Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA SECONDA CARICA DELLO STATO DOVREBBE AVERE RISPETTO PER LE CENTINAIA DI MIGLIAIA DI ITALIANI CHE HANNO FIRMATO LA RICHIESTA DI REFERENDUM, PREVISTO DALLA COSTITUZIONE
“È gravissimo che la destra continui a incoraggiare l’astensione al referendum ed è
davvero indegno che lo faccia la seconda carica dello Stato. Le parole di Ignazio La Russa sono gravi anche perché tradiscono uno dei principi costituzionali che fissano il voto come un dovere civico”. Lo afferma la segretaria del Pd Elly Schlein.
“Ma di questi principi, dei diritti e del lavoro l’estrema destra al governo ha dimostrato ampiamente di non curarsi. La migliore risposta possibile di fronte a
questa deriva è andare, tutte e tutti, a votare l’8 e 9 giugno per contrastare la precarietà e per la cittadinanza”. In visita a Terni, la segretaria del Pd chiama anche in causa la premier: “Vorrei sapere che cosa ne pensa la presidente Meloni di questo invito del presidente La Russa e di altri esponenti del centrodestra a disertare le urne”.
“Chi nasce e cresce in Italia è italiano”, ribadisce Schlein. “Tutti hanno diritto a una scuola di qualità e lo dico tanto di più davanti alle gravissime parole della seconda carica dello Stato che ieri ha fatto un invito a disertare le urne tradendo un principio costituzionale. La migliore risposta è invadere le urne”.
La Russa, ospite venerdì a Firenze della festa della cultura di destra organizzata da Fratelli d’Italia, parlando dei prossimi referendum aveva commentato: “Magari andrò a votare, ma farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa”.
(da agenzie)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA MISSIVA AVEVA GIUDIZI DENIGRATORI NEI CONFRONTI DI TUTTI I PRINCIPALI CANDIDATI ALLA SUCCESSIONE. IN PARTICOLARE, ERA SPIETATA CONTRO STALIN CHE AVEVA ACCESSO, TRAMITE LE SEGRETARIE DI LENIN, AI MANOSCRITTI APPENA DETTATI
Vladimir Lenin morì il 21 gennaio del 1924. Aveva cinquantatré anni.
Nell’ultimo periodo di vita si era ammalato gravemente: il 25 maggio del 1922 era stato colpito da un primo ictus che paralizzò la parte destra del suo corpo; il 16 dicembre di quello stesso anno, dopo un faticoso processo di riabilitazione, subì un secondo attacco. Fu allora che capì di avere davanti a sé un limitato periodo di vita e decise di lasciare al partito che aveva guidato nella Rivoluzione d’ottobre del 1917 uno scritto contenente molti ammonimenti e qualche suggerimento per il futuro.
Complice la moglie, Nadezda Krupskaja, decise che quel testo dovesse esser letto soltanto dopo la sua morte. Che lo colse, come s’è detto, due anni dopo. Nel corso di quei ventiquattro mesi, è probabile che qualcuno abbia «ritoccato» quell’elaborato.
Quantomeno questa è l’ipotesi avanzata da Luciano Canfora in Il testamento di Lenin. Storia segreta di una lettera non spedita in uscita il 6 maggio per i tipi di Fuoriscena. Ipotesi peraltro già formulata dallo stesso Canfora in un suo precedente volume, La storia falsa. Dall’antica Grecia al Novecento, i grandi casi di falsificazione storica attraverso i secoli (Bur). Ma il nuovo libro è assai più circostanziato.
La lettera-testamento di Lenin — resa nota ai vertici del Partito comunista russo quattro mesi dopo la morte del capo bolscevico e poco dopo «rivelata» al mondo intero sulle colonne del «New York Times» — aveva una postilla contenente giudizi denigratori nei confronti di tutti i principali candidati alla successione.
In particolare, era spietata contro Josif Stalin del quale chiedeva esplicitamente la rimozione da segretario.
Ma Stalin, a dispetto di quei giudizi o più probabilmente perché aveva goduto dell’opportunità di conoscerlo in anticipo, già da qualche tempo si era attivato per tener ben salde nelle proprie mani le redini del partito.
Doveva però fare i conti con un rivale, Lev Trotzkij, a cui Lenin, pur
definendolo «il più capace», rinfacciava, in uno strano inciso, il «non bolscevismo». Ed è su questo inciso che, a ben argomentata opinione di Canfora, «si annida l’intervento testuale praticato da Stalin». Quantomeno il fondato sospetto che ci sia stato.
Non va dimenticato, scrive lo storico, che Stalin aveva accesso, tramite le segretarie di Lenin, ai manoscritti appena dettati, dal momento che il Comitato centrale (di cui era segretario) lo aveva specificamente incaricato di tener d’occhio «la corretta gestione della persona di Lenin da parte dei medici». E di controllare «il rispetto, da parte dell’infermo, dei limiti da loro prescritti». Insomma, prosegue Canfora, «l’interferenza era ben “legittimata” dalle circostanze e dai ruoli, che mettevano Stalin in una posizione particolarmente favorevole ai fini del controllo su Lenin».
(da Il Corriere della Sera)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
“AL FINE DI CONTRIBUIRE AL RAGGIUNGIMENTO DEGLI OBIETTIVI COMUNI…”. QUALI SONO QUESTI OBIETTIVI COMUNI? È LA CONFERMA CHE LA LIBIA USA I MIGRANTI A MO’ DI PISTOLA PUNTATA SULL’ITALIA CHE FINANZIA IL GOVERNO LIBICO
«Gentile ministro Antonio Tajani, vogliate trasmettere la questione alle autorità
competenti e seguirne l’iter, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni». Firmato, Younes Muhannad, ambasciatore libico.
Negli atti inviati dall’Italia alla Corte penale internazionale per difendersi dall’accusa di aver tradito il trattato di Roma c’è una lettera che racconta molto di quanto accaduto dal 19 al 21 gennaio, da quando cioè il presunto assassino e torturatore libico Najeem Osema Almasri viene arrestato a quando è rilasciato e rimpatriato, con un volo di Stato, nel suo Paese.
Allegato agli atti c’è un carteggio, infatti, tra il governo libico e quello italiano che documenta le pressioni che il nostro esecutivo ha ricevuto dagli amici libici per non consegnare Almasri alla Corte penale e rimandarlo invece nel suo Paese.
Da Tripoli inviano una lettera di tre pagine alla Corte di appello di Roma che da lì a qualche ora dovranno esprimersi: i magistrati della Capitale riterranno, com’è noto, che esiste un vizio procedurale (la mancata trasmissione degli atti dell’arresto da parte del ministero della Giustizia) che via Arenula non ritiene di sanare, di fatto costringendo i magistrati alla scarcerazione.
Nella lettera i magistrati libici contestano invece la legittimità del provvedimento d’arresto della Corte penale sostenendo che esistano una serie di vizi di forma e di sostanza. E soprattutto dicendo che Almasri non può essere consegnato alla Cpi ma che, invece, deve essere estradato in Libia dove esiste un procedimento penale a suo carico.
Dalla lettera inviata all Cpi si capisce però come il governo libico abbia fatto pressione anche su quello italiano spostando il livello su un piano politico. «Caro ministro – si legge – è per me un piacere rivolgerle i miei più sinceri saluti augurandovi un continuo successo e prosperità».
«Esprimo – continuano – il nostro profondo apprezzamento per le solide relazioni bilaterali che uniscono i nostri Paesi, che rappresentano un modello esemplare di cooperazione tra i nostri popoli». Per questo motivo, spiega il governo libico, invia alla Farnesina la lettera «indirizzata al procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, relativa alla richiesta di estradizione di un cittadino libico».
«Esprimendo la nostra sincera gratitudine» scrive ancora l’ambasciatore al ministro degli Esteri, «confidiamo nella vostra eccellenza affinché vogliate trasmettere alle autorità competenti e seguirne l’iter, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni». Quali sono questi obiettivi comuni?
È una domanda che in queste ore si stanno facendo all’Aia dove stanno analizzando la documentazione inviata dall’Italia nella quale si ricostruisce quanto avvenuto in quelle ore e si spiega, dal punto di vista del nostro governo, il perché aver rimpatriato Almasri non significhi non aver rispettato la Carta di Roma.
Il governo lo ha motivato citando precedenti e segnalando una serie di incongruenze nel mandato di cattura arrivato dalla Cpi. Molti dei documenti sono stati ritenuti “classificati” e, dunque, almeno per il momento non divulgabili. Anche perché sono oggetto dell’inchiesta della procura di Roma sulla premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano e i ministri degli Interni e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio.
Il procuratore Francesco Lo Voi – dopo un primo giro di acquisizione di documenti, e dopo aver ricevuto le memorie di alcuni degli indagati, tra cui la premier Giorgia Meloni – ha chiesto nuovi accertamenti al tribunale dei ministri che sta compiendo in queste ore. Tra gli altri è stato ascoltato, come testimone, il capo della Polizia, Vittorio Pisani
(da agenzie)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
IN CONTINUITÀ CON IL PREDECESSORE C’È LA CONDANNA DELLA GUERRA. MA SE FRANCESCO NON AVEVA “PAURA” DI PARLARE DI GAZA E UCRAINA, LEONE FINORA SI È LIMITATO A UNA RICHIESTA DI PACE …IMMIGRAZIONE, GAY, TRANS E SACERDOZIO FEMMINILE: COSA CAMBIERA’
Si è presentato invocando la pace. Le prime parole di Leone XIV ai 150 mila fedeli.
Se c’è una continuità con il predecessore Francesco è massima su questo punto: il pacifismo, la condanna della guerra.
Per papa Francesco il pacifismo era anche una pratica che lo teneva, ad Nesempio, attaccato al telefono con i frati di Gaza custodi della Terra santa ogni sera, anche quando era ricoverato al Gemelli.
L’intesa di Bergoglio con Prevost sull’impegno per la pace è stata assoluta. Nel suo primo discorso Leone XIV ha citato la parola «pace» ben 10 volte, e ha parlato di pace «disarmata e disarmante», non quella dei costruttori e trafficanti d’armi, né dei potenti dalla doppia morale, bensì della pace dei popoli e dei più umili.
Immigrazione
Anche sui migranti sembra esserci la più netta continuità tra papa Francesco e papa Leone XIV. In favore dei migranti il cardinale Prevost non ha avuto esitazione a criticare l’amministrazione americana con durezza.
Solo il 3 febbraio l’account di Prevost postava un articolo fortemente critico verso il vice di Trump, J.D.Vance e il concetto di “ordo amoris” utilizzato: l’approccio selettivo dell’amministrazione repubblicana verso gli immigrati e le parole del vice presidente che giustificava le deportazioni di immigrati illegali, dando priorità alla sicurezza e all’amore per i propri cari, non erano affatto piaciute al cardinale. Da qui la netta presa di distanza del futuro Papa.
L’atteggiamento della Chiesa negli ultimi decenni non ha lasciato dubbi su questo argomento. La prima uscita di Bergoglio, divenuto Papa Francesco fu a Lampedusa, l’isola degli approdi, delle migrazioni, del Mediterraneo diventato cimitero dei fuggiaschi. Bisognerà ora vedere se la Chiesa dell’accoglienza, casa anche di papa Leone, sarà così spontanea e combattente. Nel primo discorso, l’attenzione del neo eletto Papa è stata rivolta agli ultimi, agli umili, ai malati e ai sofferenti, alla parrocchia missionaria che per tanti anni è stata la sua casa in Perù.
Diritti civili
Papa Francesco davanti ai giornalisti diceva: «Chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio?». Incontrava le trans dandone ampia pubblicità e non mancava di benedire e raccomandare comprensione per le coppie omosessuali.
In realtà la Chiesa di Bergoglio ha mai avuto un formale cambio di passo in fatto di diritti civili. La dottrina ha impedito che si varcassero i confini del diritto naturale che è rimasto il faro delle scelte ecclesiastiche e anche della
misericordia.
Il nuovo Papa Leone XIV arriva con la fama di un innovatore, ma anche lui è stato assai attento sui diritti civili e sulle possibili aperture.
In un discorso del 2012 ha criticato la leggerezza con cui si parla di «famiglie alternative composte da partner dello stesso sesso».
Ha anche criticato i media occidentali che mostrano simpatie «per credenze e pratiche in contrasto con il Vangelo». Resta quindi ferma la dottrina, e questo in continuità con il gesuita Francesco.
La famiglia nasce dal matrimonio tradizionale e questo è tra un uomo e una donna: Prevost l’ha ripetuto. Però le coppie omosessuali hanno diritto all’ascolto e alla benedizione.
Sacerdozio femminile
Papa Francesco aveva detto no alla possibilità di aprire il sacerdozio alle donne. E dello stesso avviso è anche il nuovo pontefice. Infatti nel Sinodo del 2023, Prevost aveva affermato che “estendere il sacerdozio alle donne non risolve necessariamente un problema, ma potrebbe crearne uno nuovo”.
(da agenzie)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA CITTÀ PIÙ CARA È REGGIO EMILIA, DOVE IN MEDIA PER UNA PIZZA E UNA BEVANDA, OLTRE AL COPERTO, SI SPENDONO 17,5 EURO. LA PIÙ ECONOMICA INVECE NON È NAPOLI, COME SI POTREBBE IMMAGINARE, MA LIVORNO
In Italia, la pizza è sempre più cara. Il costo di un pasto in pizzeria, infatti, è salito del
18,3% negli ultimi sei anni, attestandosi oggi a una media di 12,14 euro a persona. Lo afferma il Centro di formazione e ricerca sui consumi (Crc) [
Le città in cui la pizza è più costosa Analizzando i dati Istat pubblicati dal Mimit (in cui si considera la pizza più venduta negli esercizi commerciali presi come riferimento, in genere la margherita), si scopre che oggi la pizza più costosa d’Italia è quella servita a Reggio Emilia, dove il costo medio di un pasto
in pizzeria (che include una pizza e una bevanda, oltre al coperto e servizio se previsti) si attesta a 17,58 euro.
Al secondo posto si piazza Siena, con una media di 17,24 euro per la medesima consumazione. Al terzo posto Macerata con 16,25 euro in media.
Altra sorpresa sul lato opposto della classifica: la città con la pizza più economica non è infatti Napoli, come ci si potrebbe attendere, ma Livorno, con un costo medio di 8,75 euro a pasto, preceduta da Reggio Calabria (9,15 euro), Pescara (9,37 euro) e Catanzaro (9,96 euro), uniche province con una spesa inferiore ai 10 euro a consumazione.
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
C’E’ CHI RIFIUTA DI MARCIARE CON GLI “IMMORTALI” DI UNA GUERRA MOLTO DIVERSA: “IL REGIME HA PRIVATIZZATO LE CELEBRAZIONI PER I SUOI SCOPI POLITICI”
Dieci minuti appena di discorso, toni severi ma non minacciosi, niente invettive contro l’”Occidente collettivo”, che poi collettivo non è più da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. È un Vladimir Putin insolito quello che sotto le mura del Cremlino si è rivolto agli 11.500 soldati che hanno partecipato alla parata per l’80° anniversario della vittoria sovietica contro Hitler.
La pacatezza del capo della Russia è forse stata una gentile concessione agli ospiti stranieri, leader di Paesi “non ostili” ma non necessariamente contrapposti alla Occidente, ai quali ha voluto evitare imbarazzi diplomatici. Più probabilmente, una pacatezza a gentile richiesta del più grande assente, Donald Trump. Che — almeno per ora — è tutt’altro che ostile e spera ancora di sbloccare le trattative per la pace in Ucraina, arenatasi sull’intransigenza di Mosca. Col più grande presente, il presidente cinese Xi Jinping, Putin aveva parlato per ore prima della kermesse sulla Piazza Rossa. Rilanciando la “partnership no-limits” con Pechino. Sul palco d’onore, 27 capi di Stato e di governo. Alcuni, di Paesi non riconosciuti dalla comunità internazionale. Altri di Paesi importanti: c’era il presidente del Brasile Lula. Il primo ministro indiano Modi però ha dato forfait. Assenza pesante. Unico pezzo grosso dell’Unione Europea, il primo ministro della Slovacchia, Fico. Con lui, anche il serbo Vucic.
A sfilare a fianco dei russi, i militari di altri 13 Paesi. La compagine più numerosa, quella cinese: oltre 100 effettivi. Non c’erano i nordcoreani che hanno combattuto nella oblast di Kursk. Putin ha abbracciato e ringraziato l’inviato di Pyongyang, al termine della cerimonia. Tra misure di sicurezza
imponenti, con drastiche restrizioni per le comunicazioni su telefonini e su internet, è tornato a marciare anche il “Reggimento immortale”. Sono i discendenti dei caduti nella Grande guerra patriottica, come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale. Portano le foto dei loro morti. Non c’è famiglia in Russia che non abbia piano un veterano del conflitto contro i tedeschi. Il governo ne approfitta per promuovere la narrativa secondo cui il conflitto in Ucraina come una continuazione di quella lotta contro Hitler. Si omette che le lacrime non furono solo delle famiglie russe. Fu tutta l’Unione Sovietica a piangere i suoi eroi. Ucraina compresa.
“Non marcerò mai più con gli immortali’, dice a Fanpage.it Ivan, 45 anni, professore di liceo moscovita. “In passato l’ho fatto, con la foto di mio nonno, caduto a Stalingrado. Il 9 maggio era sacro, per noi russi. Serviva a ricordare, a riconoscersi, a dire al mondo ‘mai più’. Il regime ha sporcato il Giorno della vittoria. Se ne serve per giustificare un’altra guerra. E stavolta gli invasori siamo noi”. Fyodor di anni ne ha 84. Ingegnere aerospaziale, dopo la caduta dell’Urss ha dovuto fare il tassista. Poi il vasaio. Continua tuttora a lavorare la ceramica. Quattrocento euro al mese di pensione. Rimpiange i tempi sovietici: “Eravamo poveri ma il lavoro era sicuro, e con nove rubli potevi invitare gli amici al ristorante e fare una bella festa” ,ricorda al telefono da Mosca. Non si ricorda però di suo padre, caduto sul fronte di Bryansk. “La guerra è una cosa orribile, la festa del 9 maggio dovrebbe essere dedicata alla pace”. Fyodor vota Partito comunista. Si sente comunista, anzi ‘sovietico’. Non potrebbe votare altro. Anche se il Partito comunista russo sostiene in pieno Putin. Come tutti i partiti rappresentati in Parlamento.
“Putin ha privatizzato le celebrazioni del 9 maggio”, commenta a Fanpage.it Andrei Kolesnikov. Giornalista famoso, continua a criticare il regime da Mosca sul giornale online più o meno ‘pirata’ con cui il premio Nobel Dmitry Muratov ha riportato in vita come un’araba fenice la sua gloriosa Novaya Gazeta, chiusa dal governo. Probabilmente, non lo arrestano perché anche al Cremlino sono avidi lettori delle sue analisi sociologiche in punta di penna. “Il regime usa il Giorno della vittoria come parte della propaganda articolata e imposta in modo aggressivo per far passare il conflitto in Ucraina come la continuazione Di
quella contro Hitler. Qualcuno ci crede. È la versione proposta da tutti i media mainstream e la gente non vuole esser ‘diversa’. Vale anche per la narrativa secondo cui ‘la Russia è sotto attacco’. Ma il discorso è divisivo, perché è un insulto alla memoria privata di chi è contro la guerra di aggressione di Putin”. E che ha morti nella Grande guerra patriottica da piangere. Se non anche morti nel conflitto ucraino.
Persone con foto di cari uccisi sul fronte ucraino dal 2022 sono state viste marciare accanto a chi commemorava parenti caduti contro la Germania nazista nelle repubbliche di Buriazia, Tuva e Sacha, oltre che nelle regioni di Zabaikalsky, Irkutsk e Omsk , secondo il Moscow Times. Le autorità hanno allestito stand dove gli uomini presenti alle celebrazioni del Giorno della vittoria potevano firmare un contratto con il Ministero della Difesa per combattere in Ucraina. Sticker con colori dell’Ordine di San Giorgio, simbolo dei successi militari russi, e insegne con la parola “poveda” (vittoria) — sono dappertutto, in questi giorni: alle fermate degli autobus, nelle metropolitane, sulle vetrine dei negozi. Il messaggio è univoco: la Russia è dalla parte del giusto, come è sempre stata. L’idea nazionale è diventata questa: “vittoria”. La Russia è imbattibile, da quando esiste. Anche se la vittoria in Ucraina continua a essere piuttosto elusiva, sebbene data ogni giorno per scontata dai cantori del regime.
In realtà, la Russia-Urss di guerre ne ha perse parecchie. Stava per perdere anche quella contro i nazisti. Per questo la vittoria del 1945 fu davvero eroica e così sanguinosa. Alla fine del 1941 i tedeschi erano arrivati a Khimki, cittadina sul canale Moskva-Volga a meno di 20 chilometri dalla Piazza Rossa e ormai diventata un sobborgo della capitale. I panzer di Hitler furono fermati al “chilometro 23” dell’autostrada per San Pietroburgo. Più o meno dove oggi sorge un magazzino dell’Ikea, diventata “Idea” dopo che l’azienda svedese ha abbandonato la Russia. Da lì partì la prima controffensiva che, dopo quattro anni e oltre 20 milioni di morti solo tra i sovietici, portò l’Armata Rossa a conquistare Berlino. Ai diversi memoriali dedicati a quel cruciale evento — una vera e propria sliding door della Storia — a Khimki si è recentemente aggiunto un nuovo monumento. Rappresenta, in uno stile che ricorda il realismo socialista, due soldati. Uno, nella semplice divisa di fatica degli eroi della Grande guerra patriottica, poggia la mano sulla spalla dell’altro, nella moderna tenuta militare degli spetsnaz di Putin, impegnato a sparare col suo fucile d’assalto contro il nemico. E il nemico, si capisce bene, è ucraino. Una rappresentazione plastica del tentativo di legare passato e presente, di illustrare il passaggio del testimone tra due generazioni molto distanti. Protagoniste di due guerre che la manipolazione storica e la propaganda somministrata ai russi 24 ore al giorno da anni pretendono simili, ma sono completamente diverse. Per contesto, legittimità e finalità. Per non parlar di morale.
(da Fanpage)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL VESCOVO MADRILENO LUIS MARIN DE SAN MARTIN, AGOSTINIANO COME PREVOST, È IN POLE COME SOSTITUTO PER GLI AFFARI GENERALI … AVANZA L’IPOTESI DI CONFERMARE PIETRO PAROLIN COME SEGRETARIO DI STATO…. C’È ANCHE UNA DONNA NELLA ROSA DI NOMI: SUOR NATHALIE BECQUART, 56 ANNI, ESPERTA DI SINODALITÀ
«Sua Santità Leone XIV ha espresso la volontà che i Capi e i Membri delle Istituzioni
della Curia Romana, come pure i Segretari, nonché il Presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, proseguano provvisoriamente, nei rispettivi incarichi donec aliter provideatur.
Il Santo Padre desidera, infatti, riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva». Come riferisce la nota della sala stampa della Santa Sede, Leone XIV «prende tempo» sulle nomine che sarà comunque chiamato a fare.
La formula «donec aliter provideatur », che in italiano si traduce «finché non si provveda in modo diverso», non è certo una novità per la Chiesa: permetterà a Leone XIV di ponderare scelte e figure da inserire ai vertici della sua struttura.
Di qualche nome già si parla: come quello del vescovo e teologo madrileno Luis Marín de San Martín, 63enne agostiniano come il Papa, con cui condivide la visione ecclesiale basata sul discernimento e la concretezza evangelica: potrebbe essere scelto da Leone come sostituto per gli Affari generali, in pratica il vicesegretario di Stato, con la possibile conferma di Parolin al timone, dopo il «passo indietro» in Conclave.
Poi padre Alejandro Moral Antón, anche lui spagnolo e attuale Priore Generale degli Agostiniani: è stato fra i primi a ricevere una telefonata dal nuovo Papa, di cui apprezza la concretezza e la profonda spiritualità. E ancora l’arcivescovo romano Fabio Fabene, 66 anni, nominato da Francesco nel 2022 Segretario del Dicastero delle Cause dei Santi
Come vice Camerlengo e Segretario della Congregazione per i Vescovi, conosce bene la «macchina» vaticana anche il brasiliano, dello Stato di Sao Paulo, Ilson de Jesus Montanari, 66 anni: nomi «giovani», in relazione all’età media delle figure ai vertici della Chiesa.
Molto vicino a Leone XIV è anche padre Giuseppe Pagano, agostiniano e priore della Basilica di Santo Spirito a Firenze. Conosce il neo Papa dagli anni Ottanta, quando studiavano teologia a Roma al Collegio internazionale di Santa Monica. Condividono la passione per il calcio (è lui che ha fatto conoscere al mondo il tifo romanista di Leone) ed è a lui che l’ancora cardinale Prevost ha inviato, poco prima di entrare nella Cappella Sistina, un messaggio «rivelatore» sui possibili scenari del Conclave.
C’è anche una donna fra le figure della rosa di Leone: suor Nathalie Becquart, 56 anni, è un’esperta di sinodalità, oltre a essere stata, prima del suo ingresso in monastero nel 1995, attiva nel marketing e comunicazione, forte della sua laurea in imprenditoria
(da Il Corriere della Sera)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
MELONI, MESSA IN UN ANGOLO DALL’ATTIVISMO FRANCO-INGLESE, RESTA DI NUOVO FUORI DALLA FOTO DEI LEADER EUROPEI: HA DECISO DI COLLEGARSI IN VIDEO
Insieme agli Stati Uniti, chiediamo alla Russia di concordare un cessate il fuoco completo e incondizionato di 30 giorni per creare lo spazio per i colloqui su una pace giusta e duratura”: lo hanno detto quattro leader europei (Emmanuel Macron, Keir Starmer, Friedrich Merz e Donald Tusk) in una dichiarazione congiunta prima della visita a Kiev, dove sono arrivati stamani per incontrare il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.
“Siamo pronti a sostenere i colloqui di pace il prima possibile, a discutere l’attuazione tecnica del cessate il fuoco e a preparare un accordo di pace completo”, hanno aggiunto. “Vogliamo essere chiari: lo spargimento di sangue deve cessare, la Russia deve fermare la sua invasione illegale e l’Ucraina deve poter prosperare come nazione sicura, protetta e sovrana all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale per le generazioni future”.
I quattro leader hanno aggiunto: “Continueremo ad aumentare il nostro sostegno all’Ucraina. Finché la Russia non accetterà un cessate il fuoco duraturo, aumenteremo la pressione sulla macchina da guerra russa”. In un’intervista rilasciata sabato al canale di notizie ABC, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha affermato che le forniture di armi dagli alleati dell’Ucraina devono cessare prima che la Russia accetti un cessate il fuoco.
Una tregua sarebbe altrimenti un “vantaggio per l’Ucraina” in un momento in cui “le truppe russe stanno avanzando… con una certa sicurezza” sul fronte, ha detto Peskov, aggiungendo che l’Ucraina “non è pronta per negoziati immediati”. È la prima volta che i leader delle quattro nazioni europee effettuano una visita congiunta in Ucraina.
A più di tre anni dall’invasione russa, questa dimostrazione di unità europea di valore simbolico, arriva il giorno dopo che il presidente Vladimir Putin ha assunto un tono di sfida durante una parata a Mosca per celebrare gli 80 anni dalla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.
Il presidente Usa, Donald Trump, ha proposto un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni come passo per porre fine al conflitto. Ma Putin finora ha opposto resistenza.
(da agenzie)
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Maggio 10th, 2025 Riccardo Fucile
IL “TRADIZIONALISTA” SALVINI TACE SU PREVOST. I MELONIANI FANNO BUON VISO A CATTIVO GIOCO. VOLEVANO PIETRO PAROLIN, CON CUI ALFREDO MANTOVANO SI VANTA DI AVERE COSTRUITO UN RAPPORTO DI FERRO. MA ALMENO, SUSSURRANO, NON HANNO ELETTO MATTEO ZUPPI: TEMEVANO SOPRA OGNI COSA IL CARDINALE AMICO DI SANT’EGIDIO, LA SUA DIFESA DEI MIGRANTI, QUELLA MATRICE “BERGOGLIANA DI STRADA”
Sfumature di destre, risvegli amari. No, Robert Francis Prevost non piace. Non quanto
lo malsopportano i cattolici Maga, perché a Roma non c’è Steve Bannon. Ma il salvinismo soffre e si tormenta.
I tradizionalisti della galassia conservatrice tacciono, in scettica attesa. E il melonismo? Fa buon viso a cattivo gioco. Volevano Pietro Parolin. Ma almeno, sussurrano, non è Matteo Zuppi (temevano sopra ogni cosa il cardinale amico di Sant’Egidio, la sua difesa dei migranti, quella matrice bergogliana di strada).
Ieri mattina, quotidiano La Verità: “Sarà un altro Bergoglio?” (come fosse una disgrazia da evitare, ovviamente). «Vicino a Francesco — scrivono in prima pagina accanto al fotone del Pontefice — tuttavia non è un gesuita ma un seguace di Sant’Agostino: fede e ragione. E forse meno “piacione”. Speriamo».
Ieri pomeriggio, attorno alla Camera. Matteo Salvini sguscia in via del Corso. Lo seguiamo. Ministro, è arrivato un Papa americano, le piace? «Buon lavoro». È americano, ma non trumpiano? «Buon lavoro». Sui migranti però…. «Buon lavoro». Entra in un negozio di un noto marchio di intimo. Acquista uno slip nero
Lo fermano per qualche selfie, ci riproviamo: ministro, almeno l’appello per la pace le è piaciuto? Scatta la scintilla, la parola attiva connessioni con gli appelli
trumpiani per la fine delle ostilità. «L’appello mi è piaciuto molto».
Alla destra che ondeggia tra Trump e Putin, Prevost è gradito in uno spettro che va dal poco al pochissimo. Questo è Andrea Crippa, vicesegretario del Carroccio: «Il nuovo Papa? Non lo conosco, non ho letto ». Almeno sa che da cardinale criticava Trump e Vance? «Lo giudicheremo col tempo».
Poi c’è Giorgia Meloni, che ha altre responsabilità e altre necessità. Era riuscita a legare con Bergoglio, costruirà un rapporto anche con Prevost.
Qualche spunto arriva però dalla lettera inviata giovedì sera in Vaticano. La premier esalta la «civiltà italiana ed europea». «Civiltà — aggiunge — che rispetta le identità altrui senza però rinnegare la propria». Sono sfumature di quel “sovranismo occidentale” che Meloni ha declamato anche nello Studio ovale, ma che non è detto combaci con l’afflato missionario del Papa.
E d’altra parte, non è un mistero che Alfredo Mantovano, il perno di Palazzo Chigi, avesse costruito un rapporto di ferro con Parolin. Vale per lui quello che vale per Meloni: rimedierà, intessendo relazioni con un Pontefice che ha per di più un passaporto americano (il sottosegretario, si sa, da sempre coltiva rapporti diplomatici eccellenti con Washington).
Con un timore, però: che sui migranti metta in difficoltà l’esecutivo. E che, confliggendo con Trump, sarebbe duro pattinare.
Se con Parolin sarebbe stata gioia, per Leone XIV prevale la sobrietà. Dice ad esempio Ignazio La Russa, senza girarci attorno: «Un Papa italiano ci sarebbe piaciuto. Ma uno buono, non un qualunque Pontefice italiano».
Come volevasi dimostrare, l’amarezza è meno amara a pensare che almeno non ha prevalso Zuppi. Anche per questo, forse, il direttore di Libero Mario Sechi tiene la porta socchiusa. Titolo: «Non è Francesco ». Svolgimento: «A sinistra è già partita la pietosa corsa all’arruolamento. Avviso ai naviganti: non è Francesco». E pure Arianna Meloni lancia segnali non ostili: «Ha detto “il male non prevarrà”. Sono state parole emozionanti e di grande speranza ». Sperano, ecco.
(da La Repubblica)
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