Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
SCENDONO FDI 27,3%, LEGA 7,8%, FORZA ITALIA 7,8%… SALGONO PD 22,1% M5S 14,6%
Nell’ultimo mese i due partiti che hanno guadagnato più voti sono il Partito democratico e, in misura minore, il Movimento 5 stelle. Come sempre non c’è una sola motivazione per i cambiamenti nei sondaggi politici, ma è vero che nelle scorse settimane uno degli eventi politici più discussi sono state le elezioni comunali: su quattro capoluoghi, il centrosinistra ha vinto al primo turno in due (Genova e Ravenna) ed è andato in vantaggio al ballottaggio negli altri (Matera e Taranto).
Nel frattempo, tutti i partiti del centrodestra hanno visto un calo.
Tanto che oggi la coalizione di tutte le forze di opposizione supererebbe nettamente, nei consensi, la maggioranza di governo. Ecco i risultati del nuovo sondaggio Ipsos realizzato per il Corriere della sera.
Tutto il centrodestra in difficoltà, perde quasi un punto e mezzo
Fratelli d’Italia è al 27,3% dei voti, in calo di quattro decimi rispetto a fine aprile. Il dato in sé non è particolarmente preoccupante per il partito di Giorgia Meloni. Con una discesa da meno di mezzo punto, FdI resta in linea con i consensi registrati nel resto di quest’anno, comunque più alti del 26% ottenuto alle elezioni di quasi tre anni fa. Certamente però sembrano lontani i picchi del 30% sfiorati in altre occasioni. E soprattutto, questa volta, a calare sono tutti i partiti della maggioranza.
Forza Italia e la Lega sono pari, al 7,8%. Entrambi risultano aver perso lo 0,4% nell’ultimo mese. In più, anche Noi moderati scende dall’1,2% all’1%.
Così, il centrodestra nel suo complesso perde quasi un punto e mezzo e va al 43,9%. Nelle rilevazioni Ipsos questo è il risultato peggiore dall’inizio dell’anno per la coalizione. È una percentuale quasi identica a quella ottenuta alle ultime elezioni, quando però le forze di opposizione erano del tutto divise.
Crescono Pd e M5s
Oggi il Partito democratico è al 22,1%: ha guadagnato oltre un punto da fine aprile (+1,2%). In questo caso, come detto, è possibile che i dem di Elly Schlein l’effetto positivo venga anche dalla vittoria alle comunali. Come sempre per le variazioni nei sondaggi non c’è una sola motivazione: nell’ultimo mese, ad esempio, si è acceso sempre di più lo scontro politico su Gaza, si sono tenuti due premier time che hanno dato occasione alle opposizioni per confrontarsi con Giorgia Meloni, senza contare le tensioni sul decreto Sicurezza e l’avvicinarsi dei referendum dell’8 e 9 giugno.
Il Movimento 5 stelle va al 14,6% con un guadagno dello 0,7%. Per i M5s di Giuseppe Conte è il risultato migliore del 2025, a confermare la crescita progressiva rispetto al deludente 10% ottenuto un anno fa alle europee. E anche la dura opposizione sui temi del riarmo e della Palestina potrebbe aver aiutato.
Alleanza Verdi-Sinistra scende al 5,9% perdendo un decimo, mentre Azione di Carlo Calenda sale al 3% (+0,2%). Il partito con il calo peggiore è Italia viva di Matteo Renzi (-0,5%, va al 2%), invece +Europa è stabile all’1,8%.
Le opposizioni unite vincerebbero le elezioni?
Numeri alla mano, oggi Partito democratico, Movimento 5 stelle e Alleanza Verdi-Sinistra sommati prenderebbero il 42,8%: circa un punto in meno del centrodestra. Se si aggiungono anche le altre tre forze centriste dell’opposizione si arriva al 49,6%, staccando nettamente l’attuale maggioranza.
Restano come sempre due questioni irrisolte. La prima, che non è detto che tutti gli elettori di un partito lo votino a prescindere dalle alleanze che fa. La seconda, che per ora queste alleanze sono solo sulla carta: bisognerà aspettare che si avvicinino le prossime elezioni per capire se si concretizzeranno.
Ma il segnale è chiaro.
(da Fanpage)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
“LO FA SOLO PER QUALCHE VOTO E COPIA DEL LIBRO IN PIU’MA I NOSTRI COETANEI SI TOLGONO LA VITA”… QUASI TUTTI IN PIEDI E STADING OVATION … ANDATELO A DIRE AI PAVIDI DIRIGENTI DI FORZA ITALIA CHE REGGONO LO STRASCICO AI RAZZISTI E OMOFOBI
«Vergogna, vergogna»: è duro e sferzante l’attacco al generale Roberto Vannacci che
arriva dal palco del congresso di Forza Italia giovani dal prossimo leader Simone Leoni.
L’ex militare comandante della Folgore, eurodeputato per la Lega di Matteo Salvini, è stato bollato come «personaggio sconnesso dai tempi» e che si affida a semplici «aberrazioni» consapevole di poter così guadagnare «un voto in più». Una frattura interna al centrodestra che nelle ultime settimane, soprattutto in merito alla questione della difesa comune, si era già evidenziata. E che sul tema, ad esempio, della cittadinanza sembra confermarsi.
«Personaggi che invece di adottare un approccio inclusivo, ne adottano uno escludente. Persone che invece che essere generali a capo di un’armata del bene verso il prossimo scelgono di essere generali della codardia e della discordia per mero calcolo politico». A tuonare dal palco del Palazzo congressi all’Eur, di fronte a mille spettatori in stading ovation, è Simone Leoni, candidato alla guida di Forza Italia giovani.
L’attacco, evidentemente diretto a Vannacci, non si ferma: «Persone che nel 2025, pur di avere un voto in più, di finire sul giornale una volta in più o di vendere un libro in più, dicono che i bambini disabili vanno separati dagli altri, dicono che chi ha la pelle nera non è italiano, dicono che chi è gay non è normale». Tutte affermazioni di cui Vannacci «si dovrebbe vergognare», consapevole del fatto che «per ognuna di queste aberrazioni, c’è gente che sta male, che soffre. Ci sono nostri coetanei che arrivano a togliersi la vita».
La battaglia per lo Ius Scholae
Sul tema della cittadinanza, forse anche in riferimento al referendum dei prossimi 8 e 9 giugno, sempre Leoni ha ribadito la distanza dalle posizioni della Lega sullo Ius Scholae: «Un ragazzo che studia qui, che si sente parte delle nostre istituzioni e ama il tricolore allora è un nostro fratello. E merita la cittadinanza italiana».
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
IL NUMERO DEI “CERVELLI IN FUGA” È AUMENTATO DEL 36.5% RISPETTO AL 2023 – UN ALTRO PROBLEMA È IL CALO DEMOGRAFICO: I GIOVANI SPESSO NON POSSONO PERMETTERSI DI FARE FIGLI E LA POPOLAZIONE INVECCHIA (UN QUARTO DEI 59 MILIONI DI ITALIANI HA PIÙ DI 65 ANNI)… L’ANALISI DEL “FINANCIAL TIMES”
L’esodo di italiani istruiti alla ricerca di migliori opportunità all’estero sta aggravando la crisi economica causata dal rapido invecchiamento della forza lavoro, ha avvertito il governatore della Banca d’Italia. Fabio Panetta ha affermato che l’Italia deve intraprendere ulteriori azioni per trattenere il proprio capitale umano e garantire che i giovani trovino un’occupazione produttiva a sostegno della crescita. “È necessario creare opportunità di lavoro attraenti per i molti italiani che lasciano il Paese alla ricerca di prospettive migliori”, ha affermato ieri Panetta.
Circa 156.000 italiani hanno lasciato il Paese lo scorso anno per trasferirsi in Germania, Spagna, Regno Unito e altrove, con un aumento del 36,5% rispetto a coloro che sono emigrati nel 2023. Secondo l’Istat, l’istituto ufficiale di statistica italiano, il numero totale di persone che hanno lasciato l’Italia nel 2024, pari a poco meno di 191.000, compresi 35.000 residenti stranieri di lungo periodo, principalmente rumeni che tornano in patria, ha raggiunto il livello più alto degli ultimi venticinque anni.
Il calo demografico dell’Italia è tra i più gravi in Europa, dopo decenni di crollo dei tassi di natalità. Attualmente, circa un quarto dei 59 milioni di italiani ha più di 65 anni, mentre solo il 12% della popolazione è costituito da bambini di età inferiore ai 14 anni. Si prevede che la popolazione in età lavorativa diminuirà di altri 5 milioni di persone entro il 2040. L’emigrazione sta aumentando la pressione.
Secondo l’Istat, tra il 2014 e il 2023 più di un milione di italiani ha lasciato il Paese per stabilirsi all’estero, con un numero di partenze
annuali in costante aumento durante il periodo. Poco più della metà di questi è tornata in patria nello stesso periodo dopo aver vissuto all’estero. Tra coloro che sono emigrati, più di un terzo (367.000) aveva un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, di cui 146.000 laureati.
Solo 113.000 italiani della stessa fascia d’età sono tornati, di cui meno di 50.000 erano laureati. “Il saldo migratorio dei giovani laureati è stato costantemente negativo, con una perdita netta di circa 97.000 unità nel corso del decennio, un deficit significativo di capitale umano qualificato”, si legge in un rapporto dell’Istat pubblicato il mese scorso. L’esodo dei giovani istruiti ha solo acquisito slancio con il tempo.
Nel 2014, solo un emigrante italiano su tre aveva un titolo di studio universitario, mentre nel 2023 – l’ultimo anno per cui sono disponibili dati così dettagliati – la metà di coloro che hanno lasciato il Paese possedeva almeno una laurea, secondo l’Istat. Negli ultimi anni si è assistito anche alla proliferazione di portali online in lingua italiana, come quello dell’agenzia di reclutamento Workwide con sede in Svezia, che offre agli italiani opportunità di lavoro in Europa.
Luoghi più lontani come il Canada sono alla ricerca di personale per ricoprire posizioni come infermieri, autisti e contabili. Panetta ha affermato che uno dei fattori che spinge le persone all’estero è il fatto che i salari reali in Italia sono attualmente inferiori ai livelli del 2000, spinti al ribasso dall’impatto inflazionistico del periodo post-pandemico.
La Banca d’Italia ha stimato che il calo previsto della popolazione in età lavorativa in Italia potrebbe portare a una diminuzione dell’11% del PIL, anche se Panetta ha affermato che l’Italia potrebbe contribuire a colmare la crescente carenza di manodopera reclutando più lavoratori dall’estero. “L’immigrazione legale può dare un contributo significativo, soprattutto nei settori dell’edilizia e del
turismo, che stanno registrando una crescente carenza di manodopera”, ha affermato Panetta.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
MARCELLO SORGI: “MELONI NON PUÒ FAR ALTRO CHE METTERSI ALL’OMBRA DI TRUMP E SPERARE CHE LA PROSSIMA SIA LA SETTIMANA BUONA PER IL LUNATICO PRESIDENTE AMERICANO. ALTRIMENTI, ESSERCI O NON ESSERCI NELLE FOTO DI GRUPPO NON SARÀ POI COSÌ IMPORTANTE. OCCORRE DECIDERE SUL SERIO COSA FARE”
Giorgia Meloni ha rischiato nuovamente di trovarsi fuori dal prossimo vertice tra
Gran Bretagna, Francia e Germania, convocato a Istanbul per premere sulla trattativa tra Russia e Ucraina e spingere ulteriormente verso una tregua? Per tutto il pomeriggio di ieri il dubbio di una nuova emarginazione dell’Italia, dopo quella recente di Tirana, ha continuato a circolare.
La premier, trovandosi ad Astana, in Kazakistan, ha messo le mani avanti sostenendo di essere perfettamente al corrente di ciò che Starmer, Macron e Merz stavano preparando e che li avrebbe sentiti in una “call” durante il suo viaggio di ritorno.
Il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi s’è spinto più avanti, affermando che l’Italia in Turchia potrebbe pure esserci, se ne sta discutendo. Inoltre Macron è atteso a Roma martedì, per quello che dovrebbe essere l’incontro della rappacificazione, dopo tante incomprensioni con la nostra presidente del consiglio.
Purtroppo, da quando anche la politica estera, dopo quella interna, è diventata soprattutto immagine e comunicazione, e assai meno sostanza, i leader europei sono all’inseguimento uno dell’altro per cercare di imporsi sullo scenario tragico di due guerre – una delle quali, in Ucraina, al centro del Vecchio Continente, l’altra in Medio Oriente – che non riescono ad approdare a tregue stabili.
Impreparata, a causa delle sue divisioni e delle sue interminabili liturgie, a gestire una situazione di vera emergenza, l’Europa ha lasciato spazio a “formati” diversi da quelli abituali e istituzionali, che si muovono su un terreno pieno di trappole e di pericoli
Per andare a un precedente esemplificativo, basti ricordare la foto di Draghi, Macron e Scholz tre anni fa sul treno per Kiev. Un viaggio a sorpresa, un vertice informale che non produsse altro risultato concreto che una forte manifestazione di solidarietà per Zelensky. Ma, per l’Italia, un notevole riconoscimento, dato che fino a quel momento l’Unione europea era stata governata da una sorta di consolato tra Germania e Francia.
Lo stesso destino, più o meno, è stato riservato in giorni più recenti all’iniziativa dei “Volenterosi”, dovuta inizialmente a Macron e Starmer e poi allargatasi via via con la promessa – poi ritirata – di mettere a disposizione una forza multinazionale di pace in caso di cessate il fuoco sul fronte ancora caldo Russia-Ucraina.
A questo nuovo “formato” fin dall’inizio Meloni ha scelto di non unirsi, partecipando a distanza ai vertici per timore, appunto, di trovarsi coinvolta in un impegno militare che non vuole. Ed anche quando la prospettiva dei soldati è venuta meno, la premier se ne è tenuta egualmente discosta, aspettando di vedere l’esito del più concreto intervento di Trump.
In questo quadro che non è esagerato definire confuso, nel quale Putin si muove a suo agio, prendendo tempo, avanzando proposte inaccettabili e intanto continuando a bombardare l’Ucraina, Merz ha fatto un paio di mosse che una volta tanto non sono d’immagine ma di sostanza. La prima è aver varato un forte piano di riarmo per la Germania, anche a costo di indebitare il suo Paese.
La seconda è aver suggerito a Zelensky, garantendogli l’appoggio tedesco, di usare missili a gittata medio-lunga, ciò che potrebbe rendere più alto il prezzo dell’avanzata russa in Ucraina per Putin.
È facile intuire che l’effetto di queste mosse, insieme con il peso che la Germania mantiene anche in epoca di crisi, non è stato positivo per Francia e Gran Bretagna, proprio nei giorni in cui ripetevano che
non intendono mobilitare i propri soldati.
Ed è diventato indigeribile per l’Italia: emarginata o auto-emarginata dai vertici dei partner più importanti, Meloni non può far altro che mettersi all’ombra di Trump e sperare che la prossima sia la settimana buona per il lunatico, a dir poco, presidente americano. Altrimenti, esserci o non esserci nelle foto di gruppo non sarà poi così importante. Se infatti la sostanza, per una volta, prevale sull’immagine e la propaganda, occorre decidere sul serio cosa fare.
(da La Stampa)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
GLI ERMELLINI DUBITANO CHE L’OPERAZIONE PREVISTA DAL PROTOCOLLO CON TIRANA SIA COMPATIBILE COL DIRITTO EUROPEO. PER QUESTO CHIEDONO ALLA CORTE EUROPEA DI GIUSTIZIA DI ESPRIMERSI CON UNA PROCEDURA URGENTE, CHE RICHIEDERÀ COMUNQUE ALCUNI MESI
Ancora uno stop, l’ennesimo, per i centri in Albania. Stavolta è la Corte di Cassazione a rinviare la questione del trattenimento dei migranti oltre l’Adriatico alla Corte europea di giustizia
Gli ermellini dubitano che l’operazione prevista dal protocollo con Tirana sia compatibile col diritto europeo, per questo chiedono ai giudici di Lussemburgo di esprimersi con una procedura urgente, che richiederà comunque alcuni mesi.
Un nuovo rinvio, dunque, che rischia di bloccare ancora una volta l’intero progetto, vanificando così anche l’ultimo tentativo del governo di utilizzare le strutture albanesi solo come centri per il rimpatrio.
Nello specifico, i giudici della suprema corte si sono espressi sui casi di due migranti trasferiti dall’Italia chiedendo alla Corte Ue di chiarire se portarli a Gjader sia compatibile con due direttive europee: quella sui rimpatri, la 115 del 2008, e con quella sulle procedure per il riconoscimento o la revoca della protezione internazionale, la 32 del 2013. Se valga cioè il principio di extraterritorialità: ossia se le strutture albanesi possano essere
equiparate a quelle italiane.
Tutto nasce dal ricorso del Viminale sui casi dei migranti tornati in Italia dopo aver chiesto asilo in Albania. Dopo una prima sentenza che dava ragione al governo, la Cassazione fa dietrofront e rinvia il nodo alla Corte europea, come già fatto in precedenza dai giudici delle sezioni specializzate sulle richieste di convalida per la procedura accelerata di frontiera.
«Il diritto europeo è stato elaborato per un’applicazione interna agli stati membri – spiega Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sulla migrazione –. È quindi molto dubbio che possa essere applicato in regime di extraterritorialità sia per il trattenimento sia per la procedura d’asilo».
La notizia, anticipata dal quotidiano il Manifesto, ha destato l’indignazione della maggioranza. Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera annuncia un’interrogazione parlamentare al ministero della Giustizia per chiarire la fuga di notizie.
E mentre da Madrid, dove ha incontrato il suo omologo spagnolo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi rivendica all’Italia il «primato di aver avviato la discussione sugli hub regionali per i rimpatri dei migranti, che poi si svilupperà in Ue» l’opposizione incalza sul fallimento del progetto.
(da agenzie)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
“RISULTATO IMPALPABILE DEL PARTITO, CI HA ESTROMESSI DALLA GESTIONE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE”… “ROSSO GESTISCE IL PARTITO IN MODO AUTOREFERENZIALE E PERSONALISTICO, SI ASSUMA LE PROPRIE RESPONSABILITA”
La sconfitta elettorale alle Comunali provoca i primi scossoni nel centrodestra
genovese. Il coordinatore cittadino di Fratelli d’Italia, Antonio Oppicelli, ha comunicato ieri con una lettera alla premier Giorgia Meloni la decisione di dimettersi.
Il gesto in segno di aperto scontro in corso da tempo con il coordinatore regionale di Fdi, Matteo Rosso. “Io e il coordinamento cittadino siamo stati dall’onorevole Rosso estromessi dalla gestione della campagna ma anche da tutti i rapporti con le forze politiche e istituzionali e io non posso più tacere all’esterno”, scrive ai media allegando la lettera.
“Pur non sentendomi alcuna responsabilità nel risultato a dir poco
impalpabile del mio partito, ed avendo sempre lottato per farlo crescere e non il contrario, bisogna a un certo punto assumersi le proprie responsabilità e rifiutarsi di dire sempre sì a tutto”, conclude.
A Meloni e Donzelli, scrive: “Come sai perfettamente, qui a Genova la coalizione di centro-destra ha perso il comune con un risultato di Fratelli d’Italia che io reputo molto al di sotto di quello che avrebbe dovuto essere. Prendo atto, con amarezza, del silenzio assordante di chi ha avuto – e ha tuttora – la responsabilità del Partito, prima e dopo la sconfitta alle elezioni comunali genovesi ergendosi da tempo come uomo solo al comando. Responsabilità disattese, seppure con un controllo assoluto del partito, non disgiunto da condotte e prese di posizione che debbo definire alquanto personalistiche. Ho scritto, e lo confermo, che dovremmo chiedere scusa ai cittadini genovesi. A coloro che si aspettavano da noi ben altro: un contributo forte, concreto, per tenere la città sulla giusta via. Per il Partito ho dato molto, soprattutto per farlo crescere. Ho vinto un Congresso – l’unico celebrato sul territorio dal mio ingresso nel 2015 – ma non sono riuscito ad arginare l’azione di chi ha le leve del potere locale e che continua a gestirlo in modo proprietario, autoreferenziale, puntando solo al minimo sindacale in termini di poltrone. Il cittadino, il territorio e soprattutto la crescita del Partito sono stati dimenticati. I numeri delle ultime comunali parlano chiaro
(da Genova 24)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
INTERVISTA AL GIURISTA MATTEO ASTUTI
Non è la prima volta che l’Italia finisce sotto la lente del Consiglio d’Europa per il comportamento delle proprie forze dell’ordine. Già nell’ottobre 2024, infatti, un report dell’ECRI, l’organismo contro il razzismo dell’organizzazione di Strasburgo, aveva denunciato pratiche di profilazione razziale sistematica anche da parte della polizia italiana, in particolare verso cittadini stranieri o percepiti come tali.
La reazione del governo Meloni allora fu durissima: la presidente del Consiglio liquidò le accuse come “ingiurie” verso “donne e uomini in divisa che meritano rispetto”, mentre Salvini, Piantedosi, Delmastro e Nordio si allinearono accusando l’ECRI e il Consiglio d’Europa di attacchi infondati e addirittura proponendo, nel caso della Lega, il taglio dei fondi.
Otto mesi dopo, con un nuovo documento dell’ECRI che riporta le risultanze del lavoro di ottobre diventa il pretesto, per riaprire la questione. Ma per chi lavora sul tema, il problema non si è mai chiuso.
Lo conferma Matteo Astuti, operatore legale, membro di ASGI che da anni, insieme a diverse associazioni e collettivi anti-razzisti studia e documenta le pratiche discriminatorie alle frontiere e nel territorio nazionale, e lo fa partendo da un nodo tanto semplice quanto emblematico: non esistono dati ufficiali pubblici che permettano di capire quanto sia diffusa la profilazione etnico-razziale da parte delle
forze dell’ordine in Italia. Ecco perché, forse, proprio per questo, il fenomeno riesce a mimetizzarsi.
Il buco nero dei dati: “Non esistono, l’unico modo per ottenerli è monitorare spazi pubblici e fare dispendiose osservazioni”
“Il vero cortocircuito di tutto questo sistema è che non esistono dati ufficiali. Questo significa che se vogliamo capire se la profilazione razziale esiste ed è sistemica, dobbiamo impiegare molto tempo e risorse nell’osservazione del fenomeno”, spiega Astuti. E questo è esattamente ciò che ha provato a fare ASGI negli ultimi anni, in particolare attraverso i progetti Medea e Antidiscriminazione, sempre con il prezioso supporto di altre realtà, quali il progetto Yaya di Ferrara. Tutto comincia alla stazione di Ventimiglia, snodo cruciale ai confini tra Italia e Francia: “Abbiamo rilevato una pratica sistematica della polizia: impedire l’accesso ai binari a persone nere o comunque razzializzate, per evitare che salissero sui treni diretti in Francia”. Il monitoraggio è stato intenso e partecipato, documentato per mesi. E ciò che è emerso è un quadro inequivocabile: “Una prassi strutturale, non episodi isolati”.
Controlli e discriminazioni: i numeri che il governo non vuole vedere
Dal lavoro sul campo si è passati poi a quello di ricerca giuridica e statistica: “Abbiamo inviato una segnalazione al CERD, il comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale”, racconta Astuti. E anche in quel caso il nodo è tornato a essere lo stesso: i dati non esistono ufficialmente, oppure sono conservati in database a cui è difficilissimo accedere. Ma nel 2024, fu proprio una inchiesta pubblicata da La Repubblica ad allarmare, evidenziando dati che riferivano di un ricorso generalizzato al controllo di polizia estremamente diffuso oltre 54 milioni di persone controllate in un anno
Nessun rimedio, nessuna prova: il vuoto giuridico
Il problema, tuttavia, non è solo quantitativo, ma anche e soprattutto giuridico: “Quando una persona viene fermata dalla polizia e ritiene di esserlo stata solo per il colore della pelle, non ha alcun provvedimento da impugnare: non riceve alcun documento, non c’è traccia. E quindi, come lo dimostri?”. Questa assenza di tracciabilità rende impossibile quindi per le persone profilate accedere a rimedi effettivi. Gli organismi formalmente deputati alla raccolta di segnalazioni relative a pratiche discriminatorie esistenti ricevono pochissime segnalazioni: “Non solo perché poco conosciuti, ma anche perché non sono organi completamente indipendenti,”, denuncia Astuti.
Soluzioni? Sì, ma la politica sembra ignorarle
Eppure, strumenti per contrastare la profilazione esistono. Alcuni sono tecnici, come il codice identificativo per gli agenti o le bodycam. Ma, oltre a tutti questi importanti e necessari strumenti, la proposta aggiuntiva che avanza ASGI è un’altra: “Se ogni controllo generasse un atto formale, una ricevuta, un verbale, anche sintetico, consegnato alla persona fermata, allora ci sarebbe una traccia. E quella traccia potrebbe diventare prova in caso di discriminazione”. Ma fino ad oggi, l’Italia sembra ancora molto lontana da questa prospettiva. Anzi, la risposta istituzionale sembra andare proprio nella direzione opposta. “Le reazioni del governo a questo tipo di richiami, prima lo scorso ottobre, ora di nuovo, appaiono scomposte”, osserva Astuti. Meloni, infatti, anche questa volta difende “senza se e senza ma” le forze dell’ordine, Salvini attacca il Consiglio d’Europa, mentre una parte dell’esecutivo sembra attivamente delegittimare ogni forma di controllo esterno sul rispetto dei diritti fondamentali. E non sembra un caso, dice Astuti, che questa nuova ondata di polemiche arrivi mentre si discute del nuovo
decreto sicurezza e dopo che il governo ha promosso un documento per limitare l’autonomia della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il tutto mentre le segnalazioni internazionali si susseguono ormai da tempo: “Non solo il Consiglio d’Europa, ma prima anche il CERD e l’EMLER (un meccanismo di monitoraggio indipendente), due organismi dell’ONU, hanno denunciato questi fenomeni negli ultimi anni”, ricorda.
Non possiamo dunque dire con certezza scientifica che in Italia la profilazione razziale sia sistematica, perché non abbiamo i dati. Ma possiamo dire che gli elementi raccolti fino ad ora in Italia indicano chiaramente un problema serio, strutturale e negato da una parte della politica. Ed è proprio su questo cortocircuito, tra mancanza di trasparenza, assenza di strumenti giuridici e rimozione politica, che si alimenta il rischio che la discriminazione si trasformi in sistema. Invisibile, ma presente, ogni giorno.
(da Fanpage)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
ECCO COME BUFALE E FALLACI LOGICHE STANNO CERCANDO DI ALLONTARE I CITTADINI DAL VOTO
Il dibattito sul referendum fatica a decollare, complice anche la scelta della destra al
governo di puntare sull’astensione. Ma, anche dove il confronto si accende, spuntano bufale, mezze verità e fallacie logiche che finiscono per confondere, più che informare.
Per questo serve raccogliere e smontare una per una le principali obiezioni contro il referendum, con risposte documentate, dati, leggi, e link per chi vuole verificare tutto in prima persona.
Spoiler: sì, la tutela contro i licenziamenti incide anche sui salari. No, il Jobs act non garantisce più mensilità della legge Fornero. E no, Landini non incasserà un rimborso milionario in caso di quorum. Sono questioni un po’ più complesse di così. Ma, per fortuna, anche molto più chiare, una volta capite.
Il benaltrismo dei salari tra licenziamento e costo del lavoro
Una delle obiezioni più ricorrenti contro il referendum è che il problema vero non sarebbe la reintegra, ma “ben altro”: i bassi salari, il costo del lavoro, la produttività.
È una strategia retorica nota — il benaltrismo — che sposta l’attenzione da una questione a un’altra, che però nemmeno si affronta, ma che si utilizza solo per evitare di affrontare nel merito la prima. Per evitare di incappare in questa fallacia logica, bisogna riuscire a mantenere l’attenzione sul tema iniziale: i primi due quesiti del referendum riguardano il licenziamento ingiustificato, e su questo dovremmo informarci, capire, esprimerci.
In questo caso, però, possiamo anche lasciarci distrarre dal benaltrismo sugli stipendi, perché in effetti il nesso tra tutela contro i licenziamenti e salari è tutt’altro che secondario. Al contrario: la possibilità di licenziare senza giusta causa, e senza una sanzione effettiva come la reintegrazione, riduce il potere contrattuale de
lavoratori e contribuisce anche alla compressione dei salari. Quando la protezione è più debole, quando il rischio di perdere il posto rende il lavoro precario, si finisce per essere più disponibili ad accettare condizioni di lavoro peggiori e manca la forza per rivendicare una retribuzione più alta.
C’è una seconda obiezione benaltrista che entra più nello specifico e riguarda il costo del lavoro. Negli ultimi anni è infatti passato il messaggio secondo cui i problemi del mondo del lavoro deriverebbero direttamente dall’eccessivo peso fiscale e contributivo caricato sulle imprese: se fossero ridotti i costi legati agli stipendi, si sostiene, i datori di lavoro potrebbero aumentarli. Questa teoria è però smentita dai fatti e lo dimostrano i dati Istat sul carico fiscale e contributivo. Secondo l’analisi a prezzi costanti (quindi al netto dell’inflazione), dal 2007 al 2020, i contributi sociali a carico dei datori di lavoro sono diminuiti del 4%, anche grazie a varie misure di decontribuzione (cioè lo Stato che paga i contributi al posto delle imprese). Nonostante ciò, la retribuzione netta a disposizione dei lavoratori si è ridotta del 10%. In altri termini: nonostante lo sgravio per le imprese, non solo i salari non sono aumentati, ma la retribuzione netta è addirittura calata. Confidare nella generosità delle imprese per migliorare le condizioni di lavoratrici e lavoratori è una strategia ingenua, se non connivente, visto che, con queste misure, presentate come migliorative per i lavoratori, sono aumentati non i salari ma i margini di profitto aziendali.
Il problema, ancora una volta, è il potere negoziale. Se chi lavora è precario non è in condizione di contrattare e le eventuali riduzioni del costo del lavoro si fermano prima di arrivare al salario. Insomma, non si può parlare di retribuzioni senza guardare al contesto di forza e di diritti che le rende possibili, e che comprende anche la tutela effettiva contro i licenziamenti illegittimi.
L’aritmetica delle mensilità: davvero il Jobs act dà più soldi?
C’è poi chi sostiene che, con il Jobs Act, i lavoratori ingiustamente licenziati riceverebbero più soldi rispetto a quanto previsto dall’articolo 18, modificato dalla legge Fornero. È una tesi che si regge sulla speranza che pochi andranno davvero a controllare che cosa dice la legge. E funziona, perché i testi normativi sono spesso scritti in modo tecnico e oscuro, e non è affatto strano che chi non ha conoscenze giuridiche si affidi a letture semplificate. Proprio per questo è importante fare chiarezza: basta leggere con attenzione, e fare due conti, per scoprire che le cose non stanno affatto così.
In origine, il decreto legislativo 23 del 2015 (che il primo quesito referendario intende abrogare) prevedeva un’indennità automatica (poi dichiarata incostituzionale) compresa tra 4 e 24 mensilità. Successivamente, il cosiddetto Decreto Dignità ha alzato i tetti: da 6 a 36 mensilità.
Ma davvero l’attuale articolo 18 prevede di meno? No.
Primo. Perché, a differenza di quanto stabilito dal Jobs Act, offre più possibilità di reintegrazione. Non solo nei casi di licenziamento nullo, orale o discriminatorio, ma anche in caso di “insussistenza del fatto”. Questa locuzione è interpretata dai giudici in modo estensivo, comprendendo anche i casi di licenziamento sproporzionato (per i quali il Jobs Act prevede soltanto un risarcimento economico). La reintegrazione invece vale di più: impone all’impresa di riammettere il lavoratore, e ha quindi un forte effetto dissuasivo. Una sanzione puramente monetaria può essere irrilevante per un’azienda con ampi margini di profitto. Un obbligo di reintegra, invece, incide sull’organizzazione aziendale e comporta un rischio concreto per chi licenzia senza giusta causa. Proprio questo rischio rafforza la posizione del lavoratore anche nella trattativa: se il datore di lavoro vuole evitare la reintegrazione, dovrà negoziare tenendo conto di una
prospettiva per lui più scomoda, in cui non ha più il pieno controllo delle conseguenze del licenziamento.
Secondo. È sbagliato confrontare le 36 mensilità del Jobs Act post-Decreto Dignità con le 24 dell’articolo 18 post-Fornero, perché nel secondo caso l’indennità si aggiunge alla reintegrazione. Ma quanto vale la reintegrazione? La legge Fornero ne ha quantificato il valore monetario: il lavoratore può rinunciarvi in cambio di una somma sostitutiva pari a 15 mensilità.
Spostando quindi l’analisi dal diritto all’aritmetica, il conto è presto fatto: 15 mensilità sostitutive della reintegrazione più un’indennità fino a 24 mensilità = 39 mensilità complessive. Un importo superiore al massimo previsto dal Jobs Act (36 mensilità), e questo senza nemmeno considerare il valore simbolico e strategico della reintegrazione.
La Consulta ha già corretto tutto? No, e nemmeno potrebbe
Il decreto legislativo 23 del 2015 è già stato corretto dalla Corte costituzionale. Tra le norme di età repubblicana, questo provvedimento del Jobs act ha il record di censure della Consulta: ben cinque sentenze di illegittimità costituzionale, con altrettante parziali abrogazioni. A queste si aggiungono altre pronunce che, pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate, hanno sottolineato altre criticità, con l’invito al legislatore di intervenire (invito che non è però stato raccolto).
Ma, se questo provvedimento è già stato corretto così tante volte, che motivo c’è di eliminarlo del tutto?
Intanto, perché non è affatto detto che le correzioni abbiano risolto ogni problema. Nel nostro ordinamento ci possono essere (e ci sono) leggi incostituzionali, che però non sono dichiarate tali, e abrogate, perché magari la materia non è stata ancora affrontata in giudizio, o perché non è affrontabile in causa e quindi è pressoché impossibile
sollevare una questione di legittimità costituzionale in via incidentale (cioè l’unico modo con cui i cittadini hanno modo di appellarsi al giudice incostituzionale). O, ancora, perché magari la norma è incostituzionale ma il ricorso presentato ha vizi di forma o è carente nella motivazione. Queste circostanze, però, non implicano che la legge in questione sia costituzionale, o anche semplicemente giusta.
In ogni caso, comunque, la Corte costituzionale non può sindacare sulla discrezionalità del legislatore, ma deve limitarsi alla correzione dei soli elementi incostituzionali. I miglioramenti non possono che passare da un intervento politico e normativo, che non rientra tra i poteri della Consulta. Una disciplina organica e funzionale dovrebbe quindi passare dall’intervento legislativo del Parlamento. Quando però la volontà politica manca, anche un quesito referendario abrogativo, pur limitato, può avere più impatto di una sentenza costituzionale.
No, il referendum non ci porta dalle conquiste renziane al caos
Alcune obiezioni al referendum fanno leva sulla cosiddetta fallacia della brutta china: un trucco retorico che consiste nel prospettare, in modo arbitrario, una catena di conseguenze disastrose che deriverebbero inevitabilmente da una certa scelta. È una tecnica ricorrente in politica, soprattutto su posizioni reazionarie: le unioni civili che disgregherebbero la “famiglia naturale”, la legalizzazione della cannabis che porterebbe al collasso della società, e così via.
Nel caso del referendum, si sostiene che un eventuale sì distruggerebbe le misure sociali introdotte dal governo Renzi, o che farebbe sprofondare il diritto del lavoro nel caos: eliminando alcune leggi, si renderebbe necessario un nuovo intervento legislativo, e non è affatto detto che sarebbe migliore di ciò che si intende abrogare.
Quest’ultima obiezione è del tutto infondata. Perché un quesito sia
ritenuto ammissibile, deve produrre un effetto coerente e autosufficiente: l’abrogazione proposta deve reggersi da sola, senza bisogno di norme integrative. Se vincesse il sì, le disposizioni oggetto del referendum verrebbero eliminate, ma l’ordinamento resterebbe logicamente integro. È vero che la politica potrebbe approvare riforme peggiori, ma questo rischio esiste a prescindere dal referendum.
Un altro equivoco diffuso riguarda i presunti “lati positivi” del Jobs Act. Qui c’è confusione, soprattutto rispetto al primo quesito referendario. Votando sì sulla scheda verde chiaro non si mira ad abrogare il Jobs Act, ma solo il decreto legislativo 23 del 2015.
Con “Jobs Act”, durante il governo Renzi, si è voluto indicare una riforma complessiva del lavoro, articolata in un decreto legge, una legge delega e ben nove decreti legislativi. Alcuni di questi hanno introdotto novità, altri si sono limitati a riordinare la normativa esistente.
Abrogare il decreto 23/2015 significa eliminare esclusivamente la disciplina sul contratto a tutele crescenti e, con essa, le regole sui licenziamenti ingiustificati introdotte da quel provvedimento. Tutto il resto del Jobs Act resterebbe in vigore.
Non verrebbero toccati né la NASpI né la DIS-COLL, resterebbe la procedura telematica contro le dimissioni in bianco, così come le norme sul lavoro agile e sulle collaborazioni etero-organizzate. Nessun crollo dell’impalcatura sociale, solo l’eliminazione di norme che hanno ristretto i casi di reintegra in caso di licenziamento illegittimo.
Un’obiezione più politica riguarda infine gli effetti della riforma. Si dice: con il Jobs Act è aumentata l’occupazione, quindi eliminarne una parte comprometterebbe quei risultati. Ma davvero il merito di quell’aumento sarebbe la possibilità di licenziare più facilmente, o di
assumere a termine senza causali?
La risposta onesta è: non si sa.
Per vari motivi. Primo, perché gli indicatori Istat considerano “occupato” chiunque abbia lavorato anche solo un’ora nella settimana di riferimento o sia temporaneamente assente: un criterio che, sotto qualunque governo, non restituisce la reale quantità e qualità del lavoro, né dice nulla sul benessere dei lavoratori.
Secondo, perché le dinamiche dell’occupazione dipendono da fattori macroeconomici spesso indipendenti dalla normativa: la crisi del 2008 o la pandemia del 2020 avrebbero colpito il mercato del lavoro a prescindere dal sistema vigente, così come una fase di ripresa economica può favorire l’occupazione anche senza meriti specifici del governo in carica.
Infine, perché l’introduzione del contratto a tutele crescenti fu accompagnata da massicce decontribuzioni: lo Stato si è accollato parte dei contributi previdenziali per i nuovi assunti, riducendo artificialmente il costo del lavoro per le imprese e incentivando le assunzioni.
La verità dietro lo scoop del rimborso milionario a Landini
Uno degli argomenti più ripresi negli ultimi giorni è quello secondo cui la CGIL, e in particolare Maurizio Landini, avrebbero un interesse economico diretto nel successo del referendum sul lavoro. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, la vera posta in gioco sarebbe il “premio” di 2,5 milioni di euro che lo Stato verserebbe in caso di raggiungimento del quorum. Ma il racconto è fuorviante su più livelli.
C’è anzitutto da chiarire che il rimborso non andrebbe né a Landini personalmente né alla CGIL in quanto tale. A beneficiare dell’eventuale contributo pubblico sarebbe il comitato promotore del referendum, che è un soggetto distinto, benché composto anche da
rappresentanti del sindacato.
C’è poi una rimozione evidente: la democrazia ha un costo. Anche i partiti politici ricevono risorse pubbliche, benché il finanziamento diretto sia stato formalmente abrogato. Nel 2022, ad esempio, la Camera e il Senato hanno trasferito complessivamente oltre 53 milioni di euro ai gruppi parlamentari. Il rimborso elettorale previsto per i promotori di referendum che raggiungono il quorum non è dunque un’anomalia, ma uno degli strumenti con cui la Repubblica sostiene la partecipazione democratica. Questa partecipazione, peraltro, non è finalizzata all’elezione di rappresentanti, da cui possono derivare incarichi o remunerazioni: si limita a consentire ai cittadini di esprimersi su singole norme, che vengono mantenute o abrogate. I promotori non conseguono da ciò un potere diretto o un ritorno personale.
Sul tema del costo della democrazia vale la pena soffermarsi: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è stata uno degli esiti più visibili di una stagione populista che ha cavalcato l’antipolitica con la promessa di una democrazia “a costo zero”. Ma il risultato non è stato un sistema più equo, trasparente o vicino ai cittadini. È stato piuttosto un sistema in cui chi rappresenta gli interessi dei più poveri deve autofinanziare la propria voce, mentre chi fa gli interessi delle classi dominanti può contare sul sostegno di grandi donatori, lobby economiche o campagne mediatiche milionarie e parte quindi in vantaggio.
Sostenere economicamente i processi democratici, compresi i referendum, non è allora un privilegio, ma una garanzia: che a contare non siano solo le risorse di chi ha già potere, ma anche la possibilità per chi rappresenta i diritti sociali, i lavoratori e le minoranze di far sentire la propria voce.
Tra l’altro, per il referendum sul lavoro del 2017 (dichiarato
ammissibile e poi annullato alla luce della frettolosa abolizione dei voucher da parte del governo Gentiloni), la CGIL aveva già investito, come si legge nei suoi bilanci, circa 2,3 milioni di euro, senza ricevere nulla in cambio. Non si tratta quindi di una manovra per “lucrare” sul voto, ma di un meccanismo pubblico che serve a garantire che anche soggetti non partitici possano organizzare campagne nazionali, sostenendone i costi.
In ogni caso, non bisogna perdere di vista il punto centrale: si vota sul merito dei quesiti, non per simpatia o dispetto verso chi li ha proposti. Screditare i promotori per delegittimare i contenuti è il più vecchio trucco per evitare di entrare nel merito delle questioni. E rifiutare di partecipare al voto solo per impedire al comitato referendario di ricevere un rimborso pubblico sarebbe come sperare nel fallimento dell’azienda in cui si lavora così da impedire al titolare di ottenere un profitto: si finisce per danneggiare sé stessi pur di colpire qualcun altro.
Il cortocircuito logico sulla cittadinanza
Lo stesso riflesso che porta a rinunciare a un diritto pur di impedire un vantaggio ad altri sembra riemergere anche nelle critiche al quesito sulla cittadinanza. La proposta referendaria prevede di ridurre da dieci a cinque anni il requisito di residenza legale e continuativa per poter presentare domanda, lasciando invariati gli altri criteri: conoscenza della lingua italiana, assenza di precedenti penali, capacità di mantenersi e di contribuire fiscalmente. Nulla di automatico o immediato, insomma.
Si potrebbe discutere a lungo sull’idea che la cittadinanza debba essere “meritata”: la maggior parte di chi oggi è cittadino italiano lo è per nascita, non per merito. Anch’io lo sono, e non ho dovuto dimostrare nulla a nessuno. Ma lasciamo pure da parte l’etica, e passiamo alla logica.
C’è chi sostiene che i quesiti sul lavoro siano usati come traino per quello sulla cittadinanza, costringendo gli elettori a un sì collettivo e inconsapevole. È un’obiezione che sottovaluta l’intelligenza di chi vota: ogni quesito ha una scheda distinta, si può dire sì, no, o addirittura ritirare selettivamente le schede. Nessun trucco, nessun complotto. Semplicemente, le raccolte firme hanno avuto tempi compatibili, e accorpare il voto è una scelta logistica ed economica, già vista in molti altri casi. Nel 1981 si votava contemporaneamente su aborto, ergastolo e porto d’armi; nel 1987, su centrali nucleari e responsabilità civile dei magistrati. Nessun dubbio di manipolazione dell’elettorato. Perché oggi dovrebbe essere diverso?
Tra l’altro, cittadinanza e lavoro non sono mondi separati. Anzi. È singolare battersi per la dignità del lavoro e accettare, nello stesso momento, che migliaia di lavoratori stranieri vivano in una precarietà radicale, ben più profonda, che danneggia anche i lavoratori italiani. Gli stranieri che in Italia lavorano, pagano le tasse, rispettano le leggi, devono comunque avere un permesso di soggiorno da rinnovare periodicamente. Uno dei requisiti per ottenere e rinnovare il permesso di soggiorno è proprio il lavoro: significa che un licenziamento può costare non solo il reddito, ma anche il diritto a restare in Italia. Di fronte a questa minaccia, gli spazi di rivendicazione si restringono e i lavoratori stranieri finiscono per diventare, loro malgrado, concorrenza sleale. Regolarizzare stabilmente queste persone, garantendo la possibilità di richiedere la cittadinanza prima, significa tutelare anche i lavoratori italiani e togliere un esercito di riserva a chi preferisce manodopera silenziosa e obbediente.
Un’altra obiezione frequente è che si voglia “regalare” la cittadinanza per avere più voti. Al di là del fatto che, visti i requisiti e la trafila burocratica, la procedura di ottenimento della cittadinanza
è tutt’altro che un regalo, l’idea che tutti gli stranieri voterebbero allo stesso modo è rivelatrice. Rivela che non si parla di persone, ma di categorie astratte, indistinte. Si presuppone che chi nasce altrove non abbia idee proprie, convinzioni, differenze: uno stereotipo di alieno privo di identità. Paradossalmente, si arriva a sostenere che questi cittadini potenziali sarebbero insieme culturalmente arretrati e politicamente allineati al progressismo.
Il quorum tra vigliaccheria e sabotaggio democratico
Infine, una delle operazioni più subdole – e più riuscite – della propaganda contro il referendum: trasformare un’occasione di partecipazione democratica in un sospetto, una trappola, una manipolazione. Basta condividere un articolo o un video informativo per vedere comparire commenti e card con slogan prefabbricati, disegni di pecore e caricature da meme: “Io vado al mare!”. Sono scorciatoie mentali, riflessi automatici per evitare il confronto e il merito. Ma così si calpesta il principio stesso della sovranità popolare.
Ed è paradossale che proprio chi invoca continuamente l’elettorato come fonte di legittimità rifiuti il giudizio popolare quando questo può davvero incidere su norme che riguardano lavoro, diritti e comunità. Se la volontà dei cittadini conta davvero, se la sovranità popolare è sacra, non si dovrebbe temere di interpellarla.
Invece, si preferisce soffocare il dibattito prima ancora che le persone si informino, svuotando il referendum di senso. È un disinnesco sottile che passa attraverso l’invito all’astensione: senza spiegazioni, senza analisi, senza affrontare davvero i quesiti.
Non è solo tifo politico o ignoranza: è un sabotaggio della democrazia diretta. L’abbiamo visto con Craxi, con i DS, con Renzi per il referendum sulle trivelle. Oggi lo vediamo di nuovo, con La Russa che invita apertamente a non votare
Ma a La Russa non cambierebbe nulla se fosse ripristinata la reintegrazione per licenziamento ingiustificato. Sono gli elettori del suo partito, invece, che dovrebbero interessarsene. Perché allora raccontare che si tratta solo di una resa dei conti a sinistra? Perché ridurre tutto a una questione di partiti, quando le leggi valgono per tutti, non solo per chi ha votato PD o è iscritto alla CGIL?
Le leggi sul divorzio e sull’aborto sono ancora in vigore perché il popolo le ha difese, informandosi, discutendo, recandosi ai seggi per votare no. Avrebbe potuto disertare le urne e sperare nel mancato raggiungimento del quorum, invece partiti e movimenti avevano chiara la posta in gioco: sapevano che la democrazia non si subisce, si esercita.
Quanto è vigliacco oggi fare leva sulla fiducia dei propri elettori per convincerli a non partecipare. Dire a chi ha votato la Lega o Fratelli d’Italia – magari anche per reazione alle forzature del passato – di restare a casa è un inganno, una forma di paternalismo mascherato da strategia. È chiedere ai propri sostenitori di non farsi domande, quando invece potrebbero avere tutto l’interesse a votare diversamente da chi li rappresenta.
A chi si chiede se andare a votare, va allora ricordato che questo referendum non è un voto di fiducia verso chi lo ha promosso, né un’occasione per punire qualcuno. Non è un plebiscito, né una conta tra sinistra e destra. È un’opportunità concreta per esprimersi su leggi precise che toccano la vita reale delle persone. La domanda è semplice e diretta: vuoi che queste norme siano eliminate, oppure no? Ed è una domanda che, qualunque sia la risposta, sottende un’affermazione: che il voto conta, e vale più del silenzio.
(da Fanpage)
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Maggio 31st, 2025 Riccardo Fucile
PER I BANDI DEL PNRR SOPRA AI 5 MILIONI DI EURO, SOLO IL 2% DEI CANTIERI È CONCLUSO E L’80% DI QUELLI IN CORSO RISULTA IN RITARDO
Avverte il Governatore di Bankitalia Fabio Panetta, «il percorso di risanamento dei conti pubblici è solo all’inizio». Ed è agganciato in modo non marginale alle sorti del Pnrr.
L’ancora di salvezza lanciata dal Piano però traballa. Panetta riconosce sia che l’utilizzo dei fondi Ue «ha sostenuto l’economia negli ultimi anni» sia che la completa attuazione nel biennio 2025-2026 «potrebbe innalzare il prodotto dello 0,5%».
Ma batte sul tasto dolente delle opere pubbliche che arrancano: «I dati attualmente disponibili suggeriscono l’esistenza di ritardi».
E avverte: «In una fase di debolezza ciclica è essenziale procedere con determinazione nell’attuazione degli interventi». Investimenti e anche riforme: entro giugno 2026, ad esempio, deve andare in porto il federalismo fiscale e vanno raggiunti i target in materia di giustizia.
La Relazione annuale di Bankitalia sostanzia la preoccupazione, numeri alla mano. Secondo l’elaborazione basata su dati Italia Domani e Anac, le risorse Pnrr gestite da attuatori pubblici che potrebbero richiedere una gara ammontano a quasi 93 miliardi.
A fine 2024, per circa il 70% erano stati emanati i bandi. Quasi l’80% delle gare pubblicate, per quasi 50 miliardi, è stato aggiudicato. Gli appalti banditi per opere pubbliche valgono 45 miliardi, l’85% dei quali è stato affidato al soggetto esecutore.
Come fotografato dalle Casse edili, a marzo il 58% delle gare per lavori pubblici aggiudicate aveva avviato o terminato la fase esecutiva. I lavori risultavano conclusi per due quinti dei cantieri avviati, ma tra quelli ancora aperti il 70% è in ritardo
Più grandi sono le opere, maggiori le difficoltà: dei bandi sopra ai 5 milioni (il 5% delle gare pubblicate), solo il 2% dei cantieri era concluso e circa l’80 di quelli in corso risultava in ritardo.ù
(da agenzie)
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