ADDIO ALEXEY. ERI L’UOMO DI CUI IL CREMLINO AVEVA PIU’ PAURA
TORNATO IN RUSSIA PER COMBATTERE NEL SUO PAESE, UN PATRIOTA VERO (NON COME CERTI SCAPPATI DI CASA)
La notizia è sconvolgente, e mai avremmo voluto scriverla: il più noto dissidente e leader dell’opposizione russa in carcere, Alexey Navalny, è morto. Lo ha comunicato il servizio carcerario della regione Yamalo-Nenets, dove stava scontando la sua condanna – su accuse completamente inventate dal Cremlino – in un carcere di massimo isolamento, in condizioni carcerarie ripetutamente oltre i limiti della tortura.
Il servizio penitenziario federale dell’Okrug autonomo di Yamalo-Nenets ha comunicato con agghiacciante burocraticità quello che già appare come un evento culmine – forse l’Evento culmine – della dittatura putiniana: «Oggi nella colonia correzionale n. 3, Navalny A. A. Dopo la passeggiata si è sentito male e ha perso conoscenza quasi subito. Gli operatori sanitari dell’istituto sono arrivati immediatamente e è stata chiamata un’équipe medica di emergenza. Sono state eseguite tutte le misure di rianimazione necessarie, ma non hanno dato risultati positivi. I medici del pronto soccorso hanno confermato la morte del condannato. Le cause della morte sono in fase di accertamento». Ma purtroppo, già prima,quasi tutti i più grandi dissidenti russi erano morti, nel lungo arco della tirannide putiniana, da Anna Politkovskaya a Boris Nemtsov, per citare solo i due probabilmente più famosi.
Il canale telegram russo 112, considerato assai vicino alle forze di sicurezza, sta dicendo che Navalny ha avuto un grave problema ematico, che ha determinato un grosso coagulo di sangue, in sostanza un’embolia. Mosca adesso invierà una commissione alla colonia a regime speciale di Yamal, dove è morto il dissidente anti Putin più famoso nel mondo. Ma è assai difficile aspettarsi qualcosa, da questo tipo di organismo.
Il primo commento ufficiale del Cremlino è stato offerto da Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, per il quale il problema è stato specificare che «non sono necessarie indicazioni particolari del Cremlino», ossia che «c’è un certo insieme di regole a questo riguardo che guidano il servizio penitenziario». Poi Peskov ha detto che sul posto dovrebbero recarsi i medici di Mosca. Le cause della morte «saranno accertate dai medici»,«il Servizio penitenziario federale sta verificando e indagando sull’accaduto», e bla bla che suonano letteralmente agghiaccianti, in questa circostanza. Peskov ha anche detto che il presidente russo Vladimir Putin è stato informato della morte di Navalny.
Questa settimana Navalny era finito in una cella di punizione – peraltro di un carcere a regime super speciale, oltre il circolo polare artico – per la ventisettesima volta. Con una serie di procedure che appaiono palesemente in violazione di qualunque standard e rispetto di convenzioni sui detenuti e diritti civili. Putin si è sempre rifiutato anche solo di pronunciare il nome di Navalny. Quando, il 20 agosto di due anni fa, il leader dell’opposizione russa fu avvelenato mentre era su un volo in Siberia, il dittatore del Cremlino lo chiamò «il paziente berlinese»: Navalny era stato curato e salvato all’ospedale Charitè di Berlino, grazie all’intervento personale di Angela Merkel, ma Putin anche in quella circostanza si rifiutò di dire il nome del suo nemico.
Christo Grozev di Bellingcat e il Team Navalny ricostruirono poi anche i nomi della squadra dei servizi segreti russi interni (l’Fsb), che l’aveva seguito per due anni, e poi avvelenato, con una dose di un veleno derivato dal novichok di nuova generazione. Riuscirono anche, fingendosi suoi capi, a far parlare (e confessare) al telefono uno dei membri della squadra di assassini putiniani del Fsb. Tutto è rimasto in un documentario imperdibile e struggente, Navalny. Sfida a Putin (di Daniel Roher). La sfida finisce oggi, ma in realtà forse proprio oggi sarà la data in cui Putin comincia definitivamente a perdere, e ad apparire un assassino agli occhi del grande pubblico occidentale. Quel mondo libero, democratico e aperto con il quale in pochi, come Alexey Navalny – e tutto il suo team, a cominciare da Maria Pevchik e Leonid Volkov, che ora ne hanno in mano la pesante eredità morale, politica e giornalistica – avevano saputo parlare e collaborare.
Navalny era, essenzialmente, un giornalista investigativo: dire un “blogger” suonerebbe parziale e riduttivo, ma era ovviamente molto più di un giornalista e un politico, o un attivista: è stato qualcuno che per anni ha svelato, spesso per primo, la corruzione del Cremlino, gli schemi offshore opachi e le ruberie della casta di Putin, fossero oligarchi o siloviki, gli uomini dei servizi russi. Qualcosa di assai peggiore, per Putin, che essere attaccato sui diritti (di cui se ne frega) o sulla mancanza di democrazia (che fa poca presa, in Russia). I russi erano invece sensibili alle inchieste di Navalny, che mostravano come Putin e i suoi attaccassero l’Occidente mantenendo poi in quello stesso Occidente (e spessissimo in Italia) conti, barche, ville e case, spesso frutto di ruberie. L’indagine di Navalny sul Palazzo di Putin a Sochi ha battuto ogni record di visualizzazioni su Youtube.
Non c’è magnate putiniano, da Roman Abramovich a Alisher Usmanov, che non lo avesse sulla sua lista nera, a volte, come nel caso di Usmanov, con scontri violenti: il magnate arrivò a dargli del «cane». Tutti titoli che Navalny portava come medaglie d’onore, e tali erano. Molto s’era ricamato su sue antiche presunte uscite nazionaliste di tante anni fa, che parevano anti-immigrati in Russia, o sulle sue idee sulla Crimea, o sul suo tentativo (non riuscito) di unire tutti gli oppositori di Putin (compresi gli ultrazionalisti), che gli era valso accuse ovviamente cavalcate dal Cremlino. la realtà è che è politicamente era un liberale, forse conservatore, e che senza Navalny sapremmo molto meno di come Putin è arrivato a fare la guerra dopo aver derubato la Russia e i russi di tutte le loro risorse: una cleptocrazia che non poteva che sfociare nelle guerre – Cecenia, Georgia, Crimea, Ucraina, in una escalation formidabile e sotto gli occhi di tutti – e negli assassinii politici. Una sfilza di morti che solo gli ipocriti possono slegare da quanto è successo al Cremlino da ventiquattro anni a oggi.
L’ultima inchiesta del team Navalny, con Alexey già in carcere, svelava che la figlia maggiore di Vladimir Putin, Maria Vorontsova, ha ricevuto circa un miliardo di rubli di stipendio e dividendi per tre anni di lavoro alla New Medical Company (NOMECO): il team di Navalny l’aveva calcolato citando i dati del Servizio fiscale federale. Nel 2019 Vorontsova aveva fondato una società, NOMECO, il cui personale nel 2022 era composto solo da 5 persone. Eppure nel 2020, i ricavi della società ammontavano a 840 milioni di rubli (di cui 600 milioni di utile netto) e la stessa Vorontsova aveva incassato 191 milioni di rubli di dividendi (circa 2 milioni di euro) e 9,1 milioni di rubli di stipendi. E qual era l’unica fonte di reddito ufficiale dell’azienda della figlia di Putin? La clinica SOGAZ Medicine, che risulta di proprietà di Gazprom: la stessa clinica che ha curato, in questi due anni, molto mercenari del Gruppo Wagner feriti in Siria e Libia, nonché amici intimi di Vladimir Putin e siloviki vari.
Alexey Navalny era tornato in Russia andando incontro al carcere (e a una morte purtroppo più che probabile) perché voleva combattere per la libertà in Russia, non stando comodamente seduto in un salotto europeo o americano, o in uno di quei talk show occidentali o italiani in cui si fiancheggia Vladimir Vladimirovich Putin. Le sue inchieste, la sua opposizione al Cremlino, e il livello impareggiabile della testimonianza di libertà, non moriranno con lui.
(da La Stampa)
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