AFRICA, IL RITORNO DELLA TRATTA DEI MIGRANTI
A SUD DEL SAHARA LA MODERNITA’ HA LA FORMA DEL KALASHNIKOV, VIOLENZA E SOPRAFFAZIONE… UN CONTINENTE IN FUGA… UN ARTICOLO DI DOMENICO QUIRICO
I subsahariani. Li definiamo così. Comodo. È una parola grande, talmente spaziosa che dentro ci puoi ficcare tutto: le savane monotone e le bianche nevi del Kilimangiaro, zebre ed elefanti, il club Méd a Malindi e la bidonville di immondizie ovunque, l’eroe Nelson Mandela e i perfidi Boko Haram, la carestia e il grattacielo, il tamburo e l’afro beat. E i migranti. Tanti migranti.
Qualcuno adesso perfino li conta, li mette in fila e va ai summit impugnando la cifra per chiedere protestare giustificare. Dicono: novecentomila son lì già pronti a partire dal continente nero come lo si liquidava una volta, quando il colonialismo si travestiva appena appena di esotismo, sono pronti a scavalcare navigare affondare sbarcare. Che si fa? Le statistiche sono un invenzione meravigliosa: perché funzionano da sole, si auto confermano. Novecentomila! E perché non cinquecentomila o un milione? Dove sono andati a intervistarli, i pronti partire, quelli dell’Intelligence, dove li hanno visti in fila dallo scafista di terra e di mare, a chi hanno raccontato: eccomi?
Le piste africane della migrazione. Ti prende lo scoramento quando ti accorgi che ricalcano quelle dell’Ottocento quando i mercanti di uomini non si chiamavano scafisti ma schiavisti. Si erano divisi i compiti. Gli arabi si occupavano della “merce” dell’Est. La loro miniera era il Sudan dove compravano “permessi di caccia” dal governo egiziano, a parole antischiavista ma che sulla Tratta aveva montato un ignobile sistema industriale. E poi via via che le riserve si esaurivano le piste si addentravano sempre più verso l’interno.
A Ovest era mercato nostro, europeo: l’immenso bacino del Niger e gli scafisti francesi inglesi portoghesi aspettavano con i barconi che le colonne di “mano d’opera” per le piantagioni americane le portassero i loro soci africani, re e capi tribù.
Un continente intero è in cammino, da anni verrebbe da dire da sempre, e noi pensiamo di contarli. Proprio così. In questa epopea smisurata e tragica, conseguenza della Storia e della miseria, noi abbiamo raccontato proprio storie di insetti in movimento. Il fatto, la migrazione, lo mescoliamo sempre alle emozioni e ai pregiudizi. Cerchiamo di dare un inizio e una fine a qualcosa che ne è privo. A qualcosa che ogni giorno produce Storia del terzo millennio a ritmi inauditi. Noi cerchiamo di ridurlo a teatro con il sipario che sale e poi cala a nostro comodo o utile. O procediamo alla consueta traduzione monetaria dell’universo: quanto ci costeranno, di quanto possiamo rifarci di questa sciagura tirando fuori qualcosa perfino da questi subsahariani, facendoli diventare Pil.
Ci dividiamo tra coloro che con il loro spirito di bigotti non si rassegnano a constatare che nessun periodo nuovo è mai stato definito dalle sue frontiere e bottegai di un umanesimo a basso costo che aggiungono al «siamo con voi» il consueto diabolico ma.
Li ho seguiti per dieci anni i subsahariani e poi a un certo punto ho acquistato forse anche io la imperturbabilità che ho incontrato solo nei combattenti e appunto nei migranti.
Prendete la carta geografica per favore. Cercate con il dito macchie enormi come il Congo la repubblica centrafricana la Nigeria il Sudan il Corno d’Africa e calcolate quanti chilometri e quanto tempo hanno percorso quei subsahariani per diventare densa presenza reale, quanto sono invecchiati contro il muro dei venti contrari per trasformarsi in incubo problema vittima del mare. E in un dossier con dei numeri.
I migranti africani li ho incontrati ben prima che Lampedusa diventasse una parte della storia del ventunesimo secolo e non un luogo di villeggiatura. Li ho ho visti fitti nei cassoni di camion che sudavano polvere, in equilibrio mirabile sui tetti di sgangherati bus della savana sotto il sole ardente, insaccati con le loro toghe rappezzate in jeep scalcagnate.
Perché la povera gente si adatta a tutti i vani come l’acqua e i disperati li puoi schiacciare senza rimorsi come se fossero sacchi o fascine. Sì, c’erano quelli che fuggivano dalle guerre ma quelli andavano a piedi, in file sterminate tenendosi lungo i bordi delle piste di terra rossa come il sangue, perché il fuggiasco sa che deve rendersi quasi invisibile, non essere di impiccio. Ma la maggior parte di loro, be’! erano già “migranti economici”, costretti a emigrare dalla fame dopo essersi dibattuti ogni anno nell’artiglio della miseria. Le genti dell’acacia e del cespuglio e delle periferie di uno squallore disperante. Le loro strade allora andavano verso Sud o verso Ovest, Ghana, Costa d’Avorio, la geografia del caffè, del cacao dove la raccolta offriva ogni anno occasioni di lavoro. Come ora li incontri nelle nostre vigne, o chini nei campi di pomodori e tra gli ulivi. E poi c’erano quelli che scendevano verso l’Africa delle miniere. Perché africani meno poveri non scendevano più sottoterra o sparivano nella foresta a raccoglier con le mani, immersi nel fango, controllati da uomini armati, tesori di cui non intuivano nemmeno il valore. Erano africani a cui la mancanza di lavoro aveva levato la carne. Che avrebbero avuto già diritto ad una pietà piena e profonda. Ma non muovevano nel loro migrare verso di noi. Gente abituata a una vita rassegnata, gli abitanti di luoghi che non erano nessun luogo, gli ostaggi degli aiuti umanitari e della nostra pelosa carità.
Poi tutto è cambiato. La globalizzazione ha investito anche l’Africa ed è stato anche sfruttamento, disastri ambientali, violenza, corruzione. Ma l’orizzonte di quegli eterni migranti si è allargato, ha scavalcato le rotte dei Paesi vicini o di quello spicchio di continente su cui fino ad allora avevano, eterni viandanti, camminato. Quale fu la scintilla non sarà mai possibile scoprirlo. Forse la telefonata di un parente fortunato che viveva già in Europa, o qualche secondo di immagini, barche piene di uomini che scendevano sui moli di un Paese ricco, intraviste in qualche sudicio caffè di una capitale africana.
Ecco. Fu l’Africa che si rimette in marcia. Questa volta verso Nord, questa volta verso un mare. Prima sono partiti quelli delle terre del kalashnikov, dove infuriano guerre senza fine che una volta si combattevano con lance e machete, ma dove ora è arrivata la modernità, la modernità di imbracciare un mitra spietato. Dicono che in Africa ci siano almeno settanta milioni esemplari di questa diabolica invenzione dell’ingegnere sovietico che rende guerrieri anche i bambini. Ci sono settanta milioni di uomini che lo possiedono e non partiranno mai, perché la possibilità di uccidere è potere e sopravvivenza. E poi ci sono gli altri, molti di più, i non uomini, gli indifesi, le cose, le vittime. Coloro che vivono in un senso innato, perenne di pericolo, quello che noi, in questa parte del mondo, non conosciamo più perchè ci siamo levato di dosso questo vizio della angoscia. Quelli si sono messi in marcia verso di noi. Il loro viaggio parte dal Sudan, dalla Somalia, il Corno d’Africa della prigione a cielo aperto della Eritrea, della Somalia degli Shabaab, del Tigrai ribelle, e poi la Nigeria, il Centrafrica il Congo e i Paesi che il Niger difende dal deserto ma non dai nuovi califfati. Le piste sono quelle antichissime transahariane. Tutto quello che hanno sono numeri di telefono di uomini che li attendono lungo il percorso verso Nord, a loro devono pagare ogni tappa. La nuova Tratta: non sono più legati con la “canga”, l’orribile gogna di legno, ma l’avidità e la ferocia degli appaltatori è la stessa.
E poi mescolata all’Africa delle guerre c’è quella della povertà, della fame. Già la fame. A noi danno emozioni solo le carestie, per quelle periodicamente ci mobilitiamo, un poco. Ma le carestie sono una eccezione, fiammate brutali di morte legate a eventi spesso temporanei. Quello che muove gli africani è perenne, la miseria quotidiana, la povertà che è ricerca di un pasto tutti i giorni. Le loro pietose epopee non sono conseguenze del riscaldamento climatico. Sono fitte di nomi: presidenti, caudillos, colonnelli golpisti, alleanze geopolitiche e traffici economici con l’Occidente delle democrazie, dei diritti e del benessere. Li ascoltate e dite: davvero questo e nient’altro è il loro mondo? Non è nient’altro che questo la vita? Attenti: sono molti di più che novecentomila.
Domenico Quirico
(da La Stampa)
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