CASO CUCCHI, LO STATO CHE UCCIDE: “UN ALBANESE IN PIAZZALE CLODIO”
POI STEFANO FU ABBANDONATO IN OSPEDALE
“Aveva la faccia gonfia come un pallone e dei segni neri sotto gli occhi”. Giovanni Cucchi ha visto per l’ultima volta suo figlio Stefano la mattina del 16 ottobre 2009, durante l’udienza di convalida del fermo per droga, nel Tribunale di piazzale Clodio, lo stesso che oggi non riesce a dare una risposta adeguata a questa famiglia. “Ho visto Stefano con il viso pieno, gonfio, gonfio come una persona che è stata presa a schiaffi, a botte”, ha raccontato Giovanni durante le indagini dei pm Barba e Loy.
Ma non è stato l’unico a vederlo così.
“La segretaria di udienza — si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado — ha ricordato che Cucchi era magrissimo, aveva le occhiaie, gli occhi ‘cerchiati’, e le era parso anche un po’ sofferente”
Il ragazzo era molto nervoso: scalciava contro sedie e tavoli e continuava ad alzarsi dalla panca sulla quale era seduto in fondo all’aula. Anche se “seduto” sembra una parola eccessiva: l’avvocato Rocca, quello che gli era stato assegnato d’ufficio perchè nessuno dei carabinieri aveva chiamato il legale di fiducia, ricordò che Stefano “era sdraiato nella panca… era sdraiato su un gluteo… non era proprio seduto”.
Quasi come uno che accusa dolore alla schiena. “Mi dichiaro innocente per quanto riguarda lo spaccio, colpevole per quanto riguarda la detenzione per uso personale — disse lo stesso Cucchi al pm che lo interrogava —. Mi scusi, non riesco a parlare bene”. Sarebbe bastato sollevare lo sguardo dalle carte per rendersi conto che quel detenuto non stava bene.
Nessuno lo ha fatto.
A giudizio, e finora assolti in entrambi i gradi, sono andati tre agenti di polizia penitenziaria; Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.
Il teste su cui si è basata parte dell’accusa è Samura Yaya, un uomo del Gambia che si trovava nella cella 5 dei sotterranei del Tribunale (Cucchi era nella 3).
“C’era il ragazzo e qualcuno dava calci, faceva rumore con i piedi, sentito che il ragazzo caduto e stava piangendo” ha dichiarato ai pm in sede di incidente probatorio. Alle 14 Stefano venne visitato dal medico di piazzale Clodio, Ferri, che nel certificato scrisse: “Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alle regioni del rachide e agli arti inferiori, ma rifiuta anche l’ispezione. Evasivamente riferisce caduta per le scale avvenuta ieri”.
All’arrivo nel carcere di Regina Coeli, Cucchi incontrò il dottor Degli Angioli, il primo e forse l’unico — nella catena delle 140 persone con cui ha avuto a che fare — che si rese conto della gravità della situazione: “Nel momento in cui ho detto di mettersi seduto lui mi ha detto ‘no, mi fa male la schiena’. Ha tirato giù i pantaloni e ho visto questo forte rossore, che c’era localizzato nella zona sacrale, un pochino alto, quasi lombare. Ho fatto una digitopressione e lui ha avvertito subito un contraccolpo”. Stefano finì all’ospedale Fatebenefratelli, con una frattura vertebrale, ma rifiutò il ricovero e preferì tornare in carcere, “dove c’è il medico che conosco”.
Durò solo poche ore, perchè il ragazzo — si legge ancora nelle motivazioni della sentenza di primo grado — “lamentava nausea e dolenzia diffusa, aveva brividi e freddo e diceva di non potersi alzare per il dolore”.
A tutti coloro che glielo chiedevano, continuava a ripetere di essere caduto dalle scale.
La notte, su indicazione dei medici, Stefano Cucchi venne trasferito nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini.
Lo aspettavano cinque giorni di agonia, con la sua famiglia chiusa dietro la porta del nosocomio a chiedere informazioni sul suo stato di salute. Ma lui non lo sapeva. Lui chiese solo, e a più riprese, di poter parlare con il suo avvocato. In cambio, diceva, avrebbe ricominciato a nutrirsi.
Stefano era molto dolorante, gli fu inserito un catetere vescicale ma, nonostante tutto, i medici e gli infermieri che ebbero a che fare con lui (i primi condannati in primo grado e assolti in appello, i secondi sempre assolti), lo trovavano “lucido” e “tranquillo”.
La sera del 20 ottobre, la dottoressa Bruno — tentando di convincerlo a mangiare — “drammatizzò” la situazione: “Non è che gli dissi ‘domani muori se non ti fai le flebo’. Però gli spiegai che i rischi per la sua salute erano significativi”.
Tanto significativi che la mattina dopo Stefano era morto davvero.
Si. D’O.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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