichè accadde che, nella disillusione e nel disinteresse generale, fissarono al 4 novembre 2019 la prima prova completa di sollevamento di tutte le paratoie alla bocca di porto di Malamocco.
Pronti, partenza, via? No, fermi tutti! Test parziali preliminari evidenziarono nuovi problemi, e tutto si fermò. Ma non l’alta marea. La seconda prova ci fu venerdì 10 luglio 2020. Dopo le 11, nelle tre bocche di porto che uniscono l’Adriatico con la laguna, dal fondo del mare le 78 paratoie colossali d’acciaio incernierate nel calcestruzzo si alzarono fra gorghi e mulinelli e, per la prima volta, la laguna di Venezia venne separata dal suo mare.
La prima prova totale di chiusura delle bocche di porto era stata effettuata con una serenissima marea da appena 65 centimetri. Però, i cassoni hanno poi resistito a tempeste e fortunali e anche contro maree ben più alte.
Oggi finalmente sappiamo che è possibile contrastare nuovi disastri e difendere Venezia con la migliore tecnica e tecnologia. Ma sappiamo anche che non c’è traccia degli altri interventi altrettanto urgenti che decenni fa avrebbero dovuto integrare la mega-opera e garantire anche la tutela delle acque, degli ecosistemi e della biodiversità lagunare.
Sono indicati come necessari dall’Autorità di bacino, proposti con una certa disperazione anche da Massimo Cacciari, richiesti da esperti ingegneri e “padri” della moderna idrologia come Luigi D’Alpaos per i quali il sistema di dighe mobili funzionerà molto meglio se affiancato da opere per la difesa dalle proiezioni modellistiche climatiche che se ai tempi del progetto MOSE vedevano nell’arco del secolo un incremento del livello medio del mare di 22 centimetri, oggi l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu le porta a 80-100 con problemi già nei prossimi decenni, con una sottostima anche dei costi di gestione e manutenzione delle paratoie (allora fissati a 10-15 milioni di euro all’anno e oggi tra 100 e 120).
Che fare? Garantire quel che serve al MOSE e affiancare alle dighe mobili altri interventi (da finanziare visto che il MOSE ha assorbito finora tutti i finanziamenti stanziati per la salvaguardia di Venezia, ma il Recovery Plan può essere la soluzione) come il progetto “Insulae” che prevede perimetri urbani a quote sufficientemente elevate a protezione di abitati, bonifica dei fondali e delle acque da inquinanti, rafforzamento delle fondamenta di Venezia provando a rialzarle di 25-30 centimetri con iniezioni di liquidi, manutenzione di edifici e canali per la migliore resilienza nell’assorbimento dell’impatto dell’acqua alta.
In ogni caso, se il più grande cantiere idraulico del mondo funziona e funzionerà , per favore fate funzionare meglio anche i manovratori e le procedure.
Erasmo D’Angelis
Segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Italia Centrale
(da Huffingtonpost”)
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